A proposito dei “nuovi criteri” dell’assegno divorzile: l’evoluzione giurisprudenziale e la soluzione delle Sezioni Unite

A proposito dei “nuovi criteri” dell’assegno divorzile: l’evoluzione giurisprudenziale e la soluzione delle Sezioni Unite

Com’è noto, la materia della solidarietà post-coniugale, in generale, e dell’assegno divorzile, in particolare, come anche tutta la disciplina del diritto di famiglia, è stato caratterizzata negli anni da rilevanti e profonde modificazioni legate, soprattutto, all’evoluzione legislativa e giurisprudenziale, da un lato, e socio-culturale, dall’altro, vista la stretta connessione della materia al “sentire sociale”, tanto che Autorevole dottrina ha parlato di rivoluzione “copernicana” (riprendendo l’espressione utilizzata da Danovi).

Tali profonde modificazioni sono stati il prodotto di riforme legislative e di arresti giurisprudenziali: dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha affermato la parità dei coniugi, sostituendo la patria potestas derivante dal diritto romano al marito, dalla legge n. 54 del 2006, che ha sancito la pari responsabilità genitoriale, dal D. Leg. 12/219 e dal D. Leg 13/154 di attuazione, che ha riconosciuto lo status unico dei figli e, più recentemente, dalla L. 16/76, che disciplina le convivenze e le unioni omoaffettive. In tale quadro rivoluzionario, si inserisce anche la disciplina dell’assegno divorzile.

Ab origine, prevista nell’art. 5, comma 4, della L. 70/898, tale misura periodica trovava la sua ratio nell’esigenza di assicurare una sorta di ultrattività del matrimonio anche dopo lo scioglimento del vincolo, esigenza che trovava riscontro specie nella corrente cristiana e che ha visto successivamente l’accoglimento del Legislatore, anche al fine di contemperare le diverse posizioni in sede di istituzione della legge sul divorzio. Secondo la dottrina e la giurisprudenza tradizionali, l’assegno in questione aveva natura mista, essendo rinvenibile nell’art. 5, comma 4, una triplice funzione assistenziale, risarcitoria-indennitaria e compensativa. In particolare, secondo i giuristi ed i giudici dell’epoca, tale natura composita era desumibile dai criteri enucleati dalla norma, per cui la funzione assistenziale derivava dal criterio di valutazione delle condizioni economiche dei coniugi; quella risarcitoria-indennitaria dalle ragioni della decisione; quella, infine, compensativa dal contributo economico e morale apportato al ménage e alla relazione familiare. In specie, tutti i criteri erano equiordinati e valutati dal giudice ai fini del riconoscimento e della determinazione dell’assegno divorzile ma, come osservato da attenta dottrina e giurisprudenza, comportavano un’eccessiva ed ampia discrezionalità del giudice (cfr. SS.UU. 74/1194, confermata dalle SS.UU. del ’75).

Peraltro, già nel 1975, la Corte Costituzionale (CC 75/156) aveva negato il carattere alimentare dell’assegno di divorzio, presupponendo il primo il mantenimento in essere del vincolo, mentre il secondo il suo scioglimento definitivo.

Le criticità messe in luce dalla giurisprudenza circa l’ampia discrezionalità attribuita dalla norma in capo al decidente, inducevano il Legislatore ad attuare una riforma della disposizione con la L. 87/74, prevedendo nell’attuale testo dell’art. 5, comma 6, l’ulteriore criterio, ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile, dell’inadeguatezza dei mezzi e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive da parte del richiedente. Il criterio dell’adeguatezza dei mezzi si pose al centro di un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale e che vide opposti due orientamenti giurisprudenziali. Secondo un primo orientamento (espresso per la prima volta dalla C. 90/1652) l’adeguatezza dei mezzi doveva interpretarsi come adeguatezza a vivere una “vita libera e dignitosa”. Secondo l’orientamento opposto, il parametro interpretativo del criterio inserito dal Legislatore dell’87, era, invece, quello tenore di vita goduto in costanza di matrimonio (cfr. C. 90/1322 e C. 90/2799).

Il contrasto tra le Sezioni semplici, veniva risolto dalla storica sentenza delle SS.UU. 90/11490, che, aderendo alla tesi del tenore di vita, ne consacrava “il tetto massimo” e unico criterio determinativo ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile, relegando agli altri criteri indicati nell’art. 5, comma 6, la sola funzione di criteri determinativi. Appare opportuno ricordare che pochi mesi prima della sentenza n. 90/11490 delle Sezioni Unite, Autorevole voce dottrinale (Gabrielli), intervenuto in commento sulla vexata quaestio, arrivava alla conclusione per cui il tenore di vita rappresenta il “tetto massimo”, mentre il diritto agli alimenti la base minima, nel cui mezzo oscilla la determinazione del quantum dell’assegno.

La portata e l’importanza storica delle Sezioni Unite del 1990 è misurabile già solo considerando il tempo per  cui il principio di diritto ivi sancito è stato applicato costantemente dai giudici di merito.

Solo nel 2013, con una rimessione innanzi alla Corte Costituzionale da parte del Tribunale di Firenze, si pose in dubbio il dogma del “tenore di vita”. Secondo i giudici fiorentini, infatti, il criterio dell’adeguatezza dei mezzi, interpretato sulla base del solo criterio del “tenore di vita”, si poneva in contrasto con il “diritto vivente”, essendo inadeguato ai nuovi valori della realtà sociale. La Corte Costituzionale (CC 15/11) riteneva infondata la questione di legittimità costituzionale, anche fondando la propria motivazione sul rilievo che il tenore di vita (così come interpretato dalla SS.UU. del 1990) costituiva non già l’unico criterio, bensì il “tetto massimo” della misura periodica, sicché, determinato l’an, la valutazione degli altri criteri poteva anche condurre all’azzeramento dell’assegno di divorzio nella definizione, in concreto, del quantum.

Tuttavia, l’incidente di costituzionalità sollevato dal Tribunale di Firenze nel 2013 aveva tracciato un solco che è stato recentemente percorso dalla C. 17/11504, che, in riforma totale del criterio storico del tenore di vita, ha introdotto e sostituito a questo il criterio dell’indipendenza economica (analogamente a quanto previsto dall’art. 337-septies per il figlio maggiorenne), fondato sul principio di autodeterminazione e di autoresponsabilità dei coniugi e svincolato in tutto dal precedente vincolo matrimoniale. Secondo la C. 17/11504 il giudice ai fini dell’accertamento dell’an dovrà valutare solo l’indipendenza economica del richiedente prendendo in considerazione, a tali fini, le dichiarazioni reddituali, i cespiti immobiliari e mobiliari, l’attività professionale svolta, nonché quella potenziale, ferma la composizione bifasica del procedimento logico che deve condurre il giudice.

Nonostante l’accoglimento con favore del nuovo principio di diritto da parte della giurisprudenza maggioritaria, altra parte della giurisprudenza tendeva a mitigare il rigorismo dettato dall’applicazione del criterio dell’indipendenza economica (significativamente le sentenze del Tribunale di Udine e di Arezzo del 2017  e della Corte di Appello di Napoli e di Milano del 2018). In tale contesto di incertezza giurisprudenziale si rendeva necessario l’intervento della Suprema Corte che, nella sua massima espressione, in effetti, è intervenuta con la recentissima sentenza SS.UU. 18/18287.

Le Sezioni Unite del 2018 nel risolvere la “disarmonia” giurisprudenziale venutasi a creare in materia, dopo un ampio excursus storico dell’istituto, hanno chiarito la funzione perequativa-compensativa dell’assegno divorzile, che trova il suo fondamento nel principio solidaristico sancito dall’art. 2 Cost. Nell’affermare espressamente il principio della parità tra i coniugi pre e post vincolo matrimoniale (come desumibile dagli artt. 2,3, 29 Cost., dagli artt. 143, 144, 148, 315-bis e 316-bis del c.c., dall’art. 5 del VII Protocollo addizionale della Carta dei Diritti dell’Uomo e dall’art. 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, ma anche in un’ottica comparatistica con riferimento agli artt. 1570, 1575 e 1578 del BGB, 270 e 274 del Code Civil, quest’ultimi non richiamati esplicitamente nella sentenza), hanno statuito la natura composita dei criteri enucleati dall’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio.

Le SS.UU 18/18287 definiscono la norma autosufficiente, per cui, abbandonata la tradizionale distinzione tra criteri attributivi e determinativi, il giudice deve accertare in primo luogo l’esistenza di uno squilibrio economico tra i coniugi. Se la risposta è positiva, dovrà valutare se tale squilibrio è collegato causalmente dal ruolo endofamiliare assunto dal richiedente, dai sacrifici (personali e lavorativi) compiuti dallo stesso nella contribuzione della costruzione del mènage familiare, ovvero nella gestione della prole, che hanno comportato un deterioramento del personale reddito (anche potenziale), a vantaggio dell’altro coniuge. Peraltro, dovrà darsi preminente rilievo alla durata del matrimonio, all’età del coniuge richiedente, alle oggettive difficoltà di reinserimento nel contesto lavorativo, avendo riguardo, anche, all’autosufficienza economica dello stesso, che seppur messa a latere dalle Sezioni Unite del 2018, non viene esclusa.


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Enrico Sericola

Laureato in Giurisprudenza cum laude presso l'Alma Mater Studiorum di Bologna. Tirocinante ex art. 73 D.L. 69/2013 presso il Tribunale di Milano. Specializzando presso la Sspl "E. Redenti" di Bologna.

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