Abuso dei contratti a termine. Ambiguità della Corte di Giustizia.

Abuso dei contratti a termine. Ambiguità della Corte di Giustizia.

Ha fatto piuttosto scalpore la recente sentenza delle Sezione Unite della Corte di Cassazione (Cassazione Civile, SS.UU. sentenza 15/03/2016 n° 5072) in cui, relativamente al pubblico impiego ed al relativo abuso di contratti a termine, si afferma che il dipendente abbia sempre diritto al risarcimento del danno ex L. 183/2010 in quanto vi sarebbe la presunzione del danno subito.

Ferma restando l’impossibilità di conversione del contratto a termine in contratto a tempo determinato, previsione peculiare del nostro ordinamento che già ha posto non pochi problemi di compatibilità con la disciplina comunitaria, si tratta senz’altro di una pur parziale vittoria.

Il problema però è un altro, ovvero proprio la compatibilità con la disciplina comunitaria e la relativa giurisprudenza della Corte di Giustizia, che così tanto lineare di fatto non è.

Partiamo dalla meno problematica questione della normativa comunitaria. Essa trova il suo cardine nell’accordo quadro allegato alla Dir. 99/70, accordo con cui le associazioni intercategoriali a livello comunitario hanno elaborato una norma-cornice, ovvero hanno individuato “i principi generali ed i requisiti minimi relativi al lavoro a tempo determinato” (preambolo, III capoverso), riservando la definizione e l’applicazione dettagliata della normativa agli Stati membri e/o alle parti sociali nazionali in sede attuativa (considerazione generale n. 10). In particolare riguardo alla prevenzione degli abusi la clausola 1, lett. b) dell’accordo prevede, fra gli obiettivi perseguiti, quello di “creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato” , mostrando di considerare soltanto l’istituto del rinnovo come fonte di possibili distorsioni e non manifestando la necessità di apprestare anche specifiche tutele per la stipulazione del primo contratto. La clausola 5 definisce il quadro normativo preannunciato dalla clausola 1 per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di rapporti di lavoro a termine. Coerentemente con la riconosciuta specialità del contratto a tempo determinato, la norma indica una serie di misure aventi finalità antifrode, dirette a sanzionare l’utilizzazione incontrollata di contratti a termine successivi tra le stesse parti ovvero la continua proroga dello stesso contratto.

Come si è innestata la giurisprudenza della Corte di Giustizia su questo quadro normativo? E’ davvero così pacifico il suo orientamento “anti-abuso” sul quale, nelle loro decisioni, le Sezioni Unite hanno fatto leva? Non proprio.

Nella stragrande maggioranza dei casi i Tribunali nazionali e la Cassazione hanno richiamato, a sostegno delle proprie decisioni, la nota sentenza del 4 luglio 2006, proc. C-212/04 (Adeneler)  e le successive decisioni della Corte di Giustizia che ad essa fanno riferimento. La sentenza Adeneler ha risposto a tre questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Salonicco concernenti l’interpretazione proprio della clausola 5 dell’accordo quadro. La prima questione riguarda l’interpretazione della nozione di “ragioni obiettive” che giustificano il rinnovo di contratti a tempo determinato successivi.

Dopo aver riconosciuto che la direttiva non individua il contenuto di tale nozione, la Corte precisa che il suo senso e la sua portata devono essere determinati considerando lo scopo perseguito dall’accordo quadro (punto 60) e sottolinea che esso parte dalla premessa secondo la quale i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro (punto 61), che il beneficio della stabilità dell’impiego costituisce un elemento portante della tutela dei lavoratori (punto 62) e che, pertanto, l’accordo intende circoscrivere il ricorso ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, considerato come potenziale fonte di abuso a danno dei lavoratori, prevedendo una serie di disposizioni di tutela minima volte ad evitare la precarizzazione della situazione dei lavoratori dipendenti (punto 63).

Le “ragioni obiettive” indicate dalla clausola 5, n. 1, lett. a), devono quindi consistere in “circostanze precise e concrete caratterizzanti una determinata attività…che possono risultare segnatamente dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali siffatti contratti sono stati conclusi e dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro” (punti 69 e 79).

Il problema che tuttavia si pone, e che successivamente si è posta anche la Corte di Giustizia con un cambio di rotta che finora (pare) piuttosto ignorato dai nostri tribunali nazionali, è: quando effettivamente ci troviamo di fronte ad un abuso?

Le definizioni di “circostanze precise e concrete”, “natura delle funzioni” e “legittima finalità di politica sociale” sono piuttosto vaghe. Tanto vaghe che proprio la Corte di Giustizia con la più recente sentenza n. C-586/10 del 26 gennaio 2012 ha affermato: “Il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato può essere giustificato dall’esigenza di sostituzione anche se tale esigenza risulta ricorrente, se non addirittura permanente”.

In particolare, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi circa la corretta interpretazione della disposizione di cui all’art. 14 della legge tedesca sul lavoro a tempo parziale e sui contratti a tempo determinato (L. 21 dicembre 2000, modificata dall’art. 1 della L. 19 aprile 2007), secondo la quale “l’apposizione di un termine ad un contratto di lavoro è consentita quando sia giustificata da una ragione oggettiva”, specificando ulteriormente che “… una ragione obiettiva sussiste qualora il lavoratore venga assunto per sostituire un altro lavoratore”.

Alla luce di tale previsione normativa, la lavoratrice proponeva ricorso, ritenendo che l’utilizzo di un totale complessivo di tredici contratti a termine stipulati in successione e senza soluzione di continuità non fosse idoneo a far fronte ad un’esigenza temporanea di personale sostitutivo. Inoltre, la lavoratrice sosteneva che, qualora l’utilizzo di tale reiterazione fosse stato ritenuto legittimo, sarebbe stato comunque incompatibile con quanto statuito dalla clausola n. 5, punto 1 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999 recepito dalla Direttiva 1999/70/CE.

Il Tribunale si è quindi rivolto alla CGE per risolvere la controversia e la Corte ha stabilito che “l’esigenza temporanea di personale sostitutivo – come prevede la normativa tedesca – può, in linea di principio, costituire una ragione obiettiva ai sensi del diritto dell’Unione che giustifica sia la durata determinata dei contratti conclusi con il personale sostitutivo sia il rinnovo di tali contratti”.

In pratica, nulla osta alla reiterazione di contratti a termine anche in forma permanente: “Il solo fatto che un datore di lavoro sia obbligato a ricorrere a sostituzioni temporanee in modo ricorrente, se non addirittura permanente, e che si possa provvedere a tali sostituzioni anche attraverso l’assunzione di dipendenti in forza di contratti di lavoro a tempo determinato non comporta l’esistenza di un abuso”.

Quanto esposto evidenzia come perlopiù la Cassazione abbia considerato solo uno degli orientamenti della Corte di Giustizia con la conseguenza che di fatto lo scenario è destinato a rimanere sostanzialmente aperto, ambiguo e decisamente non in linea con le esigenze di tutela dei lavoratori.


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