Abuso permessi ex lege 104 nella P.A.: il licenziamento è legittimo

Abuso permessi ex lege 104 nella P.A.: il licenziamento è legittimo

Se fino a qualche tempo fa, il licenziamento per giusta causa comminato dal datore di lavoro a causa del comportamento scorretto del dipendente che usufruiva illegittimamente dei permessi ex art. 33 comma 3 Legge 104 del 1992, poteva considerarsi astrattamente appannaggio del privato datore di lavoro legittimato, altresì, ad assumere investigatori privati al fine di controllare il dipendente sospetto di tale condotta ora, e da qualche tempo, l’orientamento giurisprudenziale prevalente è nel senso di ritenere che  tale illegittima fruizione, possa rilevare non solo nel rapporto di lavoro instaurato con un datore di lavoro privato, ma anche quando lo stesso sia stato instaurato con la Pubblica Amministrazione.

Occorre, inoltre, rilevare che la condotta in questione rileva anche nei confronti dell’INPS integrando una percezione indebita dell’indennità e un utilizzo distorto della prestazione assistenziale, legittimando l’ente ad effettuare dei controlli all’esito dei quali può decidere di revocare tali permessi.

Da ultimo, con sentenza n. 179868 del 13.09.2016, la Corte di Cassazione, sez. lavoro, ha rigettato il ricorso proposto dalla dipendente di un Comune della provincia di Verona, avverso una sentenza della Corte di Appello, che confermava la pronuncia di primo grado con la quale il Comune licenziava la stessa per giusta causa.

In particolare, alla dipendente era stato contestato di avere utilizzato, nel primo trimestre del 2012, complessivamente n. 38 ore e 30 minuti di permesso ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 33, fruiti per finalità diverse dall’assistenza alla madre disabile, e specificamente per recarsi a frequentare le lezioni universitarie di un corso di laurea.

Nello specifico, la Corte distrettuale osservava che la fruizione dei permessi, comportando un disagio per il datore di lavoro, sarebbe stata giustificabile solo a fronte di un’effettiva attività di assistenza e, quindi, l’uso improprio del permesso costituiva grave violazione intenzionale degli obblighi gravanti sul dipendente.

Sosteneva, inoltre, che la tutela offerta dalla L. n. 104 del 1992, non ha funzione di ristoro compensativo delle energie spese ai fini dell’assistenza prestata al disabile e la stessa doveva essere necessariamente svolta in coincidenza temporale con i permessi accordati, cosa non avvenuta nel caso di specie.

Ebbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo per converso correttamente applicata la lettera della norma ed i principi in materia da parte della Corte territoriale.

La Corte, infatti, parte dall’esame della norma di riferimento la quale, all’art. 33, comma 3 della legge 104 del 1992, detta: “A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa. Il predetto diritto non può essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità..(…).”.

Al comma 7 aggiunge: “Ferma restando la verifica dei presupposti per l’accertamento della responsabilità disciplinare, il lavoratore di cui al comma 3 decade dai diritti di cui al presente articolo, qualora il datore di lavoro o l’INPS accerti l’insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per la legittima fruizione dei medesimi diritti. Dall’attuazione delle disposizioni di cui al presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.

La norma attribuisce quindi il diritto a godere di tali permessi sia al lavoratore pubblico che privato e, al comma 7 bis, riconosce tanto al datore di lavoro, quanto all’ente previdenziale, la possibilità di accertare l’insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste dalla legge per la legittima fruizione degli stessi.

Evidente, pertanto, secondo l’interpretazione data dalla suprema giurisdizione, la ratio della norma, la quale accorda tale diritto a patto che il lavoratore dipendente assista una persona con handicap in situazione di gravità.

Aggiunge, inoltre, che nessun elemento testuale o logico “consente di attribuire al beneficio una funzione meramente compensativa o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per l’assistenza prestata al disabile” e tanto meno “consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata”.

Tale beneficio, comportando un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, è giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Per cui laddove “il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto”.

La Corte, sostanzialmente, oltre ad attenersi ad una stretta lettura letterale del dato normativo, si conforma all’orientamento consolidatosi sul punto secondo cui “il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso L. n. 104 del 1992, ex art. 33, si avvalga dello stesso non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi dell’abuso di diritto, giacchè tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede”. (Cass. n. 4984/2014, conf. Cass. n. 9217/2016, n. 9749/2016 e n. 8784/2015)


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Ilaria Romano

Laureata in giurisprudenza con tesi in diritto internazionale dell'ambiente. Scuola di specializzazione per le professioni legali conclusa con tesi di diploma in procedura penale avente ad oggetto l'intangibilità del giudicato penale e riflessi della giurisprudenza EDU sull'ordinamento interno. Compiuta pratica in diritto penale, in attesa di sostenere l'esame orale per conseguire l'abilitazione alla professioni. Il tutto condito da una work esperience in affiancamento ad un giudice del lavoro presso il Tribunale di Avellino. Aspirante magistrato ed amante del diritto, strumento sociale di vitale importanza e potenzialmente alla portata di tutti.

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