Accesso documentale e accesso civico generalizzato: l’incerto rapporto alla luce della recente pronuncia della Plenaria

Accesso documentale e accesso civico generalizzato: l’incerto rapporto alla luce della recente pronuncia della Plenaria

L’accesso, insieme alla necessità di motivare i provvedimenti amministrativi, è l’istituto attraverso il quale può dirsi effettivamente realizzato il principio di trasparenza a cui l’agere amministrativo deve tendere: è, infatti, superata l’aspirazione alla secretazione degli atti amministrativi che comportava l’ascrivibilità della responsabilità in capo al funzionario pubblico, ogniqualvolta ne rivelava il contenuto.

Oggi, nel nostro ordinamento, convivono almeno tre tipologie di accesso, in aggiunta all’accesso procedimentale ex art. 10 lett. a) della L.241/90: anzitutto, è previsto l’accesso documentale disciplinato dagli artt. 22 e ss. della L. 241 del 90; l’accesso civico ordinario e l’accesso civico generalizzato, invece, sono stati introdotti con il decreto “trasparenza” n. 33 del 2013, rispettivamente al comma 1 e al comma 2 dell’art. 5.

Le tre forme di accesso appena menzionate, sebbene presentino differenti presupposti applicativi e realizzino diverse finalità, sono nell’occhio del mirino delle diatribe in seno al Consiglio di Stato: il problema verte principalmente sul coordinamento tra accesso documentale e accesso civico generalizzato, specie quando le domande di accesso del privato abbiano ad oggetto atti inerenti discipline speciali, come quella dell’esecuzione dei pubblici appalti, che richiama puntualmente il solo accesso documentale.

In particolare, l’analisi del rapporto tra accesso ex art. 22 L.241/90 e accesso ex art. 5, comma 2 D.lgs. n. 33/2013 si muove sull’incerto crinale, da un lato, delle tante voci giurisprudenziali che propugnano un’integrazione tra le due forme e, dall’altro, di orientamenti più eversivi che, invece, ritengono che l’accesso documentale debba ritenersi assorbito all’interno del nuovo full access.

Prima di passare ad approfondire l’annosa questione dei rapporti tra le forme di accesso, è necessario chiarirne singolarmente ratio e ambito applicativo.

Certamente, una prima forma di accesso è prevista all’art. 10 lett. a) L. 241/90 che riconosce ai partecipanti al procedimento, ovvero ai soggetti destinatari della comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 nonché ai controinteressati ex art. 9, di poter accedere ai documenti collegati al procedimento amministrativo pendente, prendendone visione al fine di articolare una miglior difesa.

Forse, più rivoluzionaria è stata l’introduzione dell’accesso documentale: prescindendo dalla necessaria istaurazione di un procedimento amministrativo, ai sensi dell’artt. 22 e ss. L. 241/90, il legislatore ha consentito ai soggetti privati di accedere a documenti detenuti dalla Pubblica Amministrazione, avviando così l’irrefrenabile trasformazione del rapporto tra cittadino e P.A., rendendo quest’ultima, a voler riprendere le parole della giurisprudenza, una sorta “casa di vetro” che ha dovuto calare le brache dell’impermeabilità.

È chiaro, che il diritto di accesso cela in sé il rischio di istanze meramente esplorative da parte del privato che possono rallentare l’efficienza della macchina amministrativa, ledendo il basilare principio del buon andamento ex art. 97 Cost.: per questi motivi, la legge ha contemperato il diritto all’ostensione degli atti con la necessità che preesista in capo al richiedente un interesse diretto, concreto ed attuale alla conoscenza dei documenti, conoscenza che deve essere servente alla tutela di una situazione giuridicamente tutelata.

Infatti, la legge 241/90 è stata molto chiara nel voler evitare istanze tese ad un mero controllo generalizzato dell’operato della pubblica amministrazione, escludendo la possibilità di una sorta di azione popolare e, pertanto, richiamando concetti ripresi dall’ordinamento processuale civile, richiede la sussistenza dell’interesse diretto, concreto e attuale. Tutto ciò, però, trova un limite in materia ambientale, ove la tutela rafforzata che si riserva ad alcuni interessi sensibili, quali appunto l’ambiente, ha anticipato la riforma della trasparenza a cui tutto l’ordinamento amministrativo assisterà solo a partire dal 2013: infatti, con il d.lgs. n. 195 del 2005, chiunque ai sensi dell’art. 3 può fare richiesta di informazioni ambientale all’amministrazione competente, senza necessità di dichiarare il proprio interesse.

Proprio partendo dalle definizioni appena esposte, in tema di accesso documentale sorgeva un primo problema circa la natura giuridica dello stesso: se da un lato, un certo orientamento tendeva a ricondurre l’accesso nell’alveo dell’interesse legittimo, dall’altro, era di diverso avviso parte della giurisprudenza che riconosceva natura di diritto soggettivo al diritto di accesso.

Invero, le due posizioni, aldilà dell’etichetta che apponevano alla qualificazione del diritto d’accesso, avevano dei risvolti pratici importanti: infatti, qualificato come interesse legittimo, comportava che l’eventuale diniego di una istanza d’accesso presentata all’amministrazione, necessitava di essere impugnata innanzi al Giudice amministrativo entro 30 giorni, a pena di decadenza; diversamente discorrendo, assumendo il diritto di accesso la veste di diritto soggettivo, l’inutile trascorrere dei 30 giorni, dopo l’eventuale diniego dell’ostensione dei documenti, avrebbe permesso al privato la riproposizione dell’istanza, con un nuovo termine per impugnare.

Sul punto, il contrasto è stato sanato dall’Adunanza Plenaria e confermato a più riprese anche da altre pronunce, in cui l’accesso documentale viene definito come diritto soggettivo dalla particolare morfologia, il quale è mezzo strumentale alla realizzazione di un situazione giuridica finale.

In sostanza, ciò equivale a dire che l’aspirazione ad un bene della vita resterebbe scoperta di tutela se non si permettesse al privato di prendere visione ed estrarre copia proprio di quei documenti utili per esercitare il diritto soggettivo ad esso collegato.

Volendo esemplificare quanto detto, si può pensare ad un partecipante ad un concorso pubblico che chiede di prendere visione delle correzioni apportate al proprio elaborato e di quello di terzi partecipanti. Anzitutto, la giurisprudenza ha sottolineato che il tema non rientra nella categoria di quei documenti contenenti caratteristiche psicoattitudinali soggetti al divieto di cui all’art. 24 lett. D) L. 241/90; precisato ciò, è solo tramite la richiesta ostensiva che il partecipante potrà verificare che le correzioni si siano svolte seguendo le regole stabilite dal bando e, in questo modo, tutelare il suo diritto all’eventuale assunzione.

A proposito degli atti oggetto di esclusione, oltre al caso appena menzionato, l’art. 24 L. 241/90 esclude che i privati possano avanzare richieste per accedere ad atti coperti dal segreto di Stato, a documenti oggetti di procedimenti tributari che sono autonomamente disciplinati da regole settoriali e, per la stessa ragione, sono esclusi gli atti normativi e amministrativi generali, di programmazione e di pianificazione.

Se queste sono eccezioni in senso assoluto, al secondo comma dell’art. 24 si consente alla P.A. discrezionalmente di valutare la meritevolezza dell’interesse pubblico sotteso ad alcuni documenti e, bilanciandola con le esigenze privatistiche, procedere all’esclusione dal diritto di accesso dei predetti documenti.

Infine, occorre chiarire che l’art. 22 specifica che legittimato passivo destinatario delle richieste di accesso è l’amministrazione pubblica, riferendosi, per il principio di neutralità della forma della P.A., tanto ai soggetti di diritto pubblico quanto ai soggetti di diritto privato, limitando a questi ultimi l’applicabilità della disciplina dell’accesso ai soli aspetti della loro attività che involgono la cura dell’interesse pubblico.

Pertanto, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che le controversie sorte, ad esempio, tra i lavoratori Poste Italiane S.p.A. possono procedere con la richiesta di accesso agli atti ai sensi dell’art. 22 e ss. per quegli aspetti che hanno rilevanza pubblicistica, come l’assunzione o la macro-organizzazione.

Tanto chiarito circa l’accesso documentale, il legislatore si è reso conto che il principio di trasparenza non poteva davvero dirsi efficientemente realizzato in tutto l’agere della Pubblica amministrazione, poiché i limiti a cui è sottoposto l’accesso documentale comportava la creazione di spazi non accessibili al cittadino che divenivano zone di penombra ove l’amministrazione continuava ad operare indisturbata e in modo poco limpido.

Per questo motivo, sulla scia della L. anticorruzione n. 190 del 2012, è intervenuto il legislatore con il decreto n. 33 del 2013, introducendo l’accesso civico ordinario al comma 1 dell’art. 5.

Con la predetta forma di accesso, l’amministrazione è tenuta alla pubblicazione sui propri siti istituzionali di notizie, informazioni e dati e chiunque, in caso di mancata pubblicazione, può farvi richiesta senza dimostrare il proprio interesse.

In realtà, il vero obiettivo del decreto trasparenza, ovvero quello di favorire un controllo diffuso e generalizzato sulle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, può dirsi effettivamente realizzato solo con la modifica dell’art. 5 intervenuta ad opera del d.lgs. 97/2016: con la riforma in parola, sulla scorta dell’istituto del FOIA di origine americana, si è introdotto il comma 2 all’art.5 del decreto 33/2013 che ha proceduto con il disciplinare l’accesso civico totale.

Tale forma di accesso si è collocata a metà strada tra l’accesso documentale e l’accesso civico ordinario: infatti, si consente (come per l’accesso civico di cui al comma 1 dell’art. 5) a chiunque, senza previa dimostrazione della propria posizione qualificata, di poter richiedere (come per l’accesso di cui all’art. 22) l’ostensione di documenti detenuti dalla pubblica amministrazione, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione.

È chiaro, quindi, che attraverso il full access si giunge ad un vero e proprio diritto alla trasparenza: un diritto la cui tutela è garanzia della libertà individuale e collettive di ogni cittadino; infatti, solo un cittadino correttamente informato può liberamente e consapevolmente partecipare al dibattito pubblico, anche in un’ottica di una sinergica collaborazione con i soggetti pubblici.

Insomma, il “right to know” realizzato con l’accesso civico generalizzato ha certamente il merito di aver ricucito i rapporti tra cittadini e amministrazioni, responsabilizzando quest’ultima e rendendola maggiormente leale nei confronti della collettività; un’amministrazione che, innanzi a richieste di accesso, deve dimostrare di essere organizzata e di operare con efficienza ed efficacia nell’impiego di risorse pubbliche.

Analizzate le tre forme di accesso, come anticipato in premessa, non è mancata l’opinione di chi ha ritenuto che l’accesso documentale fosse stato completamente soppiantato dall’accesso civico generalizzato.

Infatti, un soggetto privato riterrà con serie probabilità più conveniente procedere con una richiesta di accesso ai sensi dell’art. 5, comma 2 d.lgs. 33/2013 in quanto, non solo, non dovrà dimostrare di essere in possesso di un interesse concreto, diretto ed attuale ma gioverà anche del regime più favorevole della gratuità della domanda.

Invero, occorre precisare che tale tesi, sebbene molto suggestiva, presta il fianco ad una critica: infatti, l’ambito applicativo dell’accesso civico non copre completamente quello dell’accesso documentale.

Inoltre, ci sono casi in cui l’accesso civico risulta precluso ma potrà procedersi comunque all’accesso documentale ogniqualvolta l’ostensione dei documenti sia necessaria per garantire la difesa di interessi giuridici del richiedente.

Per vero, il complicato rapporto tra accesso documentale e accesso civico generalizzato è stato oggetto di numerose pronunce della giurisprudenza amministrativa, specie in relazione a richieste di accesso attinenti ad atti relativi alla fase esecutiva degli appalti pubblici.

Come è ben noto, gli operatori economici che partecipano alla gara d’appalto, per tutta la fase dell’evidenza pubblica e, quindi, fino all’aggiudicazione possono prendere visione degli atti della gara e valutare se le regole imposte dal bando effettivamente vengano rispettate.

Il problema, però, si pone quando, terminata la fase pubblicistica, l’aggiudicatario inizia l’esecuzione dei lavori, servizi e forniture oggetto del contratto e un altro operatore economico che abbia partecipato alla gara e che risulta utilmente collocato in graduatoria, richiede di accedere agli atti della fase esecutiva per appurare l’esistenza di eventuali inadempienze dell’aggiudicatario, in modo da poter sollecitare i poteri della stazione appaltante di risolvere il contratto e procedere alla riedizione della gara o allo scorrimento della graduatoria a favore del richiedente.

Ci si interroga, allora, sulla possibilità di comprendere se può ritenersi sussistente in capo all’operatore economico, per esempio secondo classificato in una gara di appalto, un interesse certo e attuale tale poter integrare i presupposti applicati per procedere ad una richiesta di accesso ai sensi dell’art. 22.

Sul punto, un primo orientamento sosteneva che non poteva giustificarsi una richiesta di accesso documentale, in quanto in capo all’impresa seconda classifica non preesisteva un interesse alla ripetizione della gara ovvero alla scorrimento della graduatoria ma era solo meramente eventuale: infatti, tale interesse sarebbe sorto solo successivamente, una volta verificata l’effettiva esistenza di un inadempimento dell’aggiudicatario, visionando i documenti.

Di diverso avviso era, invece, una altra parte della giurisprudenza che riconosceva in capo all’operatore economico una posizione qualificata per il sol fatto di aver partecipato alla gara e, pertanto, riteneva ammissibile la richiesta di accesso ex art. 22.

Ebbene, le diverse visioni sono state composte da un recente intervento dell’Adunanza Plenaria, la quale, anzitutto, è stata attenta nel chiarire che anche nella fase esecutiva dell’appalto, nonostante sia governata da regole privatistiche, restano applicabili i principi in materia di accesso e trasparenza perché l’esecuzione di un contratto di appalto mira comunque alla cura di interessi di rilevanza pubblicistica, tanto è vero che è assoggetta ai controlli dell’Anac ed ad eventuali interdittive antimafia.

Però, affinché il secondo classificato alla gara possa procedere con l’accesso documentale deve dar prova che il suo interesse alla riedizione della gara o allo scorrimento della graduatoria sia preesistente e concreto: l’operato economico che intende avanzare una domanda di accesso agli atti della fase esecutiva dell’appalto pubblico deve avere dimostrare la sussistenza di una situazione fattuale di inadempienze dell’aggiudicatario; diversamente, una istanza con un interesse meramente ipotetico alla ripetizione della gara non può giustificare l’accesso documentale che diventerebbe mezzo per far nascere un diritto in capo al richiedente.

Tutt’al più, se si ritiene applicabile la disciplina dell’accesso civico generalizzato alla materia dei contratti pubblici, l’operatore economico potrebbe procedere con una domanda ex art. 5, comma 2, senza dimostrazione dell’interesse e agire così come uti cives verificando se effettivamente l’interesse pubblico si stia realizzando attraverso l’esecuzione dei lavori.

Invero, tale affermazione darebbe per scontato un ulteriore problema ovvero quello della possibilità di ricorrere alla disciplina dell’accesso civico generalizzato per gli atti dei contratti pubblici: il punto è assai controverso, sebbene si è assistito all’interno della Plenaria che ha provato a fornire una soluzione alla questione.

Partendo dal dato normativo, l’art. 53 del d.lgs. 50 del 2016, nel disciplinare l’accesso agli atti della procedura di appalto, contiene un mero rinvio al solo accesso documentale.

Invero, occorre precisare, sin da subito che, l’introduzione del codice appalti è di poco precedente rispetto alla modifica apportata all’art. 5, comma 2: pertanto, il legislatore non avrebbe all’interno dell’art. 53 rinviare alla materia dell’accesso civico generalizzato, in quanto ancora non esistente all’epoca.

Sulla scorta di questa precisazione, la giurisprudenza maggioritaria interpretava il rinvio fatto dall’art. 53 in maniera non fissa: per meglio esplicare, si riteneva che, nulla osta all’integrazione della normativa in tema di appalti con la norma generale del full access.

Opinando diversamente, parte del Consiglio di Stato, sebbene riteneva che le discipline di settore potessero tanto prevedere una integrazione con il nuovo accesso civico generalizzato tanto operare in deroga allo stesso, sosteneva che la specialità della materia dei contratti pubblici non permettesse l’applicazione dell’art. 5, comma 2 d. lgs 33/2013.

In particolare, focalizzandosi sempre sulla lettera della norma, in molteplici pronunce del CdS veniva diligentemente sottolineato che la formulazione dell’art. 53 anche se precedente all’introduzione dell’accesso generalizzato poteva ben essere integrata con il successivo correttivo n. 56 del 2017 in tema di appalti, che poteva prevede la possibilità per i soggetti privati di avanzare istanza di full access.

Ebbene, la tesi che escluderebbe l’applicazione dell’accesso civico generalizzato sarebbe ulteriormente supportata dal fatto che l’esigenza di trasparenza in tema di appalti pubblici sarebbe comunque garantita anche in mancanza di un controllo diffuso della collettività: infatti, come già precedentemente detto, la cura del bene comune e il perseguimento dell’interesse pubblico sarebbe già garantito attraverso il pregnante controllo svolto dall’ANAC.

Inoltre, sempre a sostegno della tesi negativa interverrebbe anche il dato testuale dell’art. 5bis, comma 3 d.lgs. 33/2013 che nel prevedere i casi di esclusione all’accesso civico, include oltre ai casi di segreto di Stato e i limiti previsti dall’art. 24, comma 1, della legge 241 del 1990, anche “gli altri casi…previsti dalla legge”: secondo parte del Consiglio di Stato, l’art. 53 cod. app. nel prevedere il solo rinvio agli artt. 22 e ss., rientrerebbe “negli altri casi” di esclusione dell’accesso civico previsto dalla legge.

Invero, sebbene al quanto convincenti le motivazioni a sostegno della tesi che esclude l’accesso civico generalizzato nel campo degli appalti pubblici, l’Adunanza Plenaria ha, recentemente, concluso diversamente sostenendo, invece, che bene può ritenersi valida una richiesta di ostensione di documenti inerenti i contratti pubblici ai sensi dell’art. 5, comma 2 d.lgs. 33/2013.

Anzitutto, la Plenaria sottolinea che nel nostro ordinamento l’accoglimento dell’istituto del FOIA ha comportato che l’accesso civico generalizzato è ammesso come regola generale, pertanto, sono le eccezioni speciali a dover essere puntualmente previste dalla legge.

In particolare, l’Adunanza ha ritenuto compatibile la richiesta di accesso civico generalizzato ad atti inerenti alla procedura di appalto pubblico, in quanto il rinvio contenuto dell’art. 53 ben può integrarsi con la disciplina del full access e non rientrerebbe nei casi di esclusione dell’art. 5bis, comma 3.

Infatti, precisa la Plenaria che l’art. 5 bis comma 3, sebbene nella sua formulazione poco felice, quando prevede “gli altri casi” di esclusione previsti dalla legge, dovrebbe leggersi come una endiadi collegata all’ipotesi precedente del segreto di Stato: quindi, la norma ha voluto riferirsi ad altre ipotesi di segreto, quali, per esempio, il segreto bancario, industriale…

Accogliendo, allora, tale insegnamento, in modo conseguenziale, si dovrebbe sostenere che l’accesso civico abbia quasi totalmente eroso il terreno di gioco dell’accesso documentale: in sostanza, ipotizzando un caso concreto, ogniqualvolta l’impresa voglia accedere ad atti della fase esecutiva dei pubblici appalti, per appurare inadempienze dell’aggiudicatario e provocare la risoluzione del contratto per uno scorrimento della graduatoria in suo favore, le converrà procedere sempre con una domanda di accesso civico generalizzato, evitando così le incombenze della dimostrazione della sussistenza dell’interesse attuale, concreto e diretto.

In questo modo, sembrerebbe però chiaro che si stia distorcendo l’utilizzo dell’accesso civico generalizzato, il quale da mezzo per controllare l’effettiva democraticità dell’attività amministrativa, si curva come strumento, in primis, per il soddisfacimento di meri interessi individualistici ed egoistici.

Seguendo, però, l’orientamento attuale in seno all’Adunanza Plenaria, l’operatore economico potrà procedere con domanda di accesso documentale nonché con una istanza di accesso civico generalizzato per accedere agli atti della procedura degli appalti.

Anzi, sul punto, si precisa che l’impresa potrà anche decidere di cumulare le domande: in tal senso, infatti, l’art. 5, comma 11 d.lgs. 33/2013 prevede il concorso tra le diverse forme di accesso, un concorso che potrà tanto essere formalizzato nella domanda del privato, quanto desumersi implicitamente dal tenore delle parole e delle argomentazioni utilizzare nell’istanza.

Diversamente, non si potrà, invece, procedere ad una conversione della domanda, qualora il privato abbia etichettato la propria istanza e, l’amministrazione, il giudice oppure anche lo stesso richiedente dovesse rendersi conto della sussistenza dei presupposti per una diversa forma di accesso.

Per meglio esplicare, se il privato ha avanzato all’amministrazione una domanda di accesso documentale che dovrà essere rigettata per mancanza di un interesse attuale, diretto e concreto, seppure dovessero sussistere esigenze di interesse pubblico che permetterebbero l’accoglimento dell’accesso civico generalizzato, l’amministrazione non potrebbe procedere con una pronuncia in prevenzione.

Allora stesso modo, in seguito all’impugnazione del diniego dell’amministrazione di una domanda di accesso, il giudice che si avveda della possibilità della fondatezza di una diversa forma di accesso non può procedere alla conversione perché violerebbe il divieto di mutatio libelli e andrebbe oltre le richieste fatte dal privato.

Si potrebbe, però, ipotizzare che sia il privato, una volta ottenuto il diniego da parte dell’amministrazione di una particolare forma di accesso, convertire da domanda di accesso.

Ebbene, poiché l’impugnazione del diniego di accesso, come definita più volte dal Consiglio di Stato, è una particolare actio ad exhibendum in cui non si impugna la legittimità o meno dell’atto amministrativo ma è un giudizio sul rapporto tra cittadino e P.A., il giudice potrebbe procedere a valutare la fondatezza della domanda di accesso convertita del privato.

Invero, tale tesi è facilmente criticabile, in quanto il giudice, così facendo, andrebbe a pronunciarsi su un potere della pubblica amministrazione ancora non esercitato, violando l’art. 34, comma 2 c.p.a.


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