Accoglienza migranti, nulla l’ordinanza sindacale che discrimina gli stranieri per motivi razziali o etnici

Accoglienza migranti, nulla l’ordinanza sindacale che discrimina gli stranieri per motivi razziali o etnici

T.A.R. Catania, sez. IV, 6 agosto 2018, n. 1671 – Pres. Iannini, Est. Francola

È nulla, per difetto assoluto di attribuzione, l’ordinanza contingibile ed urgente adottata, per ragioni asseritamente igienico-sanitarie, dal Sindaco ai sensi dell’art. 50, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, nella qualità di rappresentate della Comunità Locale e non di Ufficiale di Governo, in tema di locazione e/o cessione a qualunque titolo di immobili ad uso abitativo per accoglienza migranti, rifugiati e richiedenti asilo.

È, altresì, nulla l’ordinanza contingibile ed urgente preordinata ad impedire o rendere più difficile il collocamento di stranieri migranti, rifugiati e richiedenti asilo sul territorio del comunale attesa la violazione dell’art. 43 co. 2 lett. a) e c) del D.Lgs. n.286/1998. Il Sindaco, nella sua qualità di pubblico ufficiale e nell’esercizio delle sue funzioni, non può compiere un atto che arbitrariamente discrimina stranieri proprio in ragione della loro condizione di cittadini non italiani appartenenti ad una certa razza ed etnia e non può imporre, per i medesimi motivi discriminatori, condizioni più svantaggiose né rifiutare l’accesso all’alloggio ai migranti, senza neppure distinguere, in quest’ultima ipotesi, tra soggetti regolarmente soggiornanti o meno.

La vicenda

Con ordinanza sindacale emessa ai sensi dell’art.50 D.Lgs. n.267/2000, il Sindaco del Comune di Valguarnera Caropepe (EN) – dopo avere premesso che il Comune non aveva aderito al progetto SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) per la dichiarata inidoneità del territorio comunale ad accogliere migranti, rifugiati e richiedenti asilo, anche se minori stranieri non accompagnati, in ragione sia dell’assenza di strutture all’uopo idonee sia della necessità di prevenire criticità connesse al possibile turbamento dell’equilibrio sociale raggiunto dalla comunità locale – ha disposto, al fine di escludere il possibile collocamento sul territorio di migranti, rifugiati e richiedenti asilo:

1) Il divieto di concedere, in tutto il territorio di Valguarnera Caropepe per le finalità di cui in premessa ed a qualunque altro titolo, in locazione e/o comodato ad uso abitativo e/o in vendita, immobili privi dei requisiti previsti dalla legge, ed in particolare privi di certificati di agibilità ed abitabilità rilasciati dal Comune di Valguarnera Caropepe, oltre che di inesistenza delle barriere architettoniche e requisiti igienico sanitari che possano costituire danno per la salute e l’incolumità delle persone. Sul punto si specifica che i menzionati certificati non potranno, in alcun modo, essere sostituiti da altri documenti quali perizie asseverate, autocertificazioni, ecc.; 2) ai fini dell’esecuzione dei necessari sopralluoghi di verifica all’interno delle unità abitative e di altre tipologie, gli agenti e i funzionari comunali, previo consenso degli occupanti, potranno accedere all’interno delle unità immobiliari al fine di svolgere i necessari controlli in materia igienico-sanitaria e di sicurezza; 3) ogni iscrizione anagrafica che implichi l’incremento del numero degli occupanti dell’unità abitativa è subordinata al rispetto di quanto disposto e disciplinato dall’art. 2 del D.M. 5 luglio 1975 citato in preambolo; 4) l’attività di verifica e di accertamento in ordine a quanto sopra stabilito implica altresì l’inoltro agli organi competenti di apposite segnalazioni in materia edilizia, sanitaria e fiscale al fine di adottare i conseguenti provvedimenti tra i quali, se previsto, l’immediato sgombero degli immobili nonché la segnalazione alle competenti Autorità per la verifica di comportamenti penalmente rilevanti; 5) per le violazioni della presente ordinanza sarà applicata, a norma dell’art. 7 bis, comma 1, del d.lgs. n. 267 del 2000, la sanzione amministrativa pecuniaria di € 500,00 fatte salve le eventuali violazioni di carattere penale e di violazioni di carattere edilizio-urbanistico”.

L’Avvocatura dello Stato, Distrettuale di Catania, per conto del Ministero dell’Interno – Prefettura di Enna, impugnava il suddetto provvedimento domandandone, in via preliminare, l’accertamento e la declaratoria di inefficacia per nullità ed, in subordine, l’annullamento, previa sospensione cautelare degli effetti, sostenendo, principalmente: 1) la nullità ex art. 21 septies della L. 241/90 per difetto assoluto di attribuzione, violazione del riparto di competenze di cui all’art. 117, comma 2, Cost., violazione della L. 1228 del 1954 e del D.P.R. 223 del 1989, non potendo il Sindaco con l’ordinanza impugnata disciplinare questioni afferenti a materie rientranti nell’esclusiva competenza legislativa ed amministrativa dello Stato, come l’immigrazione e l’anagrafe; 2) la nullità per violazione dell’art.43 D.lgs. n.286/1998, poiché l’ordinanza sindacale sarebbe contraddistinta da un contenuto decisorio di tipo discriminatorio fondato su motivi razziali o etnici; 3) l’illegittimità per violazione degli artt.3, 10, 41 e 42 Cost., non disponendo il Sindaco del potere di incidere né sulla condizione giuridica degli stranieri, né sull’iniziativa economica e la proprietà privata al punto da vietare la vendita o la concessione in locazione o in comodato ai migranti degli immobili siti nel territorio comunale.

La decisione

Il Collegio osserva che, nel nostro ordinamento giuridico, il potere di emanare atti amministrativi soggiace al rispetto del principio di legalità, da intendersi (secondo quanto chiarito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.115/2011) in senso forte o sostanziale, dovendo, infatti, la legge disciplinare l’esercizio del potere in tutti i suoi aspetti, stabilendone, quindi, i presupposti, chiarendone la natura discrezionale o vincolata, regolamentandone le modalità di esercizio, prevedendo la tipologia, il nome ed il contenuto del provvedimento esplicativo del potere esercitato, l’Autorità competente ad esercitarlo e gli effetti giuridici prodotti dal provvedimento così emanato.

Sennonché, il principio di legalità se, da un lato, costituisce un’indubbia garanzia per le libertà fondamentali e i diritti dei cittadini, dall’altro, può costituire un limite all’agire della Pubblica Amministrazione ogniqualvolta la risoluzione di una certa questione di interesse generale per la comunità territoriale di riferimento imponga l’esercizio di poteri non previsti dalla legge. L’inadeguatezza di un sistema rigidamente concepito al rispetto del principio di legalità è, poi, tanto più avvertita quanto urgente sia l’esigenza di un intervento dell’Autorità Amministrativa, considerati i tempi, non brevi, necessari per l’approvazione di un’apposita legge istitutiva dell’idoneo potere pubblicistico nella circostanza da esercitare.

Non potendo, dunque, a priori prevedere tutte le concrete situazioni implicanti la necessità e l’urgenza di un tempestivo intervento della Pubblica Amministrazione, il Legislatore ha ritenuto opportuno consentire l’emanazione di provvedimenti innominati e atipici, dal contenuto di volta in volta variabile a seconda delle circostanze, e contraddistinti da una durata limitata nel tempo, in quanto forieri di effetti giuridici necessariamente provvisori, onde assicurare la possibilità di tutelare tempestivamente i preminenti interessi generali di rilevanza costituzionale dal pericolo di una lesione imminente e grave.

Sono state, così, introdotte nel nostro ordinamento le c.d. ordinanze contingibili ed urgenti, note anche come con il nome di ordinanze extra ordinem poiché costituenti eccezione al principio di legalità inteso in senso forte o sostanziale, prevedendo, infatti, la legge in questi casi soltanto l’Autorità competente ad emanarle e gli interessi per la tutela dei quali è giustificata la loro emanazione. Si pensi, ad esempio, agli artt. 50 co.4 e 54 co.4 del D.Lgs. n.267/2000 che, ispirandosi ad un principio di legalità in senso formale o debole, riconoscono al Sindaco nella sua qualità, rispettivamente, di Autorità Locale o di Ufficiale di Governo, soltanto per la tutela degli specifici interessi pubblici ivi indicati, un potere di intervento assai ampio, senza, però, precisarne contenuto e modalità di esercizio.

E proprio in ragione della loro funzione di istituto di “chiusura del sistema”, le ordinanze contingibili ed urgenti – pur avendo natura esclusivamente amministrativa, sia per la forma, sia per gli effetti, secondo quanto affermato dalla Corte Costituzionale in diverse pronunce (Corte Cost., 23 maggio 1961, n° 26; Corte Cost., 20 giugno 1956, n° 8) – possono provvisoriamente derogare alla disciplina contemplata da norme di legge, ma non anche ai principi generali dell’ordinamento giuridico, rinvenendo, infatti, proprio in questi ultimi il loro principale limite (tra le tante pronunce, T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 03 marzo 2017 n. 1245, T.A.R. Marche, Ancona, sez. I, 13 novembre 2012 n. 730, T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 10 aprile 2012 n. 354, Cons. St., sez. IV, 24 marzo 2006 n. 1537).

Presupposto, dunque, imprescindibile per il legittimo esercizio del potere di emanare ordinanze contingibili ed urgenti è l’esistenza di una norma di legge che autorizzi l’adozione di siffatti provvedimenti per la tutela di predeterminati interessi generali costituenti, ad un tempo, ragione e limite dell’intervento extra ordinem dell’Autorità competente, non potendo, infatti, quest’ultima esercitare il potere in esame in settori diversi da quelli espressamente previsti dalla c.d. legge di autorizzazione. E poiché la competenza costituisce presupposto e parametro di legittimità delle ordinanze contingibili ed urgenti è logico ritenere che tra i principi generali dell’ordinamento giuridico, costituenti limite per l’esercizio del potere in esame, rientri, in ragione della sua fondamentale importanza, anche la ripartizione delle competenze in materia di potestà legislativa, regolamentare ed amministrativa tra Stato, Regioni ed Enti Locali prevista dagli artt.117 e 118 Cost., non potendo, infatti, un’Autorità Locale adottare provvedimenti extra ordinem in settori di competenza Statale a meno che non esista una norma che a ciò espressamente l’autorizzi in via del tutto eccezionale, come, ad esempio, l’art. 54 del D.Lgs. n.267/2000.

Con riguardo al caso in esame, l’ordinanza contingibile ed urgente impugnata dall’Avvocatura dello Stato è stata emessa dal Sindaco di Valguarnera Caropepe, da un lato, per salvaguardare la Comunità locale dal grave pericolo ritenuto sussistente per l’incolumità delle persone e, dall’altro, per l’esigenza preminente di tutela della salute, delle prescrizioni urbanistiche e della sicurezza pubblica avvertita a fronte della paventata possibilità di dover accogliere migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Rilevata, infatti, l’assenza nel territorio comunale (urbano ed extraurbano) di immobili o strutture in grado di soddisfare i bisogni e le esigenze di accoglienza dei migranti per carenza dei requisiti di abitabilità e agibilità prescritti dalla normativa di riferimento, il Sindaco del Comune di Valguarnera Caropepe, nella sua qualità di Autorità Locale e nell’esercizio delle funzioni conferitegli dalla legge in materia Igienico-Sanitaria e di Pubblica Sicurezza, ha: 1) vietato la concessione in locazione e/o in comodato ad uso abitativo o la vendita di immobili privi dei requisiti previsti dalla legge, ed in particolare privi di certificati di agibilità ed abitabilità, per l’accoglienza dei migranti, statuendo l’insostituibilità dei suddetti certificati con perizie asseverate, autocertificazioni, ecc…; 2) disposto l’esecuzione dei necessari sopralluoghi ad opera degli agenti e funzionari comunali per la verifica, previo consenso degli occupanti, delle condizioni igienico-sanitarie e di sicurezza delle unità immobiliari; 3) subordinato l’iscrizione anagrafica implicante un incremento del numero degli occupanti dell’unità abitativa al rispetto di quanto disposto dall’art.2 del D.M. 5 luglio 1975; 4) ordinato la segnalazione alle Autorità competenti delle irregolarità rilevate in sede di verifica sugli immobili al fine dell’adozione dei provvedimenti conseguenti, ivi incluso l’immediato sgombero; 5) comminato la sanzione pecuniaria di € 500,00, ai sensi dell’art.7 bis comma 1 del D.Lgs. n. 267/2000, per l’inosservanza dei suddetti precetti.

Il Collegio osserva che il provvedimento in esame va qualificato quale ordinanza contingibile ed urgente, adottata dal Sindaco nella qualità di Rappresentate della Comunità Locale formalmente ai sensi dell’art.50 D.Lgs. n.267/2000, per ragioni (essenzialmente) igienico-sanitarie. Sebbene, infatti, nella motivazione del provvedimento si richiamino anche esigenze di tutela della pubblica sicurezza, lo scopo dell’ordinanza appare principalmente quello di inibire l’ingresso nel territorio comunale di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in ragione della constata assenza di immobili in grado di ospitarli per mancanza delle condizioni di agibilità ed abitabilità necessarie ad assicurare il rispetto dei presupposti igienico-sanitari prescritti dalla normativa di riferimento. Il Sindaco del Comune di Valguarnera Caropepe ha, dunque, agito nella sua qualità di Autorità Locale e non di Ufficiale di Governo.

A riprova della correttezza di quanto sostenuto depone, peraltro, anche il procedimento nell’occasione seguito per l’adozione dell’atto impugnato, considerato che qualora il Sindaco avesse inteso agire ai sensi dell’art.54 del D.Lgs. n.267/2000 avrebbe dovuto coinvolgere anche il Prefetto nella decisione, preventivamente comunicandogli il provvedimento ai fini della predisposizione degli strumenti necessari ad assicurarne l’attuazione. E poiché non risulta che vi sia stata alcuna preventiva interlocuzione con il Prefetto, essendo stata, anzi, esclusa la circostanza dall’Avvocatura dello Stato nel ricorso introduttivo del presente giudizio e non contestata dal Comune, deve ritenersi che il Sindaco abbia inteso agire soltanto quale Rappresentante della Comunità Locale.

Se, dunque, l’ordinanza in questione è stata formalmente adottata dal Sindaco nella sua qualità di Autorità Locale, egli avrebbe potuto agire extra ordinem esclusivamente per il soddisfacimento di esigenze igienico-sanitarie della comunità territoriale di riferimento, in conformità a quanto previsto dall’art.50 co.5 D.Lgs. n. 267/2000.

Sennonché, come già detto, il principale obiettivo perseguito con l’adozione del provvedimento in questione era evitare l’ospitalità, anche transitoria, di stranieri migranti, rifugiati e richiedenti asilo nel territorio del Comune di Valguarnera Caropepe. Come è agevole evincere dalla motivazione dell’ordinanza sindacale, infatti, la ragione del provvedimento è costituita dalla dichiarata inidoneità del territorio comunale urbano ed extraurbano ad assicurare la necessaria accoglienza di migranti, rifugiati e richiedenti asilo, a causa dell’asserita assenza di strutture idonee allo scopo. Di conseguenza, la materia intercettata dall’ordinanza sindacale non è tanto quella igienico-sanitaria, quanto, soprattutto e principalmente, quella della gestione dei migranti, rientrante nella sfera di competenza dello Stato e, più precisamente, del Ministero dell’Interno, e non in quella dei Comuni (o dei Sindaci).

L’art.117 co.2 Cost., infatti, riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la competenza a disciplinare il diritto di asilo e la condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea (lett. a) e, più in generale, tutti i vari aspetti connessi all’immigrazione (lett. b).

Il Legislatore Statale, quindi, nell’esercizio della predetta competenza legislativa esclusiva, ha disciplinato il complesso fenomeno dell’accoglienza dei cittadini provenienti da Paesi non appartenenti all’Unione Europea e degli apolidi richiedenti protezione internazionale nel territorio nazionale, comprese le frontiere e le relative zone di transito, nonché le acque territoriali, e dei loro familiari inclusi nella domanda di protezione internazionale, emanando il D.Lgs. n.142/2015, in attuazione delle Direttive 2013/32/UE e 2013/33/UE, così demandando al Ministero dell’Interno ed ai Prefetti la competenza e l’esercizio di importanti funzioni in materia.

Ai sensi dell’art. 9 del D.Lgs. 142/2015, infatti, spetta al Prefetto, sentito il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno, il potere di inviare il richiedente nelle strutture di cui al comma 1 (ossia nei centri governativi di prima accoglienza, istituiti con decreto del Ministro dell’Interno, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281), per il tempo necessario, all’espletamento delle operazioni di identificazione, ove non completate precedentemente, alla verbalizzazione della domanda di protezione internazionale ed all’avvio della procedura di esame della predetta domanda, nonché all’accertamento delle condizioni di salute dell’istante.

Non può, dunque, il Sindaco, nella sua qualità di Autorità Locale, intervenire con propri atti per regolamentare il fenomeno migratorio, sebbene nell’ambito del proprio territorio comunale.

Né, peraltro, può ritenersi giustificato l’intervento del Sindaco di Valguarnera Caropepe sul piano urbanistico-edilizio in virtù della paventata esigenza di escludere la concessione in godimento di immobili privi dei certificati di agibilità ed abitabilità, poiché, secondo quanto previsto dall’art. 11 del D.lgs n. 142 del 2015, “Nel caso in cui è temporaneamente esaurita la disponibilità di posti all’interno delle strutture di cui agli articoli 9 e 14, a causa di arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti, l’accoglienza può essere disposta dal prefetto, sentito il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno, in strutture temporanee, appositamente allestite, previa valutazione delle condizioni di salute del richiedente, anche al fine di accertare la sussistenza di esigenze particolari di accoglienza. Le strutture di cui al comma 1 soddisfano le esigenze essenziali di accoglienza nel rispetto dei principi di cui all’articolo 10, comma 1, e sono individuate dalle prefetture-uffici territoriali del Governo, sentito l’ente locale nel cui territorio è situata la struttura, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici. (…) L’accoglienza nelle strutture di cui al comma 1 è limitata al tempo strettamente necessario al trasferimento del richiedente nelle strutture di cui all’articolo 9 ovvero nelle strutture di cui all’articolo 14”.

È riservata, dunque, alla competenza del Ministero dell’Interno e della Prefettura territoriale l’individuazione delle strutture da adibire all’accoglienza degli immigrati irregolari e la valutazione dell’idoneità delle stesse a soddisfare le esigenze indicate all’art. 10 comma 1 del D.Lgs. n.142 del 2015, ed ossia, il rispetto della sfera privata (comprese le differenze di genere), delle esigenze connesse all’età, della tutela della salute fisica e mentale dei richiedenti, dell’unità dei nuclei familiari composti da coniugi e da parenti entro il primo grado, dell’apprestamento delle misure necessarie per le persone portatrici di particolari esigenze ai sensi dell’articolo 17, nonché delle misure idonee a prevenire ogni forma di violenza ed a garantire la sicurezza e la protezione dei richiedenti.

Di conseguenza, con l’ordinanza contingibile ed urgente emanata, il Sindaco del Comune di Valguarnera Caropepe ha introdotto una disciplina derogatoria rispetto a quella nazionale in un settore, come quello dell’immigrazione, riservato alla competenza legislativa, regolamentare ed amministrativa esclusiva dello Stato.

Il provvedimento impugnato, pertanto, è nullo ai sensi dell’art. 21 septies L. n. 241/1990, per difetto assoluto di attribuzione, in quanto adottato da un’autorità, nella specie costituita dal Sindaco nella sua dichiarata qualità di rappresentante della Comunità Locale e non di Ufficiale di Governo, appartenente ad un plesso amministrativo (quello Comunale) differente da quello Statale effettivamente competente, rientrando, infatti, nella esclusiva competenza del Ministero dell’Interno e delle Prefetture il potere di emanare provvedimenti in materia di accoglienza e gestione dei migranti, rifugiati e richiedenti asilo.

Analoghe considerazioni valgono, inoltre, con riguardo alla materia dell’anagrafe.

L’art.117 co.2 lett. i) Cost., infatti, riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la disciplina della cittadinanza, dello stato civile e delle anagrafi, e la Legge n.1228 del 1954 (statuendo all’art.1 che l’anagrafe della popolazione deve essere tenuta presso ogni Comune) demanda al Sindaco, nella sua qualità di Ufficiale di Governo, soltanto il ruolo di Ufficiale dell’anagrafe (art.3), con compiti limitati alla tenuta dell’anagrafe (art.4) e non anche estesi alla possibilità di incidere sulla disciplina dell’anagrafe stessa, individuando i requisiti occorrenti per l’iscrizione dell’interessato, come, invece, accaduto nel caso di specie. Peraltro, ai sensi dell’art. 5 bis D.Lgs. n.142/2015, l’iscrizione del richiedente protezione internazionale ospitato nei centri di cui agli articoli 9, 11 e 14 nell’anagrafe della popolazione residente ai sensi dell’articolo 5 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, è obbligatoria, ove il medesimo non risulti già ivi iscritto individualmente.

Di conseguenza, anche sotto questo profilo, va ravvisata la nullità per difetto assoluto di attribuzione del provvedimento impugnato, poiché il Sindaco, nella dichiarata qualità di organo del Comune, ha esercitato funzioni di competenza esclusiva dell’apparato amministrativo dello Stato.

Ulteriore causa di nullità si rinviene anche nella dedotta violazione degli artt.41 e 42 Cost., poiché l’impugnato provvedimento, statuendo il divieto di alienazione o di concessione in locazione o in comodato di immobili siti all’interno del territorio comunale per l’ospitalità di migranti, viola il principio di libertà dell’iniziativa economica privata e disciplina, limitandole, le facoltà di godimento della proprietà privata fuori dai casi previsti dalla legge.

Sul punto occorre precisare che il divieto in esame, sebbene formalmente preordinato ad inibire l’utilizzo a qualsivoglia titolo soltanto delle strutture prive dei requisiti di legge per ospitare migranti e rifugiati, nella pratica assume una portata assoluta, poiché la presenza di immobili a siffatto scopo idonei è stata categoricamente esclusa nell’ambito del territorio del Comune di Valguarnera Caropepe dall’Ufficio Tecnico Comunale. Pertanto, il privato che intendesse alienare o concedere in locazione o in comodato il proprio immobile per ospitare migranti e rifugiati sarebbe inibito nelle sue iniziative, poiché non otterrebbe il rilascio dei certificati di agibilità ed abitabilità all’uopo necessari dall’Ufficio Tecnico Comunale, in ragione proprio delle motivazioni espresse nel parere. Né, peraltro, sarebbe possibile l’elusione del divieto in esame mediante l’utilizzo di perizie asseverate o autocertificazioni, poiché il ricorso alle stesse, come ad ogni altro documento alternativo ai suddetti certificati di agibilità ed abitabilità, è stato espressamente escluso al punto 1 dell’ordinanza sindacale impugnata.

Appare, dunque, evidente la portata dell’intervento del Sindaco del Comune di Valguarnera Caropepe, considerato che l’agibilità e l’abitabilità costituiscono caratteristiche essenziali dell’immobile urbano direttamente incidenti sulle possibilità di circolazione del bene e sulle facoltà di godimento dello stesso da parte del proprietario. Sebbene, infatti, la loro carenza non determini di per sé l’invalidità del contratto di compravendita, di locazione o di comodato, i certificati di abitabilità e di agibilità rilevano nei rapporti tra privati sul piano delle obbligazioni contrattuali, integrando la loro consegna l’oggetto di un’obbligazione specifica del venditore ai sensi dell’art.1477 c.c. nei confronti del compratore, in quanto attinenti ad un requisito essenziale della cosa venduta incidente sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all’uso contrattualmente pattuito. Ed invero, secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione, «Il venditore-costruttore di un bene immobile ha l’obbligo non solo di trasferire all’acquirente un fabbricato conforme all’atto amministrativo d’assenso della costruzione e, dunque, idoneo ad ottenere l’agibilità prevista, ma anche di consegnargli il relativo certificato, curandone la richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio. L’inadempimento di quest’ultima obbligazione è ex se foriero di danno emergente, perché costringe l’acquirente a provvedere in proprio ovvero a ritenere l’immobile tal quale, cioè con un valore di scambio inferiore a quello che esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza che il bene sia alienato o comunque destinato all’alienazione a terzi» (Cassazione civile, sez. II, 11/10/2013, n. 23157); ed ancora: «In materia di vendita d’immobile destinato ad abitazione integra l’ipotesi di consegna di aliud pro alio il difetto assoluto della licenza di abitabilità ovvero l’insussistenza delle condizioni necessarie per ottenerla in dipendenza della presenza di insanabili violazioni della legge urbanistica. Il venditore di un immobile destinato ad abitazione ha l’obbligo di consegnare all’acquirente il certificato di abitabilità, senza il quale l’immobile stesso è incommerciabile; la violazione di tale obbligo può legittimare sia la domanda di risoluzione del contratto, sia quella di risarcimento del danno, sia l’eccezione di inadempimento; tale violazione non è sanata dalla mera circostanza che il venditore, al momento della stipula, abbia già presentato una domanda di condono per sanare l’irregolarità amministrativa dell’immobile» (Cassazione civile, sez. II, 30/01/2017, n. 2294).

Il privato, dunque, che intendesse contravvenire al divieto di cui al punto 1 dell’ordinanza sindacale impugnata, alienando o concedendo in locazione o in comodato un proprio immobile per consentire l’ospitalità di migranti, rifugiati e richiedenti asilo, si esporrebbe a tre possibili ordini di responsabilità: la prima, di natura civile, ai sensi degli artt. 1218 e 1453 c.c., nei confronti dell’altro contraente per avere stipulato il contratto senza i prescritti certificati di agibilità ed abitabilità (considerato che se anche li richiedesse, l’Ufficio Tecnico Comunale non li rilascerebbe); la seconda, di natura penale, ai sensi dell’art. 650 c.p., per inosservanza di un ordine (almeno apparentemente) legalmente dato dall’Autorità per ragioni di igiene; e la terza, di natura amministrativa, ai sensi dell’art.7 bis co.1 del D.Lgs. n.267/2000, nei confronti del Comune, per il pagamento della sanzione pecuniaria di € 500,00 dovuta in quanto stabilita al punto 5 dell’ordinanza sindacale.

L’intervento del Sindaco del Comune di Valguarnera Caropepe, combinato con il suddetto parere dell’Ufficio Tecnico Comunale, viola, quindi, tanto l’art. 41 Cost., poiché limita la libertà negoziale dei privati, quanto l’art. 42 co.2 Cost., poiché esclude rilevanti facoltà di godimento degli immobili urbani riconosciute dalla legge. A tale ultimo proposito va, infatti, chiarito che, secondo quanto stabilito dall’art. 42 co. 2 Cost., “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. La riserva di legge ivi contemplata, pertanto, non consente l’introduzione tramite provvedimento amministrativo di limiti alla proprietà privata mediante l’esclusione di talune delle facoltà di godimento del bene riconosciute al proprietario, come avvenuto nella fattispecie, non potendo un’ordinanza contingibile ed urgente limitare la circolazione e le possibilità di utilizzo dei beni privati.

Il Collegio osserva, poi, che la violazione degli artt. 41 e 42 Cost. rileva, inoltre, sul piano del mancato rispetto del riparto di competenza di cui agli artt. 117 e 118 Cost., poiché il Sindaco del Comune di Valguarnera Caropepe, limitando la libertà negoziale dei privati ed introducendo limiti alla circolazione ed alle facoltà di godimento della proprietà privata con l’ordinanza impugnata, ha emanato una disciplina speciale propriamente di diritto civile nel settore delle obbligazioni e dei diritti reali, così violando la competenza legislativa esclusiva dello Stato prevista dall’art. 117 co. 2 lett. l) Cost.. Sulle questioni afferenti all’ordinamento civile, infatti, soltanto il legislatore statale può intervenire, in ragione dell’avvertita esigenza di assicurare la certezza dei traffici giuridici mediante la previsione di una disciplina uniforme dei rapporti tra privati applicabile su tutto il territorio nazionale, come comprovato anche dalle molteplici sentenze con le quali la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità, per violazione dell’art.117 co.2 lett. l) Cost., di leggi regionali contemplanti discipline speciali di diritto privato (tra le tante, Corte Costituzionale 10 novembre 2017 n. 234, Corte Costituzionale 13 luglio 2017 n. 175, Corte Costituzionale 11 luglio 2017 n. 160, Corte Costituzionale 26 maggio 2017 n. 121, Corte Costituzionale 12 aprile 2017 n. 72). Costituisce, quindi, limite insuperabile per le ordinanze contingibili ed urgenti, in quanto riconducibile nel novero dei principi generali dell’ordinamento, il rispetto dell’intera disciplina nazionale dell’ordinamento civile, non avendo il Sindaco il potere di regolamentare extra ordinem questioni afferenti alla sfera giuridica dei rapporti tra privati in ragione della competenza legislativa esclusiva riservata dall’art.117 co.2 lett. l) Cost. allo Stato.

Pertanto, l’ordinanza impugnata è nulla per difetto assoluto di attribuzione in quanto, statuendo limiti all’attività negoziale dei privati ed al godimento della proprietà privata in contrasto con gli artt.41 co.1 e 42 co.2 Cost., introduce una disciplina propriamente di diritto privato, come tale, rientrante nell’ambito dell’ordinamento civile e, quindi, di esclusiva competenza dello Stato ai sensi dell’art.117 co.2 lett. l) Cost..

Infine, l’ordinanza impugnata va dichiarata nulla anche perché integrante un atto discriminatorio, come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato con il secondo motivo di ricorso.

L’art. 43 del D.Lgs. n.286/1998 prevede che “costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”, precisando al comma 2 che: “In ogni caso compie un atto di discriminazione:

a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente;

b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;

c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità”.

Poiché l’ordinanza impugnata è preordinata ad impedire o rendere più difficile il collocamento di stranieri migranti, rifugiati e richiedenti asilo sul territorio del Comune di Valguarnera Caropepe, si configurano nella specie proprio le ipotesi di cui all’art. 43 co. 2 lett. a) e c) del D.Lgs. n.286/1998, avendo il Sindaco, da un lato, nella sua qualità di pubblico ufficiale e nell’esercizio delle sue funzioni compiuto un atto che arbitrariamente discrimina stranieri proprio in ragione della loro condizione di cittadini non italiani appartenenti ad una certa razza ed etnia e, dall’altro, imposto, per i medesimi motivi discriminatori, condizioni più svantaggiose e rifiutato l’accesso all’alloggio ai migranti, senza neppure distinguere, in quest’ultima ipotesi, tra soggetti regolarmente soggiornanti o meno.

Il divieto di non discriminazione, invero, afferisce alla sfera giuridica privata dell’essere umano in quanto tale e, pertanto, costituisce un principio generalmente riconosciuto sia nel nostro ordinamento, dall’art. 2 Cost. prima ancora che dall’art. 43 del D.Lgs. n.286/1998 (in quanto direttamente incidente sullo sviluppo della personalità dell’individuo), sia a livello internazionale, dagli artt.14 della C.E.D.U. ed 1 del Protocollo n.12 alla C.E.D.U., nonché a livello eurounitario dagli artt.1 e 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

In tal senso si è pronunciata anche la Corte di Cassazione, affermando che «Sono esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 16 delle preleggi (secondo cui lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità) in primo luogo i diritti che la Costituzione repubblicana e le carte internazionali attribuiscono a ogni individuo per la sua stessa qualità di persona umana. I diritti inviolabili e le libertà fondamentali – infatti – hanno il predicato della indivisibilità e spettano ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani. Deriva da quanto precede, pertanto, che proprio nella prospettiva della universalità della persona umana chiunque – senza distinzione tra cittadino e straniero, e senza distinzione tra straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato e straniero privo di un titolo o di un permesso di soggiorno – ne è titolare» (Cassazione civile, sez. II, 21/03/2013, n. 7210).

Essendo gli atti discriminatori lesivi di diritti fondamentali della personalità generalmente riconosciuti, le relative controversie sono di regola devolute alla giurisdizione del Giudice Civile. Secondo quanto, infatti, previsto dall’art. 44 co.1 del D.lgs. n. 286/1998, “Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, linguistici, nazionali, di provenienza geografica o religiosi, è possibile ricorrere all’autorità giudiziaria ordinaria per domandare la cessazione del comportamento pregiudizievole e la rimozione degli effetti della discriminazione”. Sennonché, nel caso in esame, la condotta discriminatoria è stata perpetrata dal Comune resistente con un provvedimento, come già detto, rientrante nella giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo ai sensi dell’art. 133 co.1 lett. q) c.p.a. e, pertanto, sindacabile in questa sede con efficacia di giudicato anche se lesivo di diritti soggettivi. Inoltre, la giurisdizione del Giudice Ordinario va esclusa nella fattispecie, anche perché l’art. 44 del D.Lgs. n. 286/1998 espressamente la prevede soltanto con riguardo all’azione civile proposta dal soggetto discriminato per la tutela della propria dignità personale violata, e non anche qualora ad agire non sia lo straniero destinatario del provvedimento discriminatorio ma il Ministero dell’Interno, come in questo caso, per l’affermazione ed il rispetto della sua competenza esclusiva nella materia della gestione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. L’azione proposta in questa sede non rientra nella giurisdizione del Giudice Ordinario anche perché differisce dall’azione civile di cui all’art. 44 del D.Lgs. n. 286/1998, sia sul piano soggettivo, per la diversità dei soggetti legittimati ad agire, sia sul piano oggettivo, poiché la causa petendi è da rinvenire nella tutela delle competenze esclusive dello Stato di cui all’art.117 co.2 Cost. ed il petitum si identifica soltanto nella domanda di accertamento e declaratoria della nullità dell’ordinanza impugnata, e non anche nella richiesta di condanna della Pubblica Amministrazione al risarcimento del danno patito e all’adozione di misure in concreto preordinate ad assicurare il pieno ripristino della dignità umana violata.

Il Collegio ritiene che i provvedimenti amministrativi aventi natura discriminatoria perché adottati in contrasto con l’art. 43 del D.Lgs. n.286/1998 sono da ritenersi nulli e non annullabili.

A favore della tesi della nullità depone, anzitutto, la disciplina contemplata proprio dal richiamato art.44 co.1 del D.Lgs. n.286/1998 nella parte in cui, affermando la giurisdizione del Giudice Ordinario, consente al Giudice Civile di ordinare alla Pubblica Amministrazione convenuta l’immediata la cessazione del comportamento discriminatorio, condannandola anche alla rimozione degli effetti dell’atto impugnato. In questi casi, infatti, come più precisamente chiarito dall’art.28 co.5 del D.Lgs. n.150/2011 (richiamato dall’art.44 co.2 del D.Lgs. n.286/1998), il Giudice Civile può “condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della Pubblica Amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate”.

L’espresso riferimento alla Pubblica Amministrazione in entrambe le richiamate disposizioni normative induce l’interprete a ritenere la condotta discriminatoria perpetrata da una Autorità Amministrativa con l’emanazione di un provvedimento amministrativo rilevante sempre e soltanto sul piano meramente fattuale, ossia quale comportamento illecito dell’autore che lo ha posto in essere, a siffatto esito dovendosi pervenire proprio in ragione dell’ampia tutela (non soltanto risarcitoria) esperibile dinanzi al Giudice Civile. La possibilità, infatti, di chiedere ed ottenere in un giudizio civile la condanna della Pubblica Amministrazione convenuta tanto alla cessazione immediata della condotta discriminatoria perpetrata mediante l’emanazione (come nella specie) di un atto ai sensi dell’art.43 co.2 lett. a) e c) del D.Lgs. n. 286/1998 quanto, soprattutto, ad un “facere” specifico preordinato a riparare le conseguenze lesive della pregressa condotta illecita presuppone l’assenza di qualsivoglia spendita di potere pubblicistico e la necessaria considerazione degli atti posti in essere dalla P.A. quali comportamenti meramente materiali e non amministrativi, ossia non riconducibili all’esercizio di un alcun potere pubblico neanche in via mediata, poiché diversamente opinando, la decisione del Giudice Civile sarebbe affetta da nullità per difetto di giurisdizione in ragione del limite stabilito dall’art. 4 della L. n. 2248/1865 all. E.

Poiché l’art. 44 co.1 del D.Lgs. n. 286/1998 è proprio una norma sulla giurisdizione, il presupposto necessario per garantire ai soggetti discriminati l’effettività degli strumenti di tutela previsti nella richiamata disposizione e meglio articolati nell’art.28 del D.Lgs. n.150/2011 è la nullità per carenza assoluta di potere del provvedimento amministrativo discriminatorio, adottato ai sensi dell’art.43 co. 2 lett. a) e c) del D.Lgs. n. 286/1998, e la necessaria considerazione dello stesso esclusivamente nella sua realtà fattuale e non provvedimentale, ossia quale atto rappresentativo di una condotta meramente materiale e non esplicativo dell’esercizio di alcun potere pubblicistico di tipo autoritativo.

A sostegno di quanto affermato depone anche una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della disciplina in esame.

Secondo quanto, infatti, desumibile dalla congiunta lettura degli artt. 44 del D.Lgs. n. 286/1998 e 28 del D.Lgs. n. 150/2011, gli atti discriminatori, nella loro ampia eterogeneità ed atipicità, sono considerati tutti allo stesso modo sul piano della tutela, senza distinzione di sorta a seconda che la discriminazione sia perpetrata mediante un contratto o un negozio o un atto amministrativo, essendo in tutte le ipotesi possibile l’esperimento delle tutele previste dalla richiamata normativa. Di conseguenza, sarebbe erroneo, in quanto contrario al tenore ed alla ratio della disciplina in esame, sostenere l’annullabilità del provvedimento amministrativo discriminatorio, con conseguente onere di tempestiva impugnazione dinanzi al Giudice Amministrativo, per contrarietà alla norma imperativa di cui all’art.43 del D.Lgs. n. 286/1998 (e, dunque, per violazione di legge ai sensi dell’art.21 octies co.1 della L. n.241/1990) quando per la stessa ragione il contratto od il negozio discriminatorio è, invece, nullo, ai sensi degli artt.1418 co.1 c.c., tanto più considerato che né l’art. 44 del D.Lgs. n. 286/1998 né l’art. 28 del D.lgs. n.150/2011 riconoscono al Giudice Civile un potere di annullamento degli atti amministrativi discriminatori. Né, peraltro, potrebbe ritenersi sufficiente a garantire piena tutela ai diritti fondamentali dello straniero discriminato l’eventuale disapplicazione del provvedimento amministrativo discriminatorio da parte del Giudice Civile ai sensi dell’art.5 della L. n.2248/1865 all. E, poiché la condanna dell’Autorità Amministrativa convenuta ad un “facere” specifico di tipo riparatorio presuppone, come detto, l’assenza di qualsivoglia potere pubblicistico, in ragione del limite alla giurisdizione del Giudice Ordinario stabilito dall’art.4 L. n.2248/1865 all. E.

I principi, dunque, di effettività della tutela giurisdizionale e di simmetria delle tutele desumibili dagli artt. 3, 24 e 113 Cost. inducono il Collegio ad una lettura sistematica e costituzionalmente orientata degli artt. 43 e 44 D.Lgs. n. 286/1998 e 28 D.Lgs. n.150/2011 ed alla conseguente considerazione del provvedimento amministrativo discriminatorio come nullo per carenza assoluta di potere, dovendosi ritenere l’art. 43 del D.Lgs. n. 286/1998 una norma, non disciplinante ma, inibente l’esercizio del potere, implicando l’esclusione ab origine dell’esercizio di qualsivoglia potestà pubblicistica eventualmente evocata dalla P.A. per l’adozione di un atto di tipo discriminatorio.

Elementi in tal senso indicativi si desumono anche dalle fonti internazionali ed eurounitarie.

Come detto, il divieto di discriminazione costituisce un principio generalmente riconosciuto anche a livello internazionale.

Ed invero, l’art.14 della C.E.D.U. stabilisce che “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”. Il medesimo principio è ribadito anche dall’art.1 del Protocollo n.12 allegato alla C.E.D.U., secondo cui “1. Il godimento di ogni diritto previsto dalla legge deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione. 2. Nessuno potrà essere oggetto di discriminazione da parte di una qualsivoglia autorità pubblica per i motivi menzionati al paragrafo 1”.

Anche la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea afferma il divieto di discriminazione, laddove, dopo avere chiarito all’art.1 che “la dignità umana è inviolabile” e “deve essere rispettata e tutelata”, all’art.21 precisa essere “vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”.

Una disciplina più dettagliata si rinviene, poi, nella Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale conclusa a New York il 21 dicembre 1965, laddove all’art.2 si afferma che “1. Gli Stati contraenti condannano la discriminazione razziale e si impegnano a continuare, con tutti i mezzi adeguati e senza indugio, una politica tendente ad eliminare ogni forma di discriminazione razziale ed a favorire l’intesa tra tutte le razze, e, a tale scopo:

a) ogni Stato contraente si impegna a non porre in opera atti o pratiche di discriminazione razziale verso individui, gruppi di individui od istituzioni ed a fare in modo che tutte le pubbliche attività e le pubbliche istituzioni, nazionali e locali, si uniformino a tale obbligo”; all’art.4 si prevede che “Gli Stati contraenti condannano ogni propaganda ed ogni organizzazione che s’ispiri a concetti ed a teorie basate sulla superiorità di una razza o di un gruppo di individui di un certo colore o di una certa origine etnica, o che pretendano di giustificare o di incoraggiare ogni forma di odio e di discriminazione razziale, e si impegnano ad adottare immediatamente misure efficaci per eliminare ogni incitamento ad una tale discriminazione od ogni atto discriminatorio, tenendo conto, a tale scopo, dei principi formulati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dei diritti chiaramente enunciati nell’articolo 5 della presente Convenzione, ed in particolare: a) a dichiarare crimini punibili dalla legge, ogni diffusione di idee basate sulla superiorità o sull’odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale, nonché ogni atto di violenza, od incitamento a tali atti diretti contro ogni razza o gruppo di individui di colore diverso o di diversa origine etnica, come ogni aiuto apportato ad attività razzistiche, compreso il loro finanziamento; b) a dichiarare illegali ed a vietare le organizzazioni e le attività di propaganda organizzate ed ogni altro tipo di attività di propaganda che incitino alla discriminazione razziale e che l’incoraggino, nonché a dichiarare reato punibile dalla legge la partecipazione a tali organizzazioni od a tali attività; c) a non permettere né alle pubbliche autorità, né alle pubbliche istituzioni, nazionali o locali, l’incitamento o l’incoraggiamento alla discriminazione razziale”; all’art.5 si stabilisce che “In base agli obblighi fondamentali di cui all’articolo 2 della presente Convenzione, gli Stati contraenti si impegnano a vietare e ad eliminare la discriminazione razziale in tutte le sue forme ed a garantire a ciascuno il diritto all’eguaglianza dinanzi alla legge senza distinzione di razza, colore od origine nazionale o etnica, nel pieno godimento dei seguenti diritti” […] tra i quali quello all’alloggio; all’art.6 si afferma che “Gli Stati contraenti garantiranno ad ogni individuo sottoposto alla propria giurisdizione una protezione ed un mezzo di gravame effettivi davanti ai tribunali nazionali ed agli altri organismi dello Stato competenti, per tutti gli atti di discriminazione razziale che, contrariamente alla presente Convenzione, ne violerebbero i diritti individuali e le libertà fondamentali nonché il diritto di chiedere a tali tribunali soddisfazione o una giusta ed adeguata riparazione per qualsiasi danno di cui potrebbe essere stata vittima a seguito di una tale discriminazione”.

L’universalità del richiamato principio induce a ritenere la dignità umana un valore fondamentale ed assoluto, da tutelare nei confronti di chiunque intenda lederlo o lo abbia leso, ivi incluse le Pubbliche Autorità. L’adesione, infatti, ai richiamati trattati internazionali costituisce una condotta indicativa non soltanto della condivisione di un principio, ma, più che altro, della volontà di assicurare piena e completa tutela (civile e penale) alla dignità umana, escludendo, tra l’altro, qualsivoglia possibilità di atti discriminatori, prima di tutto, ad opera delle Autorità amministrative nazionali deputate all’esercizio dei molteplici pubblici poteri tramite i quali si esplica la sovranità degli Stati, essendo notorio che la discriminazione perpetrata da una Pubblica Autorità sia maggiormente offensiva, poiché percepita dal discriminato con maggiore lesività, rispetto a quella posta in essere da un privato, in conseguenza della logica percezione della sensazione di non essere accettati da un’intera comunità, come, ad esempio, avviene quando ad agire in senso discriminatorio sia un Ente Pubblico Territoriale, come nel caso in esame.

Costituendo principio generalmente riconosciuto dalla comunità internazionale e dall’Unione Europea la considerazione della dignità umana quale diritto fondamentale dell’essere umano e limite alla sovranità degli Stati, va osservato che la discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi, ecc…, poiché espone a responsabilità internazionale lo Stato che ne sia autore, va prevenuta nell’ambito dell’ordinamento interno, inibendo in nuce, anzitutto, qualsivoglia esercizio di potestà pubblicistiche per il soddisfacimento di finalità discriminatorie o, implicanti, anche se soltanto indirettamente, effetti discriminatori. Dovendosi, dunque, escludere a priori il possibile esercizio di poteri autoritativi per il compimento di atti discriminatori, la funzione dei richiamati trattati internazionali deve rinvenirsi nell’assunzione di responsabilità per gli Stati firmatari, come l’Italia, dell’obbligo di tutelare il rispetto della dignità umana anche da provvedimenti delle Pubbliche Amministrazioni mediante l’introduzione negli ordinamenti nazionali di norme, non tanto disciplinanti le modalità di esercizio del potere, bensì preclusive dell’esercizio stesso del potere ogniqualvolta ciò possa implicare l’adozione di un provvedimento discriminatorio.

L’art. 43 del D.lgs. n. 286/1998 va, dunque, concepito non come semplice parametro di legittimità dell’agire della Pubblica Amministrazione implicante in caso di inosservanza la mera annullabilità del provvedimento discriminatorio, ma come norma statuente un divieto assoluto, con effetto inibitorio, dell’esercizio di qualsivoglia potere pubblicistico che si traduca in un atto discriminatorio, essendo la sfera più intima dell’essere umano, nel suo complesso considerata e costituita dai valori e diritti fondamentali generalmente riconosciuti ad ogni persona, un ambito non suscettibile di ingerenze lesive da parte di nessuna Pubblica Autorità, sia per espressa scelta della nostra Carta Fondamentale, che all’art. 2 riconosce e garantisce i “diritti inviolabili dell’uomo”, sia per adesione ai richiamati trattati internazionali.

Il Legislatore nazionale, dunque, con l’art.43 del D.Lgs. n.286/1998 ha inteso assicurare, in conformità agli impegni internazionali assunti, la più ampia tutela possibile, incidendo, con riguardo ai provvedimenti amministrativi discriminatori, direttamente sulla norma attributiva del potere esercitato, rendendola transitoriamente inefficace in ragione della scelta ab origine dello Stato di non ledere con l’esercizio dei suoi poteri autoritativi la dignità umana, discriminando un essere umano rispetto ad un altro per nessun motivo.

Di conseguenza, l’art. 43 del D.Lgs. n.286/1998 assolve alla funzione di privare di efficacia, prima ancora che l’atto discriminatorio, la norma attributiva del potere esercitato nella circostanza, rendendo di riflesso privo di effetti il provvedimento emesso dall’Autorità Pubblica.

Con riguardo al caso in esame, il Collegio ritiene che la nullità dell’ordinanza sindacale impugnata discenda dalla inefficacia della norma attributiva del potere, ossia l’art.50 del D.Lgs. n.267/2000, in conseguenza della natura discriminatoria dell’atto adottato ai sensi dell’art.43 co.2 lett.a) e c) del D.Lgs. n.286/1998.

Infine, il T.A.R., considerato che l’ordinanza in questione costituisce un atto di discriminazione per motivi razziali ed etnici e che potrebbe, quindi, essere fonte di responsabilità penale ai sensi dell’art.323 c.p., (potendo integrare il reato di abuso d’ufficio con l’aggravante della discriminazione razziale di cui all’art.604 ter c.p.) ovvero ai sensi dell’art. 3 co.1 lett. a) della legge 13 ottobre 1975 n.654 (come modificato dal D.L. 26 aprile 1993 n.122 convertito con modificazioni nella Legge 25 giugno 1993 n.205) di ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966, (secondo cui è punito con la pena della reclusione sino ad 1 anno e 6 mesi o con la multa sino ad € 6.000,00 colui il quale commetta atti di discriminazione per motivi razziali o etnici), ha disposto la trasmissione di copia dei provvedimenti impugnati e della sentenza alla Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Enna per gli adempimenti di sua competenza.


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