Afragola romana, dalla lex Sempronia agraria al terzo secolo d.C.

Afragola romana, dalla lex Sempronia agraria al terzo secolo d.C.

Sommario: 1. Le centuriazioni – 2. Il castra stativa di Labeone – 3. Una iscrizione onoraria – 4. Gli acquedotti – 5. L’acquedotto augusteo del Serino – 6. Decadenza di Acerra e probabile, ulteriore sviluppo di Afragola – 7. Un’epigrafe cristiana – 8. Un’epigrafe inedita – 9. A gamba tesa

 

 

 

1. Le centuriazioni

Secondo una consolidata tradizione storica, Servio Tullio, seguendo l’esempio di Solone, per primo istituì a Roma la centuria, che, come si evince dal nome, era in origine costituita da cento uomini.

In seguito, mutati i tempi e le esigenze di una società in costante espansione, dalla centuria, e ci atteniamo alla etimologia del termine, ebbero vita le centuriazioni, territori conquistati dai Romani ed affidati ai coloni, che erano in genere veterani di guerra.

Era la centuriazione un reticolo simmetrico e regolare di strade ortogonali: i cardini erano orientati a nord-sud, i decumani, invece, erano tracciati lungo l’asse del reticolo.

In Campania la prima centuriazione si ebbe nel 131 a. C., a seguito della “Lex Sempronia agraria” (tracce evidenti di questa centuriazione sono ancora oggi presenti in Afragola in una serie di toponimi stratificati nel tempo, primo fra tutti la località chiamata “e quatte moie”).

Una seconda e più importante centuriazione, almeno per l’argomento che ci accingiamo a trattare, interessò gli attuali territori di Afragola, di Casoria, di Acerra già “vacua” e semideserta in quel tempo, di Atella, Frattamaggiore e numerosi altri Comuni a nord di Napoli: essa ebbe luogo sotto il principato di Cesare Ottaviano Augusto.

Questa seconda centuriazione, in particolare, vide il fiorire in Afragola di una popolazione eterogenea e strutturata e questa “fioritura” è attestata da pochi, interessanti ritrovamenti archeologici, che, se ben letti, appaiono chiari ed inconfutabili, chiarificatori certamente delle strutture e delle compagini sociali che si andavano delineando sul territorio dell’attuale Afragola.

2. Il castra stativa di Labeone

Una prima, evidente traccia della presenza romana in Afragola risale al 183 a. C., quando il console Quinto Fabio Labeone fu chiamato in qualità di “arbiter” a dirimere una pericolosa controversia territoriale sorta tra Nolani e Napoletani.

L’astuto ed ambizioso console romano, dopo aver delimitato i confini dei contendenti, fece lasciare agli uni e agli altri una lunga fascia di terra a favore dei Romani, come attestano Cicerone e Valerio Massimo.

Non possiamo tacere che alcuni storici contemporanei attribuiscono l’intera vicenda non a Quinto Fabio Labeone, ma a Caio Atinio Labeone, pretore peregrino.

Sia stato l’uno o l’altro, resta il fatto che la fascia di terra data ai Romani si estendeva dal Monte Somma fino ad Afragola e che su di essa fu costruito un castra stativa finalizzato sia alla difesa che all’offesa, un punto nevralgico per lo sviluppo di ulteriori e futuri insediamenti nella fertile e strategica terra campana.

La nascita del castra stativa comportò lo sviluppo delle popolazioni che stanziavano intorno ad esso, la nascita di traffici commerciali, l’ampliamento costante e progressivo di borghi, villaggi e municipi, protetti dalle insegne di Roma e dal crescente afflusso delle famiglie dei milites in quei luoghi.

Mercati, cisterne, laboratori artigianali, magazzini, infermerie, tutto ciò che era necessario allo sviluppo e alla crescita di una società civile si trovava all’interno e nelle immediate vicinanze del castra stativa di Labeone.

In tale contesto, le popolazioni non potevano che avanzare e progredire, dal più piccolo villaggio al più esteso e strutturato municipium.

Ad ogni modo, del castra stativa di Labeone oggi non rimane alcuna traccia immediatamente visibile, se non toponimi e qualche sporadico ritrovamento archeologico.

In Afragola, nella vasta zona del “Capomazzo” (traduzione dialettale di “Campus Martius”) sono stati ritrovati di tanto in tanto armi, insegne militari, fregi marmorei, punte di giavellotti e diversi altri reperti noti soltanto ai contadini che aravano ed arano questi terreni e agli immancabili “tombaroli”.

3. Una iscrizione onoraria

Nel 1929 il canonico afragolese Aspreno Rocco rinvenne nella zona del rione S. Marco una lastra di travertino che misurava 1,17 cm. in altezza e che aveva misure asimmetriche sulle facce laterali, segno evidente di una rottura sul lato destro.

Nel 1933, stando a quello che riferisce Gaetano Capasso, la lastra, studiata a fondo dal Della Corte, fu con dotta relazione portata all’attenzione della Accademia Nazionale dei Lincei.

La lastra era di travertino e all’atto del suo ritrovamento presentava in alto un Aug. Sacrum, né c’erano altri riferimenti epigrafici.

Essa, con superficialità estrema, fu chiamata Ara di Augusto e tale denominazione conserva ancora oggi, monumento esemplare dell’ignoranza e della pigrizia mentale.

Chi abbia, infatti, sufficiente conoscenza di epigrafia latina, sa bene che gli elementi costitutivi di un’ara sono: nome del dedicante, forma dedicatoria, causa della dedica, menzione dell’oggetto dedicato (basis, aedes, signum, statua, templum, ara) ed infine l’esatta indicazione della somma con la quale il dedicante aveva potuto fare la sua offerta.

Ora, la constatazione che il testo epigrafico della famigerata ara non inizia con il nome del dedicante, ma con il nome, in dativo, del personaggio onorato, porta ad una sola conclusione: non stiamo di fronte ad un’ara o ad un cippo, come qualche anno addietro scrisse un altro “studioso”, ma stiamo in presenza di una iscrizione onoraria.

La precisazione non è oziosa o priva di conseguenze.

Tali iscrizioni, infatti, si trovavano solitamente poste a compimento di monumenti celebrativi particolari (colonne, archi, statue) e venivano poste quasi sempre da comunità.

In età imperiale, inoltre, proprio a partire da Augusto, quasi sempre le iscrizioni onorarie si configuravano come una sorta di omaggio che nasceva da un grosso beneficio ricevuto.

Sic stantibus rebus, come non porsi, allora, alcune domande?

Perché mai un ignoto “ager suburbanus”, se tale fosse rimasto l’attuale Afragola, avrebbe dovuto far omaggio all’imperatore?

Con quali mezzi finanziari?

E ancora: quale grande beneficio aveva ricevuto la popolazione?

Una prima ed immediata conclusione ci porta a dire che il primitivo ager suburbanus esistente negli anni immediatamente successivi al castra stativa di Labeone era cresciuto nel tempo e doveva godere anche di una certa prosperità economica.

Il beneficio ricevuto, poi, doveva essere necessariamente grande: secondo chi scrive, dovette consistere nel passaggio in Afragola del “rivus subterraneus” attestato dalla dotta relazione del Lettieri e che lo scrivente ha avuto la fortuna di individuare in via Pagano, alle spalle del rione Sportiglione.

4. Gli acquedotti

L’acquedotto può, a giusta ragione, essere considerato come uno dei più importanti documenti identificativi della civiltà romana, un po’ come lo sono per noi oggi il codice fiscale, la tessera sanitaria e la patente di guida.

Essi pervennero ad un così alto grado di perfezione, tale da essere superati soltanto da quelli prodotti oggi dalle più avanzate nazioni industrializzate.

Nato alla fine del quarto secolo d.C., l’acquedotto era inizialmente un canale quasi interamente sotterraneo, che seguiva la pendenza naturale del terreno a prezzo di molte sinuosità.

Fortemente voluto a Roma da Appio Claudio e seguendo un percorso spesso tortuoso, esso arrivava nell’Urbe con una pressione molto bassa, malgrado le tecniche usate e che erano state mutuate dalle più avanzate città magno-greche dell’Italia meridionale.

Man mano che Roma allargava i suoi sempre più ampi confini, gli acquedotti divennero sempre più numerosi e sofisticati e crebbe anche il numero delle case private che usufruivano dell’acqua corrente.

Sfruttando il principio dei vasi comunicanti furono eliminati interminabili meandri e la pressione idrica divenne sempre più fluida e regolare.

Il percorso degli acquedotti, ad ogni modo, si snodava lontano dall’area urbana ed era quasi sempre subterraneus: lungo il suo perimetro esterno, ogni venti piedi, un cippo segnalava la presenza del canale sottostante.

A partire dal secondo secolo a.C., poi, cominciarono ad essere progettati acquedotti ad arco, in sostituzione dei precedenti, sotterranei e a cielo aperto.

Più tardi Agrippa, amico e cognato di Augusto, diede alle arcate una valenza monumentale ed organizzò un regolare servizio di architetti e di fontanieri, il cui compito era quello della manutenzione giornaliera di tutta la rete idrica romana.

Augusto, forte di questa esperienza, organizzò un vero e proprio servizio statale degli acquedotti, chiamato “cura aquarum”

Quanto queste scarne notizie siano finalizzate alla buona riuscita di questa nostra fatica, lo vedrà chiaramente il lettore nelle pagine successive, se ancora avrà la pazienza di seguirci.

5. L’acquedotto augusteo del Serino

Se è vero che Roma conquistò il mondo soprattutto grazie alle leggi e alla sua formidabile organizzazione statale, è altrettanto vero che gli acquedotti pubblici furono <<il principale segno della grandezza dell’Urbe e della munificenza dell’impero verso i suoi sudditi>>, come scrisse Sesto Iulio Frontino.

Questa “liberalitas” favorì grandemente la Campania durante il principato di Augusto: essa, infatti, conobbe senza dubbio un periodo prospero ed abbondante, grazie all’acquedotto del Serino, che era il più grande d’Italia e che migliorò notevolmente le condizioni di vita, assicurando alla Regione un rifornimento d’acqua abbondante e continuo.

Una epigrafe di marmo del 324 d.C., incisa su una lastra di marmo cipollino, alta 186 cm. e larga 86, scoperta soltanto nel 1936, ci informa sulle città della Campania servite dall’acquedotto augusteo che era stato da poco ripristinato.

Tra le città menzionate dall’epigrafe non c’è Afragola, ma soltanto i centri più rilevanti della fascia costiera e dell’entroterra a nord di Napoli: tra queste ultime viene nominata Atella, collegata ad Afragola attraverso un “subterraneus”.

Con la caduta dell’impero romano di molte arcate che esistevano nelle città campane poi, si perse anche la memoria.

Nella prima metà del 1500, don Pietro Toledo, il più illuminato dei vicerè spagnoli di Napoli, diede all’architetto Pierantonio Lettieri l’incarico di ripristinare, laddove ci fossero state le condizioni, l’antico tracciato dell’acquedotto progettato da Agrippa.

Il controllo del Lettieri fu accurato e meticoloso e la sua relazione ancora oggi è conservata negli archivi dei padri Teatini dei Santi Apostoli di Napoli.

Nella sua lunga ed articolata relazione, sia detto per inciso, il Lettieri non menziona Fragola tra le località che potevano presentare o che presentavano un tempo delle arcate e questa osservazione dovrebbe sgombrare il campo definitivamente circa la presunta derivazione di molte zone di Afragola da antichi archi dell’acquedotto del Serino e dovrebbe far zittire una volta per tutte gli studiosi d’assalto con le loro balzane elucubrazioni.

Il Lettieri, tuttavia, disse chiaramente che ad Afragola era presente un “rivus subterraneus” e che esso era collegato alla ben più nota Atella, dove nel 29 d.C. Virgilio lesse per la prima volta le “Georgiche” ad Ottaviano.

Il Lettieri non indicò l’esatta ubicazione dell’acquedotto del Serino in Afragola.

La notizia, rimasta per diversi secoli lettera morta, divenne per me un nodo da sciogliere a tutti i costi: volevo e dovevo conoscere il punto esatto genericamente riferito dal Lettieri.

Fu così che, riflettendo sulla etimologia della parola “sportiglione” cominciai le mie ricerche.

Il 16 agosto del 1983, dopo una lunga ricerca e con un po’ di fortuna, trovai finalmente il “rivus subterraneus” a via Pagano, ad otto (8) metri circa dal piano suolo.

Esso presentava una copertura di volta a botte, connessa con un conglomerato cementizio e si elevava un metro e venti al di sopra della tubatura centrale. Le pareti laterali e la stessa copertura erano intonacate con uno spesso strato di malto e due spolette, anche esse intonacate, fiancheggiavano la tubatura centrale per tutto il percorso che mi riuscì di fare.

Il ramo da me rinvenuto procedeva verso Atella da un lato e verso Napoli dall’altro; nel camminamento indirizzato verso Atella c’era una cisterna rettangolare ancora in buono stato, se si eccettua l’estrema parte superiore manchevole di diversi mattoni.

Era allora sindaco di Afragola il signor Pasquale Caccavale: a lui diedi la notizia con ricchezza di particolari.

Il sindaco, in verità, non perse tempo e si attivò subito affinché avessi un incontro con la sovrintendenza nella casa comunale.

L’incontro durò poco, perché, resomi conto di trovarmi di fronte ad avvoltoi, decisi che l’acquedotto poteva continuare a rimanere muto.

Ero giovane e mi lasciavo comandare soltanto da due imperativi: l’intelligenza e l’onestà.

Lasciamo da parte la lunga digressione e diciamo senza ombra di smentita che l’iscrizione onoraria analizzata nelle pagine precedenti è da mettere in stretta correlazione con l’acquedotto augusteo.

Il beneficio derivato dall’avere l’acqua a portata di mano, pur nel rispetto delle rigide regole legate all’uso degli acquedotti, era certamente un vantaggio enorme per la popolazione che non poteva non onorare Ottaviano, colui che in senato amava definirsi <<primus inter pares>>.

6. Decadenza di Acerra e probabile, ulteriore sviluppo di Afragola

Acerra, città osca secondo l’autorevolissimo parere del Mommsen, divenne nel 332 a.C. “municipium sine suffragio” grazie alla Lex Papiria.

La città crebbe in prestigio e opulenza, ma le continue esondazioni del Clanio, che l’avevano afflitta sin dalla nascita, la guerra annibalica del 216 a.C. e la susseguente distruzione della città da parte del generale africano, la ricostruzione solo in parte appoggiata dal Senato di Roma, la lenta e continua dispersione dei suoi abitanti in cerca perenne di abitazioni più sicure, l’avevano resa “vacua” e semideserta già al tempo di Virgilio, che coì scrisse nelle “Georgiche”: <<et vacuis Clanius non aequos Acerris>>.

Non è improbabile che molti acerrani, in cerca di luoghi più sicuri, si siano portati nella vicina Afragola, che poteva usufruire di un acquedotto e che aveva comunque un humus naturale abbastanza fertile e soprattutto che era al sicuro dalle esondazioni del Clanio, delizia per Sarno, Nocera e Capua, ma croce per Acerra, a causa, come già detto e ripetuto delle incontrollabili sinuosità del fiume nella antica città osca.

Afragola, e torniamo al nostro assunto, ricevette dalle disgrazie di Acerra impulso ed incremento per il suo sviluppo, a partire in modo particolare proprio dall’età augustea.

7. Un’epigrafe cristiana

Di questa epigrafe abbiamo già scritto, con ricchezza di particolari e competenza, in un recentissimo articolo dal titolo: <<Afragola, una importante epigrafe cristiana del I secolo d.C.>>.

Ci limiteremo, pertanto, unicamente a ribadire l’importanza della stessa per l’evolversi della società e per la complessa compagine sociale e religiosa in atto al tempo di Augusto nella nostra città.

Lo devo dire, anche se a malincuore: l’epigrafe cristiana riportata recentemente da qualche autore che ignoriamo e dallo stesso tradotta, è completamente errata, sia nella trascrizione che nella traduzione.

8. Un’epigrafe inedita

La presenza dell’accampamento stabile di Labeone comportò la presenza di “mercatores” e lo sviluppo del commercio con nuovi insediamenti.

Il “rivus subterraneus” migliorò la vivibilità dell’assetto urbano.

Le esondazioni del Clanio, mentre rendevano semideserta la vicina e gloriosa Acerra, andavano nel contempo ad ingrandire la popolazione della vicina e più fortunata Afragola e la stessa posizione geografica del territorio si prestava bene ad una sua costante espansione.

Tutti questi elementi fecero sì che la presenza romana in Afragola perdurasse fino al tardo impero, come attestato anche da una inedita epigrafe in terra cotta trovata dal signore Raffaele Tuccillo in zona san Marco e dallo stesso consegnata a me perché la decifrassi, cosa che feci subito nel primo convegno del gruppo archeologico di Afragola, presente tra gli altri Alfonso De Franciscis.

Recentemente il solito, poco accorto “ripetitore”, tacendo il retroscena, ha pubblicato, sbagliando anche la copia, l’epigrafe in questione, con la fantasiosa inserzione di elementi aggiuntivi.

Trascriviamo il testo integrale dell’epigrafe:

CAMVILILHVPL

Premesso che le iscrizioni epigrafiche sono una fedele testimonianza dell’evoluzione linguistica in tutte le sue stratificazioni sociali, l’epigrafe che abbiamo appena trascritta si configura come “instrumentum domesticum” e presenta, pertanto, un testo breve e di non facile interpretazione, certamente ascrivibile agli ultimi decenni del terzo secolo d.C.

La totale assenza degli elementi epigrafici della tradizione, l’uso del solo nome, il materiale usato, l’eleganza del lapicida, la lingua che si stava evolvendo sempre più in senso popolare, tutti questi elementi non lasciano dubbi: l’epigrafe è della fine del terzo secolo d.C. e testimonia in primo luogo, anche se in maniera indiretta, il buon numero di fattorie agricole presenti in quel secolo sul territorio di Afragola.

Ciò detto, l’epigrafe deve essere così ricomposta:

Cam (illus) vil (licus) i (us) l (iberorum) h (abens) v (otum) p (osuit) L (ibero)

(Il capo fattoria Camillo dopo aver ricevuto il diritto dei tre figli sciolse un voto a Libero)

Una breve analisi dell’epigrafe ci porta a dire che Camillo era un villico, un capo fattoria, un castaldo che aveva ottenuto il diritto dei tre figli, diritto che procurava, tra l’altro, l’esenzione da cariche dispendiose, la mitigazione delle pene e ogni specie di vantaggio nel diritto ereditario; alle donne, invece, il diritto dei tre figli procurava la non sottomissione alla “tutela mulierum”, cioè, la libertà dall’obbligo di assistenza.

La legge, fortemente voluta a suo tempo da Augusto nel tentativo di riforma della famiglia, servì soprattutto ad incrementare l’uso del matrimonio e della procreazione.

Questo villico, che non necessariamente doveva essere uno schiavo o un liberto, sciolse un voto a Libero, antica divinità italica identificata con Bacco, secondo il procedere di un sincretismo religioso sempre evidente nel mondo greco e romano.

Il testo epigrafico, come già detto, ci porta all’esistenza di una villa rustica, che sembrerebbe essere confermata dal ritrovamento nella stessa zona di diversi cocci di dolii e di un cratere finemente ornato.

Altri ritrovamenti di età adrianea furono registrati da Gaetano Capasso (relata refero).

9. A gamba tesa, fuori campo

Su una parete dell’antica Pompei ancora oggi è possibile leggere queste parole:

<<Admiror, paries, te non cecidisse ruina

Qui tot scriptorum taedia sustineas>>.

Tali parole dedico ai “ripetitori”, agli storici improvvisati, ai latinisti d’assalto e a tutti coloro che pensano di assaltare il campo della cultura suonando a perdifiato trombe d’argento senza l’ausilio delle truppe.


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Andrea Romano

Laureato in Lettere classiche, fondatore del disciolto gruppo archeologico di Afragola, Andrea Romano è autore di numerose pubblicazioni a carattere storico, artistico e letterario. Le sue competenze in campo archeologico l’hanno portato a scoprire numerose necropoli e ad individuare l’ubicazione dell’acquedotto augusteo in Afragola, suo paese d’origine. Prossimo alla pensione, attualmente è docente di religione presso la Scuola Secondaria di primo grado “Angelo Mozzillo”, pittore del quale ha scritto l’unica biografia esistente, dopo aver raccolto e analizzato quasi tutte le tele dell’artista afragolese, prima quasi del tutto ignorato. Ricercatore instancabile, ha portato alla luce un manoscritto inedito di Johannes Jørgensen, di prossima pubblicazione.

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