Alcune considerazioni sul patto di non concorrenza nel lavoro subordinato

Alcune considerazioni sul patto di non concorrenza nel lavoro subordinato

Sommario: 1. Il patto di non concorrenza: natura e ratio. 2. Caratteristiche del patto di non concorrenza secondo le prevalenti ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali. 3. Plausibili prospettive evolutive del patto di non concorrenza dopo la riforma del diritto del lavoro del 2015.

1. Il patto di non concorrenza: natura e ratio.

Il presente contributo mira ad approfondire uno degli elementi accessori che può caratterizzare il contratto di lavoro subordinato, il patto di non concorrenza.

Tale istituto, disciplinato dall’art. 2125 cod. civ., è applicabile anche ad altre tipologie di rapporti, ma si è deciso di circoscrivere il discorso solamente al rapporto di lavoro subordinato: ciò in considerazione della diffusione ben maggiore di cui tale tipologia contrattuale gode rispetto alle altre fattispecie cui il patto di non concorrenza è apponibile (tra cui spicca il rapporto di agenzia, senza tralasciare che è ben possibile, tenendo in considerazione quanto stabilito dall’art. 1322 cod. civ. disciplinante l’autonomia contrattuale delle parti, inserire un patto di non concorrenza anche nella stipulazione di un rapporto contrattuale avente per parte un lavoratore autonomo).

Innanzitutto si osserva come il patto di non concorrenza descritto dall’art. 2125 cod. civ. ha, a tutti gli effetti, natura di contratto, da intendersi come accessorio rispetto al normale contratto di lavoro[1]; il suo ambito di efficacia, come è noto, si dispiega successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro.

Appare opportuno specificare sin da subito che, come la giurisprudenza[2] ha osservato, la previsione contenuta nell’art. 2125 cod. civ. ha natura inderogabile, con tutte le conseguenze sostanziali e procedurali che ne discendono.

Declinando al patto di non concorrenza gli elementi essenziali prescritti dall’art. 1325 cod. civ. per il contratto in generale, si evince come, oltre al necessario accordo delle parti, l’oggetto del patto di non concorrenza – il quale, civilisticamente, si configura come un contratto sinallagmatico a titolo oneroso e a effetti obbligatori[3], e che pertanto avrà quale oggetto del contratto, secondo la dottrina maggioritaria, la prestazione – coincida da un lato con l’astensione all’attività concorrenziale del lavoratore, e, dall’altro, con la corresponsione del corrispettivo da parte del datore di lavoro[4]; la causa del contratto risiede nel sinallagma (rectius: nel nesso di interdipendenza[5]) costituito dalla corrispettività delle due prestazioni[6]; la forma del contratto, in virtù del combinato disposto tra il già citato art. 2125, secondo comma, cod. civ. e l’art. 1350, ultimo comma, cod. civ., è prevista ad substantiam.

La postergazione dell’efficacia di detto patto ad un momento successivo alla cessazione del rapporto di lavoro scaturisce dalla formulazione dell’art. 2105 cod. civ.[7]; la disposizione codicistica de qua, rubricata come “obbligo di fedeltà”, pone quali obblighi ulteriori posti in carico al lavoratore rispetto alla mera resa della prestazione lavorativa dedotta in contratto (cosiddette obbligazioni accessorie, speculari rispetto a quella, posta in carico all’imprenditore ancillarmente rispetto alla corresponsione della retribuzione, di adottare ex art. 2087 cod. civ. tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro), due differenti doveri, entrambi aventi natura omissiva: quello di astensione dalla commissione di comportamenti concorrenziali, e quello di astensione dalla divulgazione di informazioni sensibili attinenti all’organizzazione aziendale, idonee a causare pregiudizio nei confronti della stessa.
La giurisprudenza[8] ha altresì chiarito come i comportamenti che il lavoratore deve tenere in osservanza dell’art. 2105 cod. civ. in costanza di rapporto di lavoro ricoprano un ambito più vasto di quello circoscritto dal tenore letterale della norma in esame, rappresentando infatti una specificazione del generico dovere di buona fede che le parti contrattuali (e, segnatamente, le parti del contratto di lavoro subordinato) devono tenere, discendente dalla previsione codicistica contenuta negli artt. 1175 e 1375 e, analizzando in ordine crescente il rango delle fonti del nostro ordinamento, da quanto stabilito dall’art. 2 Cost.

Tale obbligo venne introdotto per la prima volta nell’ordinamento italiano attraverso l’emanazione del Regio Decreto Legge del 13 novembre 1924, n. 1825[9], il quale, tuttavia, prevedeva il dovere di fedeltà relativamente alla sola categoria degli impiegati (si osserva, peraltro, come detta fonte normativa contenesse unicamente la disciplina inerente alla predetta categoria, in quanto la stessa, ad avviso del governo fascista, da poco insediatosi al potere e ancora bisognoso di consenso, portava intrinsecamente con sé un minor tasso di conflittualità rispetto al ceto operaio).

Tali lavoratori erano obbligati ad adottare comportamenti che non incrinassero il rapporto di fiducia instaurato con il datore di lavoro: ai soggetti cui era indirizzata la disciplina contenuta nel R.D. sopra indicato, era fatto divieto di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’impresa, sia divulgare informazioni relative all’esercizio dell’impresa datrice di lavoro.

Quest’ultimo obbligo perdurava per tutta la durata del rapporto lavorativo e si estendeva anche al periodo successivo alla cessazione dello stesso.

Con l’introduzione dell’art. 2105 cod. civ., il dovere di fedeltà nelle due declinazioni sopra evidenziate, viene esteso a tutti i prestatori di lavoro subordinato (ivi compresi i dirigenti), a prescindere dalla categoria di appartenenza.

Infatti, il patto di non concorrenza può riguardare non solo i dipendenti che svolgono mansioni direttive o di alto livello, ma anche tutti coloro che, pur essendo impiegati in compiti non intellettuali, o anche di natura esecutiva, operino in settori in cui l’imprenditore, in ragione della specifica natura e delle peculiari caratteristiche dell’attività svolta, possa subire un concreto pregiudizio, in termini di penetrazione nel mercato e di capacità concorrenziale, dalla utilizzazione, sia nel corso di rapporto, che successivamente, da parte dei lavoratori medesimi della lunga esperienza e delle numerose conoscenze acquisite alle sue dipendenze.[10]

L’unica, o comunque la principale eccezione posta ex lege all’estensione erga omnes del patto di non concorrenza è costituita dall’art. 4, 6° comma, della l. 91/1981, contenente la disciplina dell’attività sportiva professionistica, che vieta la previsione di clausole di non concorrenza, o comunque limitative della libertà professionale dello sportivo per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro intercorso con la società professionistica precedentemente datrice di lavoro.

Tra i due divieti posti dall’art. 2105 cod. civ., il più rilevante è, ai fini della presente trattazione, quello che vieta di praticare attività concorrenziale con quella del datore di lavoro; tale divieto rappresenta una specificazione dell’obbligo del prestatore di lavoro subordinato di tenere una condotta leale e di tutelare gli interessi del datore di lavoro.

Le ipotesi più frequenti di violazione dell’art. 2105 cod. civ., almeno per quanto attiene al divieto di concorrenza, sono costituite dallo storno di dipendenti, ovvero dallo sviamento di clientela, attuati dal lavoratore in favore di un’impresa concorrente, o anche dall’ipotesi in cui il lavoratore, assunto con contratto a tempo parziale presso un’impresa, svolga, nel tempo rimanente, attività analoga presso un’altra impresa operante nel medesimo settore, anche in questo caso con contratto part time.[11]

Relativamente a quest’ultima casistica, la giurisprudenza ha specificato i confini di liceità, circoscrivendoli alle ipotesi in cui il lavoratore svolga un’attività contraddistinta da un marcato contenuto intellettuale, una rilevante autonomia esecutiva e una significativa discrezionalità operativa[12].

Per quanto riguarda, invece, la fattispecie dello storno di dipendenti, la giurisprudenza negli ultimi anni ha ritenuto di effettuare un temperamento del regime sanzionatorio posto in carico al lavoratore: e infatti, ai fini della violazione delle prescrizioni contenute nell’art. 2105 cod. civ., il Giudice dovrà tenere conto di ulteriori parametri, quali, ad esempio, la situazione finanziaria[13] dell’impresa, nonché il numero degli episodi[14] che, ad avviso dell’imprenditore ricorrente, configurano illecito da parte del lavoratore.

Tutti i sopra citati divieti non devono essere confusi con quelli stabiliti dall’art. 2598 cod. civ., atteso che quest’ultima norma non prevede, quale condizione necessaria, l’instaurazione di una relazione contrattuale tra il soggetto che compie gli atti vietati e quello subisce un danno per la loro commissione[15]; come la dottrina ha correttamente osservato[16], infatti, le due fattispecie devono essere tenute ben distinte, sebbene, come è noto, la prassi è sempre foriera di zone grigie e dunque la linea di confine tra le due fattispecie non sia sempre agevolmente tracciabile[17].

Si sottolinea comunque come, dal punto di vista sistematico, il rapporto tra le due norme è dibattuto, atteso che parte della dottrina ritiene che l’art. 2125 cod. civ. costituisca norma speciale, e dunque tra le due previsioni ricorrerebbe il rapporto species genus; gli orientamenti dottrinali più moderni, tuttavia, tendono a valorizzare l’autonomia dell’art. 2125, specificando come lo stesso debba essere interpretato esclusivamente alla luce dei principi giuslavoristici (e dunque, in linea di prima approssimazione, alla luce del principio del favor praestatoris).[18]

2. Caratteristiche del patto di non concorrenza secondo le prevalenti ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali.

Come evidenziato supra, il divieto di concorrenza opera durante l’esecuzione del rapporto di lavoro; all’estinzione di questo, infatti, viene meno il divieto posto ope legis in capo al prestatore di lavoro subordinato.

Pertanto, in caso di mancata stipulazione di siffatto contratto, il lavoratore, alla cessazione del vincolo lavorativo, potrà ben intraprendere, in proprio o quale lavoratore subordinato presso altra impresa appartenente a terzi, qualsiasi attività, anche avente natura concorrenziale con quella praticata dal precedente datore di lavoro, restando comunque salvo, come anticipato, il divieto sancito dall’art. 2105 cod. civ., inerente all’obbligo di non divulgare informazioni sensibili attinenti all’andamento aziendale, la cui sanzione è doppiamente presidiata anche dalle fattispecie regolate dagli artt. 622 e 623 c.p.

La cessazione del divieto di concorrenza può generare nel datore di lavoro l’esigenza di regolare – mediante gli strumenti messi a disposizione dall’autonomia contrattuale – il comportamento del lavoratore anche nel lasso di tempo successivo; a tal proposito, il Legislatore ha individuato nel patto di non concorrenza lo strumento idoneo a effettuare un contemperamento quanto più equo possibile tra due ordini di interessi contrapposti: da un lato quello del datore di lavoro che intende tutelarsi dal rischio di subire attività concorrenziale da parte dell’ex lavoratore, salvaguardando, nei confronti delle imprese terze, il proprio patrimonio immateriale sotto il profilo interno (organizzazione tecnica, amministrativa e produttiva; metodi e processi di lavoro) e sotto il profilo esterno (avviamento, clientela); dall’altro, quella del lavoratore, il quale accetta di limitare la propria professionalità dietro pagamento di un congruo corrispettivo, a non vedere eccessivamente compressa la propria libertà, costituzionalmente tutelata, al lavoro.[19]

L’art. 2125 cod. civ., unica norma codicistica disciplinante la fattispecie, delinea i requisiti ai quali deve attenersi il patto di non concorrenza ai fini della sua validità; essi riguardano: la forma, la previsione di un corrispettivo, la delimitazione delle attività vietate, i limiti spaziali e temporali.

Innanzitutto, alla luce del combinato disposto con la previsione contenuta nell’art. 1350 cod. civ., è previsto che il patto di non concorrenza debba rivestire la forma scritta ad substantiam, la cui assenza dà pertanto luogo alla nullità del patto stesso: tale previsione è coerente con l’orientamento generale proprio del settore giuslavoristico[20], per cui tutte le pattuizioni idonee a limitare l’agere del lavoratore subordinato, o che comunque costituiscono una deroga peggiorativa alla disciplina “comune” del rapporto di lavoro[21], quali, a titolo esemplificativo, l’apposizione di un patto di prova o di un termine finale, debbano necessariamente essere redatte per iscritto.
Si specifica, inoltre, che la forma ad substantiam deve riguardare non solo la generica convenzione di non concorrenza inter partes, ma anche tutti gli elementi previsti per la validità del patto; non è tuttavia necessaria la specifica approvazione scritta, in quanto il patto di non concorrenza non è equiparabile, in considerazione delle dinamiche negoziali che conducono alla sua stipulazione, alle condizioni generali di contratto contenute nell’art. 1341 cod. civ.

Prima di esaminare più specificamente le declinazioni che la dottrina e la giurisprudenza prevalenti hanno fornito di ciascuno dei requisiti di cui deve essere informato il patto di non concorrenza, appare opportuno riportare una massima espressa dal Tribunale di Milano[22] che invita l’interprete ad osservare la pattuizione nel suo complesso e non solo analiticamente in relazione ai singoli elementi che la compongono; e infatti, così si è espresso il Tribunale di merito: “Ai sensi dell’art. 2125 c.c., i limiti di oggetto, di tempo e di luogo ivi indicati debbono essere considerati, in relazione alla concreta professionalità dell’obbligato, nel loro complesso, ovvero nella loro reciproca influenza, con la conseguenza che il patto deve ritenersi nullo allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità acquisita dal lavoratore e ciò a maggior ragione qualora sia previsto a favore del lavoratore un corrispettivo irrisorio rispetto al sacrificio derivante dal patto”.

In caso di impugnazione del patto di non concorrenza, e sempre tenendo conto dei limiti formalmente prescritti dal Codice Civile, il Giudice dovrà verificare che l’intero contratto non sia idoneo a ledere la possibilità del prestatore di lavoro vincolato dallo stesso di potere trovare, nei limiti variamente circoscritti dalla pattuizione, un’altra occupazione o comunque una retribuzione sufficiente, avendo presente i disposti di cui agli artt. 1, 4 e 36 Cost.

Procedendo all’analisi dei singoli requisiti di validità del patto di non concorrenza, si osserva come  lo stesso, in considerazione della sua natura di contratto sinallagmatico a titolo oneroso, ai fini della sua validità (rectius: della validità della sua causa) deve necessariamente prevedere la corresponsione di una somma di denaro in favore del prestatore di lavoro.

Alle parti, in ossequio al principio generale di autonomia contrattuale, è lasciata libera scelta in merito alla determinazione delle modalità di corresponsione del corrispettivo.

Le ipotesi più frequenti di liquidazione del corrispettivo dovuto per il patto di non concorrenza possono avere luogo mensilmente, durante lo svolgimento del rapporto di lavoro[23]; alla cessazione del rapporto di lavoro in un’unica soluzione; successivamente alla cessazione in modalità rateizzata; o ancora, in una forma ibrida tra le precedenti.

Benché il presente contributo afferisca ad un ambito eminentemente civilistico, appare comunque opportuno dare conto del fatto che alle diverse modalità di pagamento corrispondono differenti trattamenti fiscali, suscettibili di ingenerare significative divergenze in termini di vantaggiosità per il lavoratore[24].

Giurisprudenza pressoché costante si è espressa sulla nullità del patto di non concorrenza non remunerato o a nummo uno[25]  , in coerenza con il discorso svolto in premessa.

Orientamenti giurisprudenziali ed elaborazioni dottrinali non unanimi ma prevalenti ritengono che, ai fini della validità del contratto (e della sua causa, costituita dal sinallagma tra retribuzione e rinuncia all’esercizio della propria professionalità), il corrispettivo debba attestarsi attorno al 15% – 25% della retribuzione annua lorda[26].

Infatti, la Corte di Cassazione, in merito alla natura non meramente simbolica dell’importo corrisposto al lavoratore si è così espressa[27]: “Salva sempre la possibilità per il prestatore di lavoro d’invocare, ove concretamente applicabili, le norme di cui agli artt. 1448 e 1467 c.c., l’espressa previsione di nullità di cui all’art. 2125 c.c., va riferita alla pattuizione di compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiestogli apporta al datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato”.

Alla luce delle riflessioni appena svolte e dei contributi sopra riportati, si osserva come un’applicazione rigida delle norme di diritto comune dei contratti comporterebbe quali unici limiti a carico delle parti, nella determinazione del corrispettivo, le norme di cui agli artt. 1448 cod. civ. (azione generale di rescissione) e 1467 cod. civ. (risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta), mentre nella prassi i cosiddetti formanti giurisprudenziale e dottrinale applicano quella che si potrebbe definire come una sorta di equità integrativa ex art. 1374 cod. civ., secondo cui sarebbe possibile contemperare i contrapposti interessi delle parti in base a criteri di logica giuridica integrativi dell’effettivo regolamento di interessi voluto dai contraenti.

Per quanto concerne, invece, la tipologia delle attività vietate dal patto di non concorrenza, l’art. 2125 cod. civ. non delinea limiti precisi[28], risultando necessaria un’analisi caso per caso a seconda della tipologia di attività svolta dall’impresa datrice di lavoro e, congiuntamente, dal lavoratore che ha stipulato il patto de quo.

E infatti, come ha osservato la dottrina[29], <<L’interpretazione in senso evolutivo della norma comporta che debba essere inteso in senso più ampio anche il margine di attività lavorativa che, in quanto non coperta dal vincolo, possa garantire al prestatore d’opera di appagare le “esigenze di vita sue e del suo nucleo familiare”. Invero non è sufficiente che sia garantita la possibilità di esercitare qualsivoglia attività lavorativa, che consenta di percepire un profitto sufficiente a soddisfare i primari e materiali bisogni della vita; si richiede invece che venga ricompreso, nelle primarie esigenze di vita da appagare, l’esercizio di una attività lavorativa che consenta al prestatore d’opera di esplicare in Italia la propria qualificazione professionale>>.

Ad ogni modo, la giurisprudenza è unanime nel ritenere che i limiti previsti dal patto non possano precludere qualsiasi attività lavorativa al prestatore di lavoro, per essere il diritto al lavoro stesso costituzionalmente tutelato, soprattutto alla luce degli artt. 4 e 35 Cost, avendo riguardo al caso concreto e alle possibilità di conseguire redditi futuri e differenti in capo al lavoratore.[30]

Per quanto riguarda la durata, il patto di non concorrenza non può eccedere i cinque anni per i dirigenti e i tre anni per gli altri lavoratori subordinati.

Nel caso in cui venisse pattuita una durata superiore a quella prevista dall’art. 2125 cod. civ. , essa verrà automaticamente ridimensionata sui limiti massimi previsti dalla legge, in virtù del disposto di cui all’art. 1419, 2° comma, cod. civ., secondo cui “La nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative”.

La richiamata norma, rubricata nel Codice Civile come “nullità parziale”, costituisce un’applicazione del principio di conservazione del contratto (“utile per inutile non vitiatur”), in base al quale il Legislatore cerca sempre, laddove sia possibile, di conservare e non di caducare gli effetti del contratto, poiché esso rappresenta il principale strumento di circolazione della ricchezza; pertanto, non è prevista la nullità del patto di non concorrenza (il quale, è bene ribadire, ha natura di contratto sinallagmatico a titolo oneroso) avente limiti che fuoriescono dalla cornice stabilita ex lege, bensì solo un suo ridimensionamento ipso iure.

Si segnala peraltro che, relativamente ai predetti limiti temporali, il silenzio delle parti in ordine alla durata del patto non ne determina la nullità, ma comporta la durata di esso nella misura massima stabilita dall’art. 2125.

La ratio della previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 2125 cod. civ., che stabilisce una durata superiore relativamente al patto di non concorrenza stipulato con un ex lavoratore subordinato avente la qualifica di dirigente, affonda nella maggior delicatezza delle mansioni affidate ai soggetti che ricoprono detta carica, i quali, secondo orientamenti giurisprudenziali e dottrinali ormai ampiamente consolidati, svolgono la funzione di alter ego dell’imprenditore[31], trattando pertanto informazioni più delicate e soprattutto intrattenendo rapporti diretti con la clientela, la qual cosa è suscettibile di creare danni di maggiore entità dopo la cessazione del rapporto di lavoro.

La previsione de qua si configura come una norma di protezione bilaterale: infatti, da un lato tutela l’ex datore di lavoro, che potrà beneficiare dell’astensione del dirigente dalla commissione di atti concorrenziali per un lasso di tempo superiore; dall’altro, si presenta quale norma protettiva anche in favore del dirigente, il cui corrispettivo – che, come si è precedentemente evidenziato, per non incorrere in una pronuncia di nullità del patto stesso, dovrà attestarsi attorno al 15% – 25% della retribuzione lorda annua – sarà percepito per tutta la maggior durata pattuita; considerato inoltre che, di norma, il corrispettivo viene proporzionato in ragione della retribuzione spettante al lavoratore, il dirigente percepirà una somma complessivamente molto più alta, atteso che tali soggetti osservano Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro differenti rispetto a quelli adottati per le altre categorie di lavoro, e il cui trattamento economico e normativo prevede dei minimali retributivi (per tacere di eventuali elementi previsti ad personam, frequentemente pattuiti nella prassi) significativamente più elevati.

Si segnala, peraltro, che la giurisprudenza di legittimità[32] ha evidenziato come “Il patto di prolungamento del preavviso, sorretto da un minimo incremento retributivo e non in rapporto di corrispettività con una preordinata progressione, è nullo per frode alla legge in quanto finalizzato a perseguire l’interesse tipico del patto di non concorrenza, eludendone tuttavia i limiti di specificazione dell’attività e di adeguatezza del corrispettivo.”

Le parti, nel caso in esame, avevano utilizzato una configurazione contrattuale di per sé lecita (allungamento del periodo massimo di preavviso stabilito dal Contratto Collettivo di riferimento), avevano in realtà inteso comportare i medesimi effetti del patto di non concorrenza, senza però adeguare il relativo corrispettivo ai parametri fissati dalla giurisprudenza al fine di non incorrere nella declaratoria di nullità.

Resta da analizzare l’ultimo limite stabilito dalla norma in esame, quello relativo alla circoscrizione territoriale dei limiti previsti dal patto: a tale proposito, si osserva come l’orientamento giurisprudenziale più recente prevede che l’attività lavorativa del prestatore di lavoro che ha stipulato il patto di non concorrenza possa esser limitata all’intero territorio nazionale, purché ciò non causi la compromissione della possibilità del lavoratore di conseguire un guadagno idoneo alla soddisfazione delle esigenze di vita.[33]

Infatti l’art. 2125 cod. civ. non specifica se i limiti debbano riguardare il territorio nazionale, ovvero anche quello comunitario ed extracomunitario; appare tuttavia attuale un ormai non più recente orientamento della giurisprudenza di merito[34], secondo cui “Nella odierna dimensione globalizzata dell’economia, un patto di non concorrenza può non limitarsi al territorio nazionale, ma investire la dimensione europea”.

Ad ogni modo resta ineludibile, come precedentemente sottolineato, una considerazione del patto complessivamente inteso, a prescindere dall’ampiezza dei singoli limiti che ne connotano il contenuto[35], in un’ottica di maggior protezione e tutela in favore del dipendente, che resta pur sempre la “parte debole” del rapporto contrattuale.

È alla luce del predetto approccio “complessivo” al patto oggetto dell’odierna analisi che si giustificano alcune sentenze contrastanti, che di volta in volta qualificano il patto di non concorrenza come nullo[36], in quanto eccessivamente limitativo delle possibilità di reimpiego del lavoratore, oppure come valido[37].

Per quanto riguarda l’eventualità di apporre pattuizioni aggiuntive al patto di non concorrenza, era prassi consolidata quella di farvi accedere un patto di opzione ex art. 1331 cod. civ., ovvero una clausola di recesso, con la finalità di attribuire al datore di lavoro la facoltà di decidere, entro un determinato periodo di tempo, se avvalersi o meno degli effetti del patto di cui all’art. 2125 cod. civ.

Inizialmente la giurisprudenza si era pronunciata in senso favorevole all’apposizione sia del patto di opzione[38], sia a quella della clausola di recesso unilaterale[39].

Successivamente, si è sviluppato un orientamento giurisprudenziale il quale, in tema di recesso unilaterale, ha ritenuta legittima detta facoltà solo nel caso in cui il datore di lavoro avesse esercitato il diritto di recesso dal patto di non concorrenza al momento della cessazione, e non successivamente[40].

Il richiamato orientamento giurisprudenziale è stato poi confermato anche dalla Corte di Cassazione[41], la quale, effettuando un revirement, ha ritenuto che “È impossibile attribuire al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di caducare l’attribuzione patrimoniale pattuita”.

Infatti, ad avviso della Suprema Corte, una clausola con siffatto contenuto “contrasta con il dispositivo previsto dall’art. 2125 c.c., secondo il quale la durata del patto deve essere delimitata ex ante e quindi non può essere soggetta ad una pattuizione che ne consenta il venire meno in ogni momento della sua durata”.[42]

Il richiamato orientamento nell’ultimo decennio si è affermato come maggioritario, in esito a una serie di sentenze di merito, poi definitivamente cristallizzate in una recente pronuncia della Corte di Cassazione[43], la quale ha sancito l’illiceità dell’apposizione del patto di opzione al contratto di cui all’art. 2125 cod. civ., in ragione del pregiudizio che l’apposizione stessa è suscettibile di generare in capo al lavoratore.

Nel caso in cui l’ex dipendente eserciti attività lavorative in violazione di quanto stabilito nel patto di non concorrenza, il datore di lavoro potrà alternativamente sciogliere il patto di non concorrenza per inadempimento, utilizzando il rimedio generale di cui all’art. 1453 cod. civ., ottenendo così la restituzione del corrispettivo già versato all’ex lavoratore, nonché il risarcimento dei danni subiti a causa dell’attività concorrenziale posta in essere dallo stesso; l’imprenditore opterà per questa scelta, verosimilmente, nelle situazioni in cui non abbia più un concreto interesse ad ottenere l’adempimento della prestazione oggetto del patto di non concorrenza.

Qualora invece l’imprenditore, anche a seguito dell’inerzia del lavoratore, conservasse un interesse a che la pattuizione venga osservata, farà ricorso alla procedura d’urgenza stabilita dall’art. 700. cod. proc. civ., teleologicamente indirizzata ad ottenere un’inibitoria espressa dal Giudice, che vieti al lavoratore di continuare a svolgere l’attività concorrenziale rispetto all’ex datore di lavoro.

Quest’ultima iniziativa non pregiudica, comunque, il diritto dell’ex datore di lavoro ad ottenere il risarcimento dei danni derivanti dalla violazione del patto di non concorrenza.

Le controversie inerenti al patto di non concorrenza rientrano, secondo le principali pronunce giurisprudenziali, nella competenza del giudice del lavoro, sia se vertenti in ordine alla validità del patto[44], anche se stipulato dopo la cessazione del rapporto lavorativo[45], e sia che attengano al risarcimento del danno per la sua violazione in epoca successiva alla cessazione del rapporto stesso. Resta inteso che “Il datore di lavoro può esercitare, nei limiti della prescrizione decennale, l’azione di ripetizione delle somme corrisposte al lavoratore, nel corso del rapporto di lavoro, in esecuzione di un patto di non concorrenza dichiarato nullo con sentenza passata in giudicato”[46].

3. Plausibili prospettive evolutive del patto di non concorrenza dopo la riforma del diritto del lavoro del 2015.

Come è noto, il 2015 è stato un anno particolarmente importante per quel che attiene alla disciplina giuridica del lavoro.

Infatti, nel corso della sopra richiamata annualità, si sono susseguiti svariati provvedimenti, aventi la natura di Decreti Legislativi – il cui insieme è noto come Jobs Act – e, in particolare: il D. Lgs. n. 23/2015(Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti); il D. Lgs. n. 80/ 2015 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro); il D. Lgs. n. 81/2015 (Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni); il D.Lgs. n. 148/2015 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro); e, da ultimo, il D. Lgs. n. 151/2015 (Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità).

Nessuno dei sopra menzionati Decreti ha inciso direttamente sull’istituto del patto di non concorrenza; è opportuno tuttavia domandarsi se, prendendo atto della variazione del contesto fattuale e della cornice normativa in cui tale istituto viene a collocarsi, esso stesso possa divenire suscettibile di diversa applicazione.

Il Decreto di maggiore interesse ai fini del presente contributo appare sicuramente il n. 23/2015, attraverso cui viene riformata ex nunc la disciplina relativa alla tutela dei lavoratori subordinati (segnatamente, operai, impiegati e quadri, rimanendo i dirigenti esclusi dal novero delle categorie interessate dal Decreto in esame ex art. 1 dello stesso) per ingiustificato licenziamento, completando così una stratificazione normativa avviatasi con la L. n. 604/1966 (in cui, come è noto, venne introdotto il concetto di “giustificato motivo”), proseguita con la storica promulgazione della L. n. 300/1970 (cosiddetto “Statuto dei Lavoratori”, che introdusse nell’ordinamento giuridico italiano la possibilità di reintegrare nell’impresa il lavoratore illegittimamente licenziato), successivamente ampliata dalla L. 108/1990, e, da ultimo, modificata con l’emanazione della L. 92/2012 (cosiddetta “Legge Fornero”, che attenuò la possibilità di reinserire nel contesto aziendale il lavoratore che ne fosse stato indebitamente estromesso); il D.Lgs. 23/2015 ha previsto un regime sanzionatorio per il datore di lavoro che effettui un licenziamento sprovvisto di un giustificato motivo basato sul sistema delle cosiddette “tutele crescenti”.

In ragione di detto meccanismo, le possibilità del lavoratore di essere reintegrato si riducono a ipotesi residuali tassativamente indicate dalla legge (a titolo esemplificativo e non esaustivo, le fattispecie di licenziamento nullo o discriminatorio, licenziamento per giusta causa manifestamente insussistente), e così la pietra angolare del nuovo sistema diviene non già la reintegrazione, bensì la tutela obbligatoria, il cui quantum viene predeterminato dalla legge in funzione dell’anzianità di servizio prestata, esautorando così il giudice da qualsiasi discrezionalità in ordine all’importo da corrispondere al lavoratore licenziato.

La ratio legis sottostante a tale riforma affonda nell’esigenza di conferire una maggiore flessibilità al mercato del lavoro, favorendo la possibilità per l’imprenditore di licenziare e, parallelamente, di assumere con maggiore libertà.

Al fine di tutelare i lavoratori subordinati che hanno perso un’occupazione, è stata prevista l’adozione un ammortizzatore sociale unico, denominato NASPI.

L’intersezione delle direttrici costituite dalla flessibilità nei licenziamenti e dalla contestuale adozione di ammortizzatori sociali è in linea con la politica, professata dall’Unione Europea, della cosiddetta flexicurity.[47]

È verosimile ipotizzare – e in parte detta ipotesi ha già trovato conforto nelle più recenti indagini statistiche – che la maggiore facilità di recedere, posta dalla legge in favore del datore di lavoro, comporterà un aumento dei licenziamenti.[48]

In questo mutato contesto si inserisce il discorso attinente al presente contributo: atteso che l’imprenditore potrà sciogliersi più facilmente dal vincolo contrattuale, è quantomeno probabile che, al fine di cautelarsi in merito a tutte le esigenze di cui si è precedentemente fatto menzione, potrebbe dovere fare ricorso con maggiore frequenza alla stipulazione del patto di non concorrenza.

D’altro canto, attraverso la stipulazione di tale patto, il lavoratore potrà beneficiare di un’integrazione pecuniaria – il corrispettivo dedotto in contratto – rispetto a quanto percepito a titolo di N.A.S.P.I. Non sembra trascurabile il rilievo secondo cui, in considerazione della maggior flessibilità di cui il mercato del lavoro godrà, i rapporti lavorativi avranno una durata tendenzialmente inferiore; pertanto, una plausibile linea evolutiva dello strumento de quo potrebbe consistere in una più frequente apposizione di patti di non concorrenza, e contestualmente di una loro minore durata, in quanto il numero di informazioni sensibili apprese e di contatti sviluppati in un arco temporale inferiore sarà necessariamente ridotto.

In conclusione di quanto esposto, si osserva che il patto di non concorrenza è un elemento accessorio apponibile ai contratti di lavoro; sua caratteristica è la rispondenza a esigenze sia dell’imprenditore, sia del prestatore.

Differentemente da quanto avviene relativamente ad altri istituti, formalmente posti nell’interesse21 di entrambe le parti del rapporto di lavoro, ma che concretamente si configurano a vantaggio esclusivo di una delle stesse (un’ipotesi su tutte è quella costituita dal patto di prova[49]), il patto di non concorrenza, secondo le regole stabilite dall’art. 2125 cod. civ., nonché dall’applicazione dottrinale e giurisprudenziale in ordine allo stesso, è idoneo a contemperare gli interessi contrapposti presenti nel sinallagma del rapporto di lavoro; a riprova della bontà della scrittura della norma de qua, si evidenzia come, sin dal momento della stesura – e tenendo conto che la disciplina giuslavoristica è tra quelle maggiormente soggette a cambiamenti – essa non abbia mai subito modifiche.


[1] Ai fini del presente contributo, e in linea con quanto affermato dalla ormai prevalente dottrina, verrà infatti abbracciata la cosiddetta “teoria contrattualistica” del rapporto di lavoro, secondo cui alla base del rapporto stesso vi è un contratto. Non tutti sono concordi in ordine a questa ricostruzione: alcuni contributi dottrinali, infatti, valorizzando l’assenza della parola “contratto” nel tenore letterale dell’art. 2094 cod. civ. e la collocazione della disciplina del rapporto di lavoro in una sezione del Codice Civile differente da quella generale che regola il contratto (artt. 1321 – 1469 cod. civ.), propendono per la cosiddetta “teoria acontrattualistica” del rapporto di lavoro, secondo cui il fondamento dello stesso risiederebbe nel mero inserimento del lavoratore nell’impresa – istituzione.

[2] Cass. Civ., 12.06.1981, n. 3837, in DeJure, secondo cui: “La norma dell’art. 2125 c.c., che disciplina il patto di non concorrenza del prestatore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione del contratto, ha natura inderogabile ed imperativa e pertanto il giudice, deve compiere di ufficio l’indagine circa la validità o meno del patto, anche in relazione ai limiti dell’oggetto in cui è contenuto”.

[3] Cass. Civ., 02.03.1988, n. 2221, in DeJure, secondo cui: “Il patto di non concorrenza, quale disciplinato dall’art. 2125 c.c. si configura come un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, in virtù del quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di danaro od altra utilità al lavoratore e questi si obbliga, per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, a non svolgere attività concorrenziale con quella del datore di lavoro. Pertanto le limitazioni alla concorrenza sono sottoposte al limite quinquennale soltanto quando siano stipulate come pattuizioni a sé stanti, autonome e distinte da un rapporto contrattuale corrente tra le parti, mentre il limite non si applica quando tra il patto ed il contratto sussiste un collegamento causale in modo che il primo adempie alla stessa funzione del secondo”.

[4] Si segnala peraltro come l’obbligazione posta in carico all’ex lavoratore, per il suo carattere chiaramente omissivo, sia suscettibile di adempimento immediato, e pertanto, ex art. 1222 cod. civ., non sarà sottoposta alle normali regole della mora del debitore. Si osserva peraltro, per quanto attiene alla natura del corrispettivo secondo un profilo giuslavoristico, che, come ha evidenziato Trib. Milano, 12.11.2008, in DeJure: “Il corrispettivo del patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c. da erogarsi nel corso del rapporto di lavoro costituisce un elemento distinto dalla retribuzione, e non un elemento interno a essa, e, pertanto, lo stesso deve espressamente risultare dai prospetti retributivi che costituiscono gli unici documenti idonei ad attribuire agli emolumenti corrisposti al lavoratore la loro corretta imputazione; in mancanza di tale indicazione non è consentito al datore di lavoro, ex art. 2722 c.c., provare per testi l’avvenuta corresponsione di tale corrispettivo (giacché tale prova verterebbe su circostanze contrarie al contenuto dei prospetti retributivi) dal che deriva poi la nullità del patto di non concorrenza per omessa prova del pagamento del corrispettivo”. La questione è incidentalmente trattata in P. Tarigo, Il Giudizio d’Inerenza dei Costi d’Impresa in Alcune Recenti Sentenze della Corte di Cassazione, in Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze, Fasc. 3/2016, p. 423 ss.

[5] Così definito dalla prevalente dottrina civilistica degli ultimi anni; ex multis, si veda P. Fava, Il Contratto, Roma 2012, p. 754, secondo cui: “I contratti corrispettivi o sinallagmatici sono quei contratti in cui le reciproche prestazioni contrattuali sono legate da un nesso di reciprocità o interdipendenza, , in modo che se una delle prestazioni non verrà attuata, la mancata attuazione avrà conseguenze per l’altra prestazione. In altri termini, ciascuna parte non è tenuta alla propria prestazione, se non sia dovuta, ed effettuata, la prestazione dell’altra, l’una prestazione è il presupposto indeclinabile dell’altra”.

[6] Relativamente alla causa del contratto si pone l’annosa questione del contratto cosiddetto a “nummo uno”: giacché la causa è prevista dalla legge quale elemento essenziale del contratto, la cui assenza è cagione di nullità dello stesso, e considerato che la causa del contratto ha fondamento nella corrispettività delle rispettive obbligazioni, nonché, secondo la dottrina più recente, nel loro adempimento, la presenza di un importo così basso da non potere nemmeno essere considerato “corrispettivo” va ad incidere sull’elemento causale, ingenerando la nullità del contratto. A ciò si aggiunga la recente tendenza dell’ordinamento, nazionale e sovranazionale, a considerare in un’ottica sempre più “oggettivistica” lo strumento contrattuale, sacrificando il primato dell’autonomia giuridica ed economica dei privati sull’altare di una maggiore equità; questo trend ha portato, se vogliamo un po’ prematuramente, una certa dottrina a parlare di “morte del contratto”. Per opportuno approfondimento sulla questione, del resto afferente al più generale campo civilistico rispetto all’ambito più strettamente giuslavoristico che connota il presente elaborato, si veda F. Camilletti, Profili del Problema dell’Equilibrio Contrattuale, Giuffrè, Milano 2004, pp. 20 ss.

[7] Il cui dettato testuale recita come segue: “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per contro proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”.

[8] Così Cass. Civ., 09.01.2015, n. 144, in DeJure: “L’obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello risultante dall’art.2105 cod. civ., integrandosi detta norma con gli artt. 1175 e 1375 cod. civ., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, sicché il lavoratore è tenuto ad astenersi da qualsiasi condotta che risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto.” Tale ricostruzione è stata riconfermata anche dalla più recente pronuncia della medesima Corte: Cass. Civ., 04.04.2017, n. 8711,  in DeJure, che così si esprime sul punto: “L’obbligo di fedeltà a carico del prestatore di lavoro, sancito dall’art. 2105 c.c. e da integrarsi con i generali doveri di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, determina per il lavoratore l’obbligo di astenersi da qualsiasi condotta che contrasti con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa, o che crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima, o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto”.

[9] Viene di seguito riportato il testo dell’art. 8 della fonte normativa indicata nel testo, disciplinante il divieto di concorrenza posto in capo ai lavoratori: “L’impiegato non può trattare per conto proprio o di terzi, affari in concorrenza col suo principale sotto comminatoria del licenziamento immediato e dei danni. E’ obbligo dell’impiegato di non abusare, a forma di concorrenza sleale, né durante, né dopo risolto il contratto di impiego, delle notizie attinte all’azienda del proprio principale. Il principale, alla sua volta non potrà con speciali convenzioni restringere l’ulteriore attività professionale del suo impiegato, dopo cessato il rapporto contrattuale al di là dei limiti segnati nel precedente comma.”

[10] Sulla non circoscrivibilità del patto di non concorrenza esclusivamente ai lavoratori con qualifiche elevate, si veda Trib. Mantova, 07.06.2003, in DeJure, che esprime la seguente massima di diritto: “Il patto di non concorrenza non può considerarsi limitato alle mansioni effettivamente svolte dal lavoratore né ai dipendenti di alto livello (dirigenti), ma deve essere esteso anche ad altre attività ed anche ai lavoratori con compiti meramente esecutivi qualora ciò possa comunque recare pregiudizio all’imprenditore, con il solo limite di non compromettere ogni potenzialità reddituale del lavoratore”.

[11] Sul punto, si veda Cass. Civ., 26.10.2001, n. 13329, in DeJure, secondo cui: “Lo svolgimento di attività lavorativa alle dipendenze di un’impresa in concorrenza con il datore di lavoro può configurare la violazione del divieto di cui all’art. 2105 c.c., sotto il profilo della “trattazione di affari per conto terzi in concorrenza con l’imprenditore”, solo ove tale concorrenza consista in atti rientranti in prestazioni di carattere intellettuale di notevole autonomia e discrezionalità, dato che proprio coloro che fanno parte del personale impiegatizio più altamente qualificato sono in grado – al di fuori dell’ipotesi di divulgazione di notizie riservate o di metodi di lavoro peculiari – di porre in essere quella concorrenza più intensa che il legislatore ha inteso reprimere.” Tale sentenza si allinea a una precedente pronuncia della medesima Corte (Cass. Civ., 01.12.1981, in DeJure): “Salvo che trattasi di prestazioni di natura intellettuale caratterizzate da notevole autonomia e discrezionalità, lo svolgimento di una attività lavorativa subordinata alle dipendenze di un’impresa in concorrenza con il datore di lavoro non integra, di per sè, violazione di quel divieto di concorrenza che l’art. 2105 c.c., prevede, insieme con il divieto di divulgazione e utilizzazione di notizie, come particolare estrinsecazione del dovere di fedeltà. (Nella specie, è stato escluso che la violazione del divieto di concorrenza, idonea a giustificare il licenziamento del lavoratore, derivasse automaticamente dal fatto che costui fosse, nello stesso periodo, occupato, in qualità di stampatore, alle dipendenze di due imprese esercenti entrambe lo sviluppo e la stampa di pellicole cinematografiche).

[12] M. Roccella, op. e loc. cit. infra

[13] In particolare, la sussistenza di stati finanziari patologici, quali, ad esempio, la messa in liquidazione, e, per analogia estensiva, l’assoggettamento a procedure concorsuali quali fallimento o concordato preventivo, configurano una sorta di “scriminante” a favore del lavoratore che pone in essere atti concorrenziali, in quanto l’interesse che l’ordinamento ha per la tutela della sua occupazione prevale su quello dell’impresa in smobilitazione. Sul punto si veda Trib. Milano, 21.06.2012, in DeJure : “Al fine della identificazione di uno storno di dipendenti occorre considerare che, ove l’impresa che pretende di averlo subìto sia in stato di liquidazione o si trovi comunque in situazione di difficoltà (evidenziata ad esempio da una procedura di mobilità della forza lavoro), il suo titolare deve prevedere una dinamica dei flussi della forza lavoro in uscita maggiori rispetto ad una situazione di normalità, essendo del tutto fisiologico che una parte dei dipendenti cerchi soluzioni alternative. Mentre i concorrenti, se da un lato non possono apprendere con modalità predatorie la forza lavoro dell’imprenditore in difficoltà, dall’altro non sono tenuti a condotte tali da farli considerare investiti da una sorta di obbligo di protezione nei riguardi dell’altrui impresa in difficoltà .”

[14] Sul punto si veda Trib. Milano, 21.06.2012, in DeJure, cit., che così argomenta: “Nel valutare la presenza o meno di uno storno di dipendenti si deve tenere conto anche della concentrazione temporale degli episodi di preteso storno e del numero dei competitori dell’impresa cui appartenevano i dipendenti usciti presso i quali questi ultimi avrebbero potuto trovare un impiego corrispondente alle loro funzioni ed alle loro specifiche competenze professionali.”

[15] Chiarificatrice sul punto la pronuncia di Trib. Torino, 20.05.2015, in DeJure, che così argomenta: “La fattispecie della concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c. è riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza tra loro e pertanto non è ravvisabile ove manchi il presupposto soggettivo del cosiddetto rapporto di concorrenzialità. La mancata previsione di un patto di non concorrenza per il periodo successivo alla cessazione del rapporto non impedisce all’ex agente di svolgere la sua attività di promozione di altri prodotti presso i precedenti clienti, trattandosi di attività libera e lecita”.

[16] M. roccella, Manuale di Diritto del Lavoro, Torino 2013, pp. 287-288: “Quanto ai diversi comandi negativi in cui risulta scomponibile l’obbligo di fedeltà, va menzionato in primo luogo l’obbligo di non concorrenza, ovvero il divieto di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore. Tale divieto non va confuso con quello di concorrenza sleale previsto dall’art. 2598 cod. civ., che non presuppone l’esistenza di alcuna relazione contrattuale fra chi compie e chi subisce gli atti vietati; si tratta, invero, di un divieto diverso e più ampio, la cui eventuale violazione è fonte di responsabilità contrattuale, volto a interdire la c.d. concorrenza differenziale, che è tale proprio perché non si potrebbe porre in essere se non da parte di chi, come il lavoratore, opera all’interno dell’organizzazione dell’impresa”.

[17] Si pensi all’ipotesi di seguito riportata, tratta dalla massima espressa da Cass. Civ., 30.05.2017, n. 13550, in DeJure: “In tema di concorrenza sleale, l’imprenditore che si avvalga della collaborazione di soggetti che hanno violato l’obbligo di fedeltà nei confronti del loro datore di lavoro non pone in essere, per ciò solo, atti contrari alla legittima concorrenza, essendo necessario, a tal fine, che il terzo si appropri, per il tramite del dipendente, di notizie riservate nella disponibilità esclusiva del predetto datore di lavoro, ovvero che il terzo istighi, o presti intenzionalmente un contributo causale, alla violazione dell’obbligo di fedeltà cui il dipendente stesso è tenuto, ma che non vincola il terzo e non ne limita la libertà sul piano economico, per la stessa ragione per cui il patto di esclusiva non vincola l’imprenditore concorrente – terzo rispetto ad esso – che operi nella zona di altrui pertinenza senza avvalersi di mezzi non conformi alla correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda”

[18] Per un’analisi sul punto, si veda V. Boscati, Patto di Non Concorrenza. Art. 2125, in Il Codice Civile. Commentario, a cura di P. Schlesinger, Giuffrè, Milano, 2010, pp. 95 ss.

[19] G. Pera, Diritto del Lavoro, Cedam, 2003, p. 461.

[20] Di fatto, si può affermare che l’impiego della forma scritta ad substantiam rappresenta una declinazione specifica del più generale principio del favor praestatoris.

[21] Del resto, che il contratto di lavoro a tempo pieno e a tempo indeterminato costituisca la “forma comune di rapporto di lavoro” è stato dapprima enunciato all’art. 1 della L. 92/2012 (cosiddetta Legge Fornero), e poi ribadito nel D. Lgs. n. 81/2015.

[22] Così Trib. Milano, 12.07.2007, in DeJure.

[23] Si dà conto, tuttavia, di orientamento della giurisprudenza di merito, secondo cui il patto di non concorrenza erogato in costanza di rapporto di lavoro sarebbe nullo, e nello specifico, Trib. Ascoli Piceno, 22.10.2010, in DeJure, che così argomenta: “È nullo, ai sensi dell’art. 2125 c.c., il patto di non concorrenza che prevede il pagamento del corrispettivo, non preventivamente determinato, in costanza di rapporto di lavoro, poiché la non prevedibilità della durata dello stesso rende aleatorio ed eventuale un elemento fondamentale del patto e, cioè, il prezzo dovuto al lavoratore per la sua parziale rinunzia al diritto al lavoro”. La sopra citata pronuncia richiama concettualmente Trib. Milano, 04.03.2009, in DeJure, che così argomentava: “Ai sensi dell’art. 2125 c.c., il patto di non concorrenza deve prevedere, a pena di nullità, un corrispettivo predeterminato nel suo ammontare congruo rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore; conseguentemente viola detta norma la previsione del pagamento di un corrispettivo durante il rapporto di lavoro, in quanto la stessa, da un lato, introduce una variabile legata alla durata del rapporto di lavoro che conferisce al patto un inammissibile elemento di aleatorietà e, dall’altro, finisce di fatto per attribuire a tale corrispettivo la funzione di premiare la fedeltà del lavoratore anziché di compensarlo per il sacrificio derivante dalla stipulazione del patto; in ogni caso la congruità del corrispettivo deve essere valutabile in astratto, a prescindere dalla durata del rapporto di lavoro”. Benché le richiamate sentenze siano giuridicamente apprezzabili per l’indagine in ordine alla causa del contratto, si deve comunque dare conto del fatto, empiricamente riscontrabile, che nella prassi il corrispettivo del patto di non concorrenza viene correntemente erogato, in modo tutt’altro che infrequente, mensilmente in busta paga.

[24] Infatti, se il corrispettivo del patto di non concorrenza viene erogato mensilmente in busta paga, quale elemento eccedente e differente rispetto alle voci da corrispondersi obbligatoriamente al lavoratore per essere previste negli accordi collettivi, esso concorrerà all’imponibile previdenziale e fiscale del lavoratore, venendo assoggettato alle ordinarie aliquote IRPEF, sottoposte, come è noto, al principio di progressività: ciò comporta un trattamento fiscale sfavorevole per il lavoratore. Viceversa, se la corresponsione avviene al momento della cessazione del rapporto di lavoro, il relativo importo verrà assoggettato alla medesima aliquota applicata al Trattamento di Fine Rapporto, il quale, come è noto, viene sottoposto a tassazione separata, con ciò conseguendo un trattamento fiscale più favorevole.

[25] Sul punto si veda Trib. Milano, 25.03.2011, in DeJure, secondo cui: “Con riguardo alla congruità del corrispettivo dovuto in caso di patto di non concorrenza, l’espressa previsione di nullità, contenuta nell’art. 2125 c.c., va riferita alla pattuizione non solo di compensi simbolici, ma anche a compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente sia dall’utilità che il comportamento richiestogli rappresenta per il datore di lavoro, sia dal suo ipotetico valore di mercato (nella fattispecie, è stato ritenuto valido il patto di non concorrenza che prevedeva la corresponsione in costanza di rapporto di un corrispettivo pari a circa 2,5% della retribuzione annua e, comunque, l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere a tale titolo al lavoratore una somma complessiva, tenuto conto di quanto già percepito nel corso del rapporto, non inferiore al 40% dell’ultima retribuzione fissa annua del lavoratore)”. Per quanto riguarda la nullità del patto di non concorrenza avente un corrispettivo a nummo uno, si veda la pronuncia del Tribunale di Teramo, sez. lav., 30.03.2011, n. 209, in DeJure, così massimata: “Ai sensi dell’art. 2125 comma 1 c.c., il patto di non concorrenza previsto per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, “è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo”. La nullità del patto è prevista dalla legge per tutte le ipotesi in cui la sua ampiezza sia tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale. Va dunque ritenuto nullo il patto di non concorrenza che precluda al lavoratore lo svolgimento di qualsiasi attività nel settore specifico, nell’intero ambito nazionale e per la durata di anni tre, a fronte di un corrispettivo ragguagliato ad una cifra irrisoria (nella specie, di €. 100,00 una tantum), trattandosi di compenso “ictu oculi” manifestamente iniquo e sproporzionato in rapporto all’esteso sacrificio richiesto al prestatore ed alla considerevole riduzione delle sue possibilità di guadagno”.

[26] C. Vivenzi, Guida al “Patto di Non Concorrenza” nel Lavoro Subordinato, reperibile al seguente riferimento sitografico: http://www.mysolutionpost.it/media/6434408/Il%20patto%20di%20non%20concorrenza.pdf

[27] Cass. Civ., 26.11.1994, n. 10062, in DeJure.

[28] G. Conte, Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, Fasc. II/1999, p. 72, secondo cui: “Precisato pertanto che la ratio della norma in esame è quella di tutelare il prestatore di lavoro, evitando che il patto possa precludergli totalmente di mettere a frutto il proprio bagaglio professionale, si può affermare che la giurisprudenza appare orientata a riconoscere che le mansioni vietate possano essere anche ulteriori rispetto a quelle svolte in costanza di rapporto, purché, in concreto, permanga un sufficiente margine per il lavoratore per esprimere la propria capacità produttiva di reddito, anche in considerazione della professionalità posseduta”.

[29] M. Bartesaghi, Sui Requisiti di Legittimità del Patto di non Concorrenza, in Riv. It. Dir. Lav., Fasc. II/1995, p. 582

[30] Cass. Civ., 26.11.1994., n. 10062, in DeJure, cit., secondo cui: “Il patto di non concorrenza, previsto dall’art. 2125 c.c., può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Esso, è, perciò, nullo allorché la sua ampiezza è tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenziale reddituale. Erra quindi il giudice di merito che senza procedere a tale accertamento – da farsi in relazione alla concreta personalità professionale dell’obbligato – abbia ritenuto nullo il patto stesso per il solo fatto di aver circoscritto l’obbligo di astensione del lavoratore alle attività esercitate presso il datore di lavoro”.

[31]Da ultimo, si segnala la recente pronuncia della Corte di Cassazione Civile, 04.08.2017, n. 19579, in DeJure, che esprime la seguente massima di diritto: “La qualifica di dirigente non spetta al solo prestatore di lavoro che, come “alter ego” dell’imprenditore, ricopra un ruolo di vertice nell’organizzazione o, comunque, occupi una posizione tale da poter influenzare l’andamento aziendale, essendo invece sufficiente che il dipendente, per l’indubbia qualificazione professionale, nonché per l’ampia responsabilità in tale ambito demandata, operi con un corrispondente grado di autonomia e responsabilità, dovendosi, a tal fine, far riferimento, in considerazione della complessità della struttura dell’azienda, alla molteplicità delle dinamiche interne nonché alle diversità delle forme di estrinsecazione della funzione dirigenziale (non sempre riassumibili a priori in termini compiuti) ed alla contrattazione collettiva di settore, idonea ad esprimere la volontà delle associazioni stipulanti in relazione alla specifica esperienza nell’ambito del singolo settore produttivo. (Nella specie, la S.C., in applicazione dell’enunciato principio, ha ritenuto corretto l’inquadramento quale dirigente di un dipendente del settore del credito – al quale era stato intimato un licenziamento ingiustificato – in virtù della qualificazione professionale, del livello di responsabilità nel settore di pertinenza e dello svolgimento dell’attività lavorativa in collegamento diretto con i vertici aziendali).

[32] Cass. Civ., 10.11.2015, n. 22933, in DeJure.

[33] In giurisprudenza, si veda Trib. Milano, 25.03.2011, cit;

[34] Trib. Milano, 03.05.2005, in DeJure.

[35] Trib. Milano, 11.06.2001, in DeJure,  secondo cui: “Il patto di non concorrenza previsto dall’art. 2125 c.c. è valido purché i vincoli di oggetto e di luogo lascino in concreto al lavoratore la possibilità di svolgere un’attività lavorativa coerente con la professionalità acquisita e sia stato previsto il pagamento di un corrispettivo congruo rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore medesimo (nella fattispecie, in considerazione della professionalità del lavoratore capace di dispiegarsi in aziende del terziario operanti in settori diversi da quelli del lavoro temporaneo, è stato ritenuto valido il patto di non concorrenza esteso all’intero territorio italiano a fronte del pagamento di un compenso mensile equivalente alla media dello stipendio mensile netto percepito dal lavoratore nei due anni precedenti la risoluzione del rapporto di lavoro)”.

[36] Cass. Civ., 04.02.1987, n. 1098, in DeJure: “Ai sensi dell’art. 2125, comma 1, c.c. – il quale prevede, fra le altre cause di nullità del patto di non concorrenza, il suo mancato contenimento entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo – deve considerarsi nullo un patto che (sia pure solo per un biennio) vieti al lavoratore lo svolgimento su tutto il territorio nazionale di ogni tipo di attività, sia in proprio che per conto terzi, attinente a determinate macchine, comportando una drastica ed inaccettabile limitazione della libertà della capacità lavorativa e professionale, così esercitabile soltanto all’estero (Nella specie, l’impugnata sentenza – confermata dalla Suprema Corte – aveva interpretato il patto di non concorrenza, stipulato tra le parti, alla stregua del principio di conservazione nel senso che esso, nell’equo contemperamento degli interessi vietava al lavoratore lo svolgimento, in quel determinato settore, soltanto di attività autonoma e non anche di attività di lavoro subordinato).”

[37] Trib. Milano, 16.12.1994, in DeJure: “È giustificata e non viola il limite di estensione territoriale di cui all’art. 2125 c.c., l’estensione a tutta l’Italia del patto di non concorrenza avente per oggetto il divieto di produrre e commerciare un articolo tanto specifico e particolare da non impedire o comunque limitare in maniera eccessiva l’attività economica e lavorativa del soggetto obbligato”.

[38] Cass. Civ., 24.03.1980, n. 1968, in DeJure, che esprime le seguenti, ormai superate, massime di diritto: “È lecito un patto di non concorrenza stipulato in termini di opzione con conseguente facoltà del datore di lavoro di scioglierla, invocando il patto, dopo le dimissioni del lavoratore dal rapporto d’impiego.”; “Poiché l’art. 2125 c.c. prevede la liceità – nel rispetto di talune condizioni inderogabili – del patto di non concorrenza concordato fra datore e prestatore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione del rapporto, la convenzione di opzione che a detto patto inerisca non può determinare alcuna frode alla legge.

[39] Cass. Civ., 10.04.1978, n. 1686, in DeJure, che dà tale interpretazione, particolarmente favorevole al datore di lavoro, ormai smentita da successive pronunce che verranno riportate infra: “È valida la clausola di un patto di non concorrenza apposto a contratto di lavoro, che prevede la facoltà del datore di lavoro di recedere dal patto unilateralmente in qualsiasi momento, dopo la cessazione del rapporto di lavoro.

[40] Trib. Milano, 15.12.2001, in DeJure.

[41] Cass. Civ., 13.06.2003, n. 9491, in DeJure.

[42] Cass. Civ., 16.08.2004, n. 15952, in DeJure.

[43] Cass. Civ., 04.04.2017, n. 8715, in DeJure, che così si esprime: “E’ illegittima la clausola di opzione, accedente al patto di non concorrenza, che il lavoratore attribuisce al datore di lavoro a fronte di un corrispettivo per la formazione professionale ricevuta, in quanto tale formazione costituisce già la causa del contratto di lavoro subordinato, sicché quella clausola determina un’illecita sperequazione della posizione delle parti nell’ambito dell’assetto negoziale e la violazione della natura contrattuale dell’opzione”.

[44] Così Pret. Lecco, 10.06.1992, in DeJure, secondo cui: “Rientra nella competenza funzionale del giudice del lavoro la controversia in materia di azione di ripetizione delle somme indebitamente percepite dal lavoratore, nel corso del rapporto di lavoro, in esecuzione del patto di non concorrenza dichiarato nullo con sentenza passata in giudicato”. Conformemente anche, con opportuna indagine sulla ratio legis, Cass. Civ. 12.06.1981, n. 3837, che afferma: “La domanda di risarcimento dei danni derivanti dalla attività di concorrenza sleale posta in essere dal dipendente è fondata sul preteso inadempimento dell’obbligo di fedeltà che incombe sul prestatore d’opera durante lo svolgimento e in dipendenza del rapporto di lavoro subordinato, e dà luogo, pertanto, ad una controversia che rientra nella competenza del giudice del lavoro”.

[45] Cass. Civ., 17.11.1980, n. 6139, in DeJure, che così sancisce: “Il patto di non concorrenza per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, secondo la previsione dell’art. 2125 c.c., ancorché venga a perfezionarsi dopo tale cessazione, ma pur sempre in collegamento funzionale con la regolamentazione degli interessi da essa derivanti, si pone su un piano di dipendenza diretta dal medesimo rapporto di lavoro. Ne consegue che la controversia inerente a tale patto rientra fra quelle contemplate dall’art. 409 (nuovo testo) c.p.c., e resta devoluta alla competenza funzionale del pretore in qualità di giudice del lavoro, non suscettibile di deroga in forza di clausola compromissoria”.

[46] Pret. Lecco, 10.06.1992, cit.

[47] Secondo A. Panzeri – F. Di Nardo, Nuovi Lavori, Flexicurity e Rappresentanza Politica, 2008, p. 98, essa è “Una strategia politica che mira a rendere il mercato del lavoro flessibile, ma assicurando al contempo una forte protezione sociale”

[48] http://www.repubblica.it/economia/2017/01/11/news/jobs_act_referendum_consulta-155758469/

[49] Infatti, detto istituto, secondo il disposto di cui all’art. 2096 cod. civ., astrattamente funzionale a soccorrere all’interesse del datore di lavoro a verificare l’idoneità del neo assunto prestatore, e, viceversa, a consentire al prestatore di verificare la serietà dell’organizzazione aziendale in cui viene inserito; e che, tuttavia, si configura, de facto, come la strada più immediata per il datore di lavoro di procedere ad un licenziamento senza sottostare alla normativa sulla giustificazione dello stesso.


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Luigi Antonio Beccaria è nato a Melzo nel 1990. Laureato in Scienze Politiche e Giurisprudenza, è avvocato e consulente del lavoro. La sua principale area di attività è quella giuslavoristica, che esercita presso lo Studio Elit S.a.s. di Melzo, ove esercita l'attività di consulente del lavoro (iscritto all'albo di Milano al n. 2659) e presso lo Studio Legale Camilletti a Milano, ove ha svolto la pratica forense. Collabora da anni con la cattedra di Diritto Privato e con la cattedra di Diritto del Lavoro rispettivamente nelle facoltà di Scienze Politiche e di Economia e Giurisprudenza presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

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