Ammortamento alla francese: nullità, imputazione dei pagamenti, il ruolo del C.T.U.

Ammortamento alla francese: nullità, imputazione dei pagamenti, il ruolo del C.T.U.

Sommario: 1. L’incompatibilità del metodo c.d. ammortamento alla francese con l’ordinamento giuridico – 2. L’imputazione dei pagamenti: artt. 1193 e 1195 c.c. – 3. La C.T.U.: ammissibilità

 

1. L’incompatibilità del metodo c.d. ammortamento alla francese con l’ordinamento giuridico

L’inclusione degli interessi di capitale tra i frutti civili rappresenta il risultato di un processo storico che ha voluto categorizzare tutti i redditi di sostituzione, equiparando la funzione del denaro, bene fungibile, a tutti gli altri beni produttivi concessi in godimento[1].

Per reddito di sostituzione, si intende dunque, il provento derivato al posto del beneficio che il godimento diretto della cosa avrebbe apportato al proprietario, nozione che aveva consentito alla romanistica prima e la pandettistica poi di consolidare la derivazione della categoria dei frutti civili da quella più unitaria e generale dei frutti naturali

La funzione primaria degli interessi è: nelle obbligazioni pecuniarie, quella corrispettiva, quali frutti civili della somma dovuta, e nei contratti di scambio, caratterizzati dalla contemporaneità delle reciproche prestazioni, quella compensativa del mancato godimento dei frutti della cosa, consegnata all’altra parte prima di riceverne la controprestazione

Gli interessi corrispettivi così come quelli compensativi, decorrono, in base al principio della naturale fecondità del denaro, indipendentemente dalla colpa del debitore nel mancato o ritardato pagamento, salva l’ipotesi della mora del creditore[2].

Tale ultimo principio trova la sua fonte nell’art. 1282 c.c. per cui decorrono di pieno diritto gli interessi su tutti i debiti pecuniari liquidi ed esigibili.

La giurisprudenza ha precisato che l’art. 1282 sancisce il principio dell’automatica decorrenza degli interessi su tutte le somme di denaro liquide ed esigibili, con le sole eccezioni previste dalla legge[3].

Deve intendersi liquido il credito quando il suo ammontare è certo, o comunque accertabile con un semplice calcolo aritmetico[4]; la liquidazione del debito può essere affidata allo stesso creditore o ad un terzo e qualora non sia previsto diversamente è il debitore che deve provvedere alla liquidazione del proprio debito[5].

La mancanza del requisito della liquidità impedisce il decorso degli interessi di pieno diritto, tuttavia non esime il debitore da responsabilità nel caso in cui ritardi ingiustificatamente il pagamento, dunque in tal caso decorreranno gli interessi moratori[6].

Il credito è infine esigibile qualora non sia soggetto a condizione sospensiva né a termine in favore del debitore, ovvero quando la prestazione può essere attualmente richiesta[7]: detto requisito dell’esigibilità presuppone l’infruttuosa scadenza dell’obbligazione[8].

La decorrenza degli interessi di pieno diritto, trattandosi di norma derogabile, può essere esclusa dalla volontà delle parti, con un patto che non richiede la forma scritta[9].

È un esempio la clausola che determina l’ammontare degli interessi in misura pari alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza, ritenuta dalla giurisprudenza nulla in quanto non sufficientemente univoca e non in grado di giustificare la pretesa al pagamento di interessi in misura superiore a quella legale[10].

Per le obbligazioni pecuniarie quindi, la funzione primaria degli interessi, è quella corrispettiva, ovvero frutti civili della somma dovuta.

Sotto il profilo strutturale e statico la dottrina dunque, ha inteso l’obbligazione di interessi caratterizzata da: accessorietà rispetto ad una obbligazione principale; eguaglianza generica dell’oggetto (obbligazione principale e accessoria); periodicità, intesa, in coerenza con l’art. 821 c.c. come acquisto e non inteso come scadenza, quest’ultima oggetto di convenzione tra le parti; proporzionalità, ovvero rapporto percentuale con l’obbligazione principale rapportato al fattore tempo.

 Attenta dottrina ha affermato che il credito non rappresenta l’utilità finale derivante dalla cosa, ossia il suo prodotto economico, ma lo strumento attraverso cui l’utilità-corrispettivo indirettamente si consegue, giorno per giorno ed in proporzione alla durata del godimento[11].

È stato parimenti obiettato come ritenere così caratterizzante la discendenza da un diritto di credito ponga in ombra la derivazione economica del frutto civile dalla cosa madre, rendendo ora complesso discernere i frutti da proventi occasionali come le indennità o gli interessi compensativi, ora giustificare il senso della disciplina dell’acquisto introdotta dall’art. 821 c.c.: secondo Barcellona[12]: anzitutto si può osservare che facendo leva principalmente sul fatto che i frutti civili si conseguono normalmente per il tramite di un diritto di credito, si finisce col sottovalutare il rapporto di derivazione economica dalla cosa-madre, con la duplice conseguenza di rendere incerta la distinzione tra i frutti e gli altri proventi occasionali (interessi compensativi, clausola penale, indennità, ecc.) e di non poter dar conto dei criteri di ripartizione dei frutti civili adottati dal codice (art. 821 c.c.). non si spiega, ad esempio, perché la spettanza dei frutti civili è proporzionale alla durata del rapporto con la cosa-madre e perché l’acquisto avviene giorno per giorno”.

Sempre lo stesso autore, ha ritenuto opportuno specificare il criterio con ulteriori notazioni, tali da mettere in evidenza il fatto che per quanto i frutti civili rappresentino una ragione di credito, tale qualifica non sia immediata conseguenza della struttura del rapporto da cui essi originano, né ogni prestazione corrispettiva alla concessione del godimento di un bene produttivo possa definirsi frutto: prova ne è il fatto che il diritto di credito avente ad oggetto il corrispettivo è attribuito alla parte contestualmente alla conclusione del contratto, mentre il modo di acquisto dei frutti civili delineato dall’art. 821 c.c. subordina la qualifica al requisito della loro maturazione e proporzionalità rispetto alla durata del godimento del bene, includendo così nella categoria solo il corrispettivo per crediti già maturati durante il rapporto con la cosa madre[13].

Il principio appena richiamato è la ragione per cui viene negato che i crediti riscossi anticipatamente ed in via non correlata al periodo di effettivo godimento possano considerarsi frutti, salvo per la parte già effettivamente maturata: non è al modo di acquisto che deve guardarsi per definire i contorni della categoria, ma al requisito della proporzionalità del risultato utile al periodo del godimento del diritto o della cosa, poiché la corresponsione dei frutti trova il suo fondamento non nella conclusione del contratto ma nell’effettività del godimento da parte del debitore.

Conseguenza di tale impostazione è la scissione concettuale tra titolarità del diritto di credito e diritto alla percezione dei frutti civili, ove il primo obbedisce alla disciplina delle obbligazioni, mentre il secondo segue le regole proprie e dispositive della materia dei frutti.

A questo punto, appare evidente che l’ammortamento alla francese, anche senza affrontare la questione inerente il regime finanziario, appare incompatibile con il nostro ordinamento: infatti gli interessi non maturano proporzionalmente nel senso anzidetto ma esponenzialmente con il pagamento degli interessi completamente sbilanciato nella parte inziale del piano (in quanto inizia con quote capitali crescenti ed interessi decrescenti: insomma nell’a.f., interessi e capitale non sono legati dal principio di proporzionalità[14]).

Il modo di acquisto dei frutti civili delineato dall’art. 821 c.c. subordina la qualifica al requisito della loro maturazione e proporzionalità rispetto alla durata del godimento del bene, includendo così nella categoria solo il corrispettivo per crediti già maturati durante il rapporto con la cosa madre[15]; nell’ammortamento alla francese, invece, l’acquisto dei frutti, ovvero gli interessi, essendo esponenziale, sono distribuiti nel piano in modo decrescente rispetto al rimborso di quote di capitale  (crescente) così che i frutti vengono acquisiti prima della maturazione, ovvero in senso non proporzionale rispetto alla durata del godimento del bene (capitale): spieghiamo meglio.

L’autonomia contrattuale privata non è libera nel gestire gli interessi, esistono delle norme che ne circoscrivono l’operatività: le norme che qui vengono in gioco sono principalmente l’art. 821, che stabilisce il principio di proporzionalità de gli interessi che maturano giorno per giorno (indipendentemente dalla volontà delle parti); l’art. 1282 c.c. che stabilisce che il crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto (indipendentemente dalla volontà delle parti); l’art. 1283 c.c. che vieta l’applicazione di interessi su interessi scaduti salvo i casi della convenzione posteriore alla scadenza degli stessi e della domanda giudiziale, a condizione, in entrambi i casi che siano dovuti da almeno 6 mesi; l’art. 120  c. 2 TUB che demanda al CICR i criteri di produzione degli interessi (e non più di interessi su interessi come nella precedente formulazione), e l’art. 1284 c.c. che, per le vie brevi, stabilisce che il saggio di interesse si rapporta all’anno. Tutti questi articoli vincolano l’autonomia contrattuale circoscrivendo l’operatività degli interessi.

Ciò che determina la corretta applicazione degli interessi non dipende quindi dal modo di acquisto, ma dal requisito della “proporzionalità del risultato utile al periodo del godimento del diritto o della cosa”, per cui i frutti si acquistano giorno per giorno poiché la corresponsione dei frutti trova il suo fondamento non nella conclusione del contratto ma nell’effettività del godimento da parte del debitore; di conseguenza, dato che nell’a.f. gli interessi crescono esponenzialmente (pe effetto del regime composto al quale gli interessi sono sottoposti) la conseguenza è che, sotto il profilo giuridico i frutti vengono acquisiti prima della maturazione.

Quest’ultimo passaggio non trova corrispondenza sul piano matematico, e può risultare difficile da comprendere, proprio perché ciò che consente la legge non trova applicazione nella dinamica dell’ammortamento alla francese, ed ecco allora che si finisce per non riconoscere gli interessi legittimi da quelli illegittimi finendo per classificare questi ultimi come costi occulti: di conseguenza, dato che nell’a. f. gli interessi crescono esponenzialmente (pe effetto del regime composto al quale gli interessi sono sottoposti) la conseguenza è che, sotto il profilo giuridico i frutti vengono acquisiti prima della maturazione.

Appare dunque opportuno distinguere, nella dinamica degli interessi due momenti, maturazione e scadenza, determinano dunque una conseguente distinzione necessaria ancor prima che normativa, tra capitalizzazione[16] (interessi su interessi in quanto caratterizzati dalla periodicità intesa, in coerenza con l’art. 821 c.c. come acquisto e non inteso come scadenza) e anatocismo (interessi su interessi che invece presuppone la scadenza): ritenere i due termini sinonimi vorrebbe dire o che non si attribuisce alcun valore al termine scadenza o ancora peggio, che nella realtà empirica si ritiene impossibile calcolare interessi su interessi[17].

Sulla base delle considerazioni anzidette si può giungere ad una conclusione: mentre la capitalizzazione può generarsi nel corso della maturazione degli interessi, l’anatocismo necessita la scadenza degli stessi[18].

Prendendo a fondamento le considerazioni appena sostenute, l’ammortamento alla francese, ovvero la formula matematica a monte genere interessi più velocemente di quanto consente la legge e ciò perché mentre la formula di matematica finanziaria opera sulla base del regime esponenziale, il codice civile contempla esclusivamente il regime proporzionale.

2. L’imputazione dei pagamenti: artt. 1193 e 1195 c.c.

La ricostruzione appena fatta conduce, in concreto, alla necessità di dover rideterminare le imputazioni dei pagamenti effettuati dal debitore che non potranno più essere soggetti al regime dell’art. 1194 ma a quello dell’art. 1195 (e 1193 c.c.)

In base all’art. 1193, se il debitore non esercita il diritto di imputazione, ex art. 1193, tale diritto può essere esercitato dal creditore.

In particolare, il creditore può dichiarare nella quietanza a quale debito va imputato il pagamento ed il debitore che accetta la quietanza non può poi pretendere un’imputazione diversa, salvo che vi sia stato dolo o sorpresa da parte del creditore[19].

In tema di imputazione di pagamento, quando il debitore non si avvalga della facoltà di dichiarare quale debito intenda soddisfare, la scelta, come desumibile dall’art. 1195 cod. civ., spetta al creditore, il quale, nello stesso documento di quietanza, può dichiarare di imputare il pagamento ad uno o più debiti determinati, subentrando i criteri legali di cui all’art. 1193 cod. civ., che hanno carattere suppletivo, soltanto quando né il debitore né il creditore abbiano effettuato l’imputazione (Cass. civile, sez. VI – 2, ord. 05-02-2013, n. 2672).

Il problema che si pone, dunque, qualora in sede giudiziale venga dichiarata la nullità della clausola di determinazione degli interessi, per violazione del combinato disposto degli artt.  821, 1282, c.c., 120. TUB, e art. 6 delibera CICR 9 febbraio 2000, o per la violazione del combinato disposto degli artt.  821, 1339 c.c. è la diversa imputazione dei pagamenti che dovrà applicarsi.

In effetti discute se l’imputazione del creditore abbia o meno natura negoziale.

In senso negativo si è espressa parte della dottrina[20].

Secondo altro orientamento[21], invece, si tratta di un negozio unilaterale essendo il creditore a procedere all’imputazione mediante la relativa dichiarazione nella quietanza (Cass. 28.3.2003 n. 4688; Cass. 29.10.2002 n. 15245).

La Cass. civile, sez. III, 16-01-2013, n. 917 (sent.) ha chiarito: In tema di imputazione del pagamento, quando il debitore non si avvalga della facoltà di dichiarare quale debito intenda soddisfare, la scelta, come desumibile dall’art. 1195 cod. civ., spetta al creditore, il quale, nello stesso documento di quietanza, può dichiarare di imputare il pagamento ad uno o più debiti determinati, subentrando i criteri legali di cui all’art. 1193 cod. civ., che hanno carattere suppletivo, solo quando né il debitore, né il creditore abbiano effettuato l’imputazione. La dichiarazione di imputazione del creditore deve però essere accettata dal debitore e, qualora sia inserita nello stesso documento contenente la quietanza, la ricezione del documento da parte del debitore si riferisce solo alla quietanza in esso contenuta e soddisfa il suo interesse a conservare la prova documentale dell’avvenuto pagamento, ma non presuppone un accordo sull’imputazione; perché la ricezione del documento assuma valore di prova dell’accettazione dell’imputazione operata dal creditore è necessario, difatti, che da parte del debitore essa non venga immediatamente o prontamente contestata, atteso che la mancata tempestiva contestazione assume il valore dell’acquiescenza[22].

In mancanza, si ritiene[23] che il creditore possa esercitare il suo diritto di imputazione con dichiarazione autonoma sempreché quest’ultima sia prontamente inviata al debitore.

In particolare, la giurisprudenza ha specificato che la dichiarazione di aver ricevuto una somma determinata a titolo di pagamento, fatta dal creditore al proprio debitore, ha natura di quietanza indipendentemente dalla sua contestualità con il pagamento in essa menzionato, dato che il debitore che non ne abbia fatto richiesta all’atto del pagamento non perde per questo il diritto al rilascio della quietanza.

Ne consegue che la dichiarazione del creditore d’esser già stato pagato in precedenza per una parte, rilasciata al momento di ricevere il pagamento del residuo, va qualificata come quietanza relativamente anche al pagamento pregresso, onde la sua data può essere provata con ogni mezzo a norma dell’art. 2704 ultimo comma cod. civ., anche al fine di dimostrare l’intervenuta estinzione del credito pignorato per gli effetti di cui all’art. 2917 cod. civ. (Cass. civile, sez. 3, 05-02-1997, n. 1108 (sent.)).

Nella coesistenza di più debiti della medesima specie dello stesso debitore verso uno stesso creditore, qualora il primo non dichiari, quando paga, quale debito intende soddisfare (art. 1193, primo comma, cod. civ.) né il secondo, all’atto della quietanza, provveda ad imputare il pagamento ad uno di essi (art. 1195 cod. civ.), valgono i criteri suppletivi di cui all’art. 1193, secondo comma, cod. civ., con la conseguenza che, ove il debitore, convenuto in giudizio, eccepisca che un pagamento da lui effettuato è da imputare all’uno piuttosto che all’altro debito, ha l’onere di fornire la prova in ordine a tale suo assunto, valendo in difetto le regole suppletive stabilite dal legislatore (Cass. civile, sez. 3, 29-10-1982, n. 5707 (sent.)).

In giurisprudenza (Cass. 24.5.1955 n. 1539) si è altresì affermato che la dichiarazione di imputazione fatta dal creditore nella quietanza ha valore di prova legale vincolante sia per il debitore sia per il creditore che si risolve nell’impossibilità di provare un’imputazione diversa.

Tornando quindi al quesito posto, ovvero quale imputazione operare in caso di dichiarazione di nullità della clausola contrattuale che determina il calcolo degli interessi, tenuto conto che le obbligazioni pendenti sono sia quella per capitale che per interessi e che in sede giudiziale (né pregiudiziale) accade mai che il creditore faccia dichiarazione di imputazione, l’unica soluzione non potrà che essere quella offerta dall’art. 1195 c.c., ovvero: Chi, avendo più debiti, accetta una quietanza nella quale il creditore ha dichiarato di imputare il pagamento a uno di essi, non può pretendere un’imputazione diversa (1193), se non vi è stato dolo (1439) o sorpresa da parte del creditore.

Sul punto attenta  dottrina[24] può essere di aiuto, infatti ha osservato che l’imputazione del creditore si pone su un piano diverso rispetto a quella che proviene dal debitore: anzitutto in quanto l’imputazione a parte creditoris presuppone la mancanza di quella a parte debitoris; in secondo luogo, e soprattutto, in considerazione del fatto che il debitore, a differenza del creditore, può rifiutare l’imputazione di controparte, respingendo la quietanza: in tal caso, però, egli ha l’onere di contestare prontamente al creditore la sua imputazione se vuole paralizzarne l’efficacia.

Viceversa, il comportamento del debitore assumerebbe il significato di acquiescenza all’imputazione fatta dal creditore[25].

Sulla base di tale convincimento, parte autorevole della dottrina[26]  attribuisce all’imputazione fatta dal creditore natura convenzionale e ritiene trattarsi di un negozio bilaterale, in quanto la quietanza deve essere accettata dal debitore, con la conseguenza che tale accettazione integrerebbe l’accordo tra debitore e creditore in ordine all’imputazione.

Diversamente, invece, si è espressa altra parte della dottrina[27], per la quale l’accettazione del debitore ha ad oggetto solo la quietanza, intesa quale documento, e non presuppone un accordo sull’imputazione, in quanto quando vi è un accordo sull’imputazione, le norme legali sull’imputazione non si applicano.

Sul punto si è espressa di recente la S.C., la quale in particolare ha affermato che, in tema di imputazione del pagamento, quando il debitore non si avvalga della facoltà di dichiarare quale debito intenda soddisfare, la scelta, come desumibile dall’ art. 1195 , spetta al creditore, il quale, nello stesso documento di quietanza, può dichiarare di imputare il pagamento ad uno o più debiti determinati (capitale o interessi), subentrando i criteri legali di cui all’ art. 1193, che hanno carattere suppletivo, solo quando né il debitore né il creditore abbiano effettuato l’imputazione.

Come già anticipato, la dichiarazione di imputazione del creditore deve tuttavia essere accettata dal debitore e, qualora sia inserita nello stesso documento contenente la quietanza, la ricezione del documento da parte del debitore si riferisce solo alla quietanza in esso contenuta e soddisfa il suo interesse a conservare la prova documentale dell’avvenuto pagamento, ma non presuppone un accordo sull’imputazione.

Dunque, affinché la ricezione del documento assuma valore di prova dell’accettazione dell’imputazione operata dal creditore è necessario, che da parte del debitore essa non venga immediatamente o prontamente contestata, atteso che la mancata tempestiva contestazione assume il valore dell’acquiescenza.

In tema di imputazione del pagamento, quando il debitore non si avvalga della facoltà di dichiarare quale debito intenda soddisfare, la scelta, come desumibile dall’art. 1195 cod. civ., spetta al creditore, il quale, nello stesso documento di quietanza, può dichiarare di imputare il pagamento ad uno o più debiti determinati, subentrando i criteri legali di cui all’art. 1193 cod. civ., che hanno carattere suppletivo, solo quando né il debitore né il creditore abbiano effettuato l’imputazione (Cass. civile, sez. 2, 13-12-2005, n. 27405 (sent.)).

In dottrina[28] si ritiene che il dolo cui fa riferimento la norma in esame indica il comportamento fraudolento posto in essere dal creditore e diretto a trarre in inganno il debitore (ad es. facendogli credere che l’imputazione fatta risponde a criteri legali); la sorpresa, invece, ricorre nel caso in cui il creditore approfitti delle condizioni personali del debitore (ad es. disattenzione, ignoranza) per fare senza opposizione un’imputazione a sé favorevole, pregiudicando così l’altra parte.

Verificandosi le circostanze sopra descritte, il debitore può disattendere l’imputazione creditoria[29] imputando il pagamento secondo la propria scelta[30].

Quest’ultimo assunto potrebbe essere la soluzione alla nullità della clausola che determina il computo degli interessi, soluzione che peraltro ben si adatterebbe all’applicazione degli interessi in via proporzionale che trova coerenza nel pagamento del capitale prima degli interessi.

Certamente resta ad oggi irrisolto come applicare al caso concreto (sotto il profilo matematico) il principio di proporzionalità e non si può evitare di rispondere ad un quesito prodromico, ovvero se il principio di equilibrio finanziario (che connota tutta la matematica finanziaria) sia conciliabile con il principio di proporzionalità ed equità stabilito dal nostro ordinamento.

Insomma sino ad oggi la questione è stata affrontata prima sul piano matematico e poi giuridico, ma appare evidente, anche alla luce delle sentenze della Corte di Giustizia Europea, che la questione è anzitutto giuridica e poi matematica.

3. La C.T.U.: ammissibilità

Dato quanto sopra affermato resta adesso da affrontare (per le vie brevi) la questione strettamente processuale.

Ad esempio è parere di chi scrive che in sede di CTU il quesito cardine dovrebbe essere: dica il CTU se il contratto posto a suo esame determina il calcolo degli interessi secondo il metodo esponenziale o proporzionale.

Solo la risposta a tale quesito potrà orientare il giudice sulla validità della clausola che contempla il calcolo degli interessi diversamente, ogni valutazione rischia di restare abbandonata ad un dibattito tra formule matematiche a cui il giurista non può che fare da spettatore.

Infatti, la consulenza tecnica del vigente codice di rito si pone quale attività integrativa rispetto a quella del giudice, svolta da un soggetto ausiliario particolarmente qualificato, che mette a disposizione del giudice istruttore il suo bagaglio di cognizioni tecniche[31]che il primo di solito non possiede.

Sul punto è utile ricordare la Cass. n. 27776/2019 che  ha operato una snella ricapitolazione dei principi di diritto che disciplinano le consulenze tecniche d’ufficio, sintetizzabile come segue:

– la consulenza tecnica d’ufficio ha la funzione di offrire al giudice l’ausilio delle specifiche conoscenze tecnico scientifiche che si rendono necessarie al fine del decidere; tale mezzo istruttorio, presupponendo che siano stati forniti dalle parti interessate concreti elementi a sostegno delle rispettive richieste, non può essere utilizzato per compiere indagini esplorative dirette all’accertamento di circostanze di fatto, la cui dimostrazione rientri, invece, nell’onere probatorio delle parti (Cass. n. 212/2006);

– il consulente tecnico di ufficio ha il potere di acquisire ogni elemento necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli, anche se risultante da documenti non prodotti in giudizio, sempre che non si tratti di fatti che, in quanto posti direttamente a fondamento delle domande e delle eccezioni, debbono essere provati dalle parti (Cass. n. 12921/2015);

– il divieto per il consulente tecnico di ufficio di compiere indagini esplorative può essere superato soltanto quando l’accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con l’ausilio di speciali cognizioni tecniche, essendo, in questo caso, consentito al consulente di acquisire anche ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori e rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza. Al contrario, il divieto è pienamente operante quando l’onere della prova sia a carico di una parte e non si rientri nella sopraindicata fattispecie eccezionale e derogatoria (Cass. 15774/2018);

–  in tema di consulenza tecnica d’ufficio, anche quando questa sia percipiente, ossia disposta per l’acquisizione di dati la cui valutazione sia poi rimessa all’ausiliario, quest’ultimo non può avvalersi, per la formazione del suo parere, di documenti non prodotti dalle parti nei tempi e modi permessi dalla scansione processuale, pena l’inutilizzabilità, per il giudice, delle conclusioni del consulente fondate sugli stessi (Cass. n. 18770/2016).

Nella dinamica processuale attuale (ovviamente nel contenzioso bancario), spesso la C.T.U. non viene ammessa in quanto ritenuta esplorativa, tuttavia, nella materia di cui si tratta raramente lo è.

Il consulente è chiamato a dedurre un fatto principale ignoto da un fatto secondario noto in base all’applicazione delle leggi scientifiche di cui è a conoscenza: in tal caso la consulenza è appunto definita deducente.

Ciò che occorre, ovviamente per chi promuove un’azione giudiziaria avente ad oggetto il contratto di mutuo (visto che di esso si sta trattando), è allegare i fatti a sostegno della nullità: la semplice allegazione sarà sufficiente a giustificare (ovvero rendere necessaria) l’ammissione della CTU che non potrà essere considerata esplorativa: la prova della natura esponenziale degli interessi non può che essere accertata in giudizio.

A tale tipologia si aggiunge quella, meno frequente, della consulenza tecnica cosiddetta percipiente, che si ha quando al consulente è demandata appunto la percezione e descrizione di fatti rilevanti in causa che possono essere per colti e rappresentati solo a mezzo dell’utilizzo di particolari conoscenze scientifiche.

Il divieto di consulenza esplorativa, cioè il divieto di disporla quando con essa si intenda perseguire la ricerca o l’acquisizione di fatti ed elementi di prova che avrebbero dovuto essere dedotti e provati dalle parti.

Il predetto limite incontra peraltro un importante temperamento nei casi in cui il fatto dedotto dalla parte possa essere approvato unicamente con il ricorso a particolari strumentazioni o cognizioni del consulente tecnico (Tra le tante: Cass., n. 15448 del 2003; Cass., n. 7635 del 2003).

In questi casi costituisce violazione della legge processuale il rifiuto del giudice di ammettere la consulenza adducendo il mancato assolvimento, ad opera della parte, dell’onere probatorio di cui all’articolo 2697 c.c. (Cass., 21.4.2005, n. 8297; Cass., n. 16256 del 2004), ovvero il successivo rigetto della domanda fondata su fatti che soltanto la negata consulenza avrebbe potuto dimostrare (Cass., n. 1783 del 1998; Cass., n. 6055 del 1988).

In definitiva, il carattere esplorativo o meno va valutato in relazione alla finalità propria della consulenza tecnica d’ufficio che è quella di aiutare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze.

Quindi, il suddetto mezzo di indagine non può essere disposto al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume ed è quindi legittimamente negato dal giudice qualora la parte tenda con esso a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerta di prove ovvero a compiere un’attività esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati. Ai sopraindicati limiti è consentito derogare unicamente quando l’accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con il ricorso a specifiche cognizioni tecniche, ed è consentito al c.t.u. anche acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere dalle medesime provati (Cass. civ. n. 5422 del 15.4.2002).

Da ultimo, la Cassazione Sezioni Unite 4.11.1996 n. 9522 ha chiarito che  il CTU è pur sempre un ausiliario del giudice,  lo aiuta nelle sue decisioni, e consente che il giudice deleghi il perito ad accertare determinati fatti purché questi siano stati almeno dedotti dalle parti interessate.

 

 

 

 

 

 


[1] C. Sganga, Dei beni in generale – artt. 810 – 821, Il codice Civile – Commentario diretto da F. D. Busnelli, Milano, 2015, 339.
[2] Cass. 12 marzo 1981 n. 1411. Ex multis Cass. 18 agosto 1982 n. 4642.
[3] Cass. 18.7.2002 n. 10428; Cass. 17.12.1994 n. 10901; in caso di richiesta di corresponsione degli interessi non seguita da alcuna particolare qualificazione, andranno liquidati a favore del creditore gli interessi corrispettivi che, come quelli compensativi, decorrono, in base al principio della naturale fecondità del denaro, indipendentemente dalla colpa del debitore nel mancato o ritardato pagamento, Cass. 23.1.2008 n. 1377. La certezza del credito non impedisce la produttività di interessi, attenendo essa non alla sua esistenza, atteso che la lettera dell’art. 1282 fa esclusivo riferimento alla liquidità ed esigibilità del credito (TAR Campania 27.7.1982 n. 408).
[4] Cass. 22.4.1986 n. 2843.
[5] Bianca, op. cit., 183.
[6] Bianca, op. cit., 184.
[7] Bianca, op. cit., 184.
[8] Giorgianni, L’inadempimento, Milano 1975, 159. La giurisprudenza ritiene che i crediti riconosciuti da sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva producono, anche se pendente l’impugnazione, interessi di pieno diritto (Cass. 13.9.1974 n. 2489). È stato precisato che l’avvenuta impugnazione di una pronunzia esecutiva di condanna al pagamento di una somma di denaro non esime il debitore, anche pubblico, dall’ottemperarvi, in quanto tale pronuncia, pur non ancora consolidata nel giudicato, presuppone comunque la liquidità del credito, ossia la sua esistenza e la determinazione del suo ammontare, e l’esigibilità del medesimo, che consegue all’accoglimento della domanda giudiziale Cass. 16.3.2000 n. 3032). Infine non impedisce la decorrenza degli interessi il fatto che il debitore sia impedito a pagare da sequestri o pignoramenti eseguiti sulle somme dovute, in quanto tale temporanea indisponibilità, estrinseca al credito, e come tale diversa dalla sua inesigibilità, derivante sempre da ragioni intrinseche, non fa venir meno il vantaggio che il debitore ritrae dal trattenere le somme, quale che sia la ragione per cui esse rimangono presso di lui (Cass. 22.12.2011 n. 28204).
[9] Bianca, op. cit., 188. Ai fini della decorrenza degli interessi di pieno diritto, a parere della dottrina unanime, sono ininfluenti sia la costituzione in mora che l’accertamento dell’imputabilità del ritardo nel pagamento al debitore. Anche la giurisprudenza è della stessa opinione ritenendo i suddetti elementi necessari solo per la decorrenza degli interessi moratori ex art. 1224 (Cass. 18.7.2002 n. 10428; Cass. 9.4.1999 n. 3944; Cass. 8.3.1983 n. 1663). Il principio secondo cui gli interessi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento decorrono dalla data del verificarsi del danno trova applicazione soltanto in materia di responsabilità aquiliana mentre quando l’obbligazione risarcitoria derivi da inadempimento contrattuale, gli interessi decorrono dalla domanda giudiziale quale atto idoneo a costituire in mora il debitore, anche se a quella data il credito non sia ancora liquido ed esigibile (Cass. 19.3.1990 n. 2296).
[10] Cass. 10.11.1997 n. 11042.
[11] È l’opinione di Bigliazzi Geri, Usufrutto, uso e abitazione in Trattato di diritto civile e commerciale già diretto da a. Cicu e F. Messineo e continuato da l. Mengoni, Milano 1979, pag. 122 ss.
[12] BARCELLONA, Attribuzione normativa e mercato nella teoria dei beni giuridici, in Quadrimestre, 1987, pag. 216.
[13] C. Spagna, De beni in generale, Il codice civile Commentato fondato da Piero Schlesinger diretto da Francesco D. Busnelli, Milano, 2015, pagg. 341.
[14] G. Morini, IL CASO.it, https://opinioni.ilcaso.it/opinione/4073/30-03-21/Estinzione-anticipata-del-finanziamento-lammortamento-alla-francese-deve-fare-i-conti-con-la-sentenza-Lexitor
[15] C. Spagna, De beni in generale, Il codice civile Commentato fondato da Piero Schlesinger diretto da Francesco D. Busnelli, Milano, 2015, pagg. 341.
[16] Se l’ammortamento alla francese generi capitalizzazione o anatocismo è questione strettamente matematica, tuttavia dalla verità dell’una o dell’altro ne discendono conseguenze giuridiche diverse.
[17] V. FARINA, Interessi, finanziamento e piano di ammortamento alla francese: un rapporto problematico, in I Contratti, I, 2019, n. 4. Come è stato puntualmente affermato in dottrina capitalizzazione ed anatocismo sono due fenomeni distinti: “Capitalizzazione” significa che gli interessi scaduti vengono, con una certa periodicità, spostati dalla voce “interessi” alla voce “capitale”. L’anatocismo interviene solo nel successivo periodo di calcolo allorché “gli interessi vengono calcolati anche su interessi (che nel frattempo sono divenuti capitale)”. Ci si riferisce ovviamente alla c.d. capitalizzazione composta, la sola che potrebbe avere a che fare con l’anatocismo (produzione di interessi sugli interessi scaduti su una somma liquida), e non con la c.d. capitalizzazione semplice, che indica la mera contabilizzazione degli interessi primari maturati in un determinato periodo di tempo sul capitale iniziale (Così puntualmente Sangiovanni, Tasso fisso e tasso variabile nei piani di ammortamento alla francese, in Corr. giur., 2016, 345 ss.  Su capitalizzazione e anatocismo come lemmi che identificano fattispecie differenti si veda P. Ferro Luzzi, In cauda venenum, in Riv. dir. comm., 2011, II, 418 ss.; ma ancor prima Id., Una nuova fattispecie giurisprudenziale: “l’anatocismo bancario”; postulati e conseguenze, in Giur. comm., 2001, 5 ss. “… si parla infatti, correttamente, di interessi sugli interessi, mentre meno correttamente ricorre spesso l’espressione capitalizzazione; meno correttamente, dico, perché nel sistema dell’art. 1283, c. c., gli interessi, quand’anche eccezionalmente, ad esempio per ‘usi’, producano a loro volta interessi, non si trasformano in capitale, restando ad esempio applicabile l’art. 1194, c.c. …”.).
[18] Mentre il concetto di capitalizzazione si riassume nel calcolo degli interessi sugli interessi, definizione prettamente matematica, il concetto di anatocismo, istituto esclusivamente giuridico, si definisce: In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi. Perché sussista anatocismo è necessario che gli interessi siano scaduti; tale possibilità è tuttavia lecita a condizione che vi sia domanda giudiziale o in alternativa una convenzione tra le parti posteriore alla scadenza degli interessi, in entrambi i casi è necessario che gli interessi siano dovuto per almeno 6 mesi: al di fuori di questi casi la produzione degli interessi su interessi scaduti è comunque sempre illegittima, salvo gli usi contrari. Non mi dilungherò sul perché l’uso in materia di anatocismo sia commerciale e non normativo e pertanto non in grado di derogare al generale divieto di anatocismo (Nel codice civile possiamo rinvenire rinvio agli usi contrari, attribuendo ad essi funzione integrativa derogatoria della disciplina prevista dalla legge, alle art 1283, 1457, 1510, 1528, 1665, 1739, 1756, 2148 del codice civile. In cinque di queste norme – artt. 1457 1510 1528 1665 1756 – è usata la locuzione “in mancanza di patto o uso contrario” ovvero “salvo patto o uso contrario”), basti ricordare la storica sentenza della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite 04/11/2004, n.21095(In tal senso: Cass. Civ. 18 settembre 2003, n. 13739; Cassazione Civile, Sez. I, 1° ottobre 2002, n. 14091; Corte di Cassazione, Sezione I, 28 marzo 2002 n. 4498; Corte di Cassazione, Sezione I, 28 marzo 2002 n. 4490; Corte di Cassazione, Se-zione I, 1° febbraio 2002 n. 1281; Corte di Cassazione, Sezione I, 11 novembre 1999 n. 12507; Corte di Cassazione, Sezione III, 30 marzo 1999 n. 3096; Trib. Monza 21 febbraio 1999; Trib. Busto Arsizio, 15 giugno 1998; Trib. Vercelli 21 luglio 1994; Pret. Roma 11 novembre 1996, ecc.). Si può pertanto affermare che l’anatocismo è una ipotesi di capitalizzazione ma non il contrario, e che dunque la capitalizzazione è il genus e l’anatocismo la species. La riforma apportata all’art. 120 TUB dall’art. 25 D. Lgs. 342/1999 è stato il primo passo verso una diversificazione tra i due concetti. Infatti il 2° comma dell’art. 120 UB esordiva: Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità di conteggio degli interessi sia debitori sia creditori. La formulazione usata dal legislatore non lascia dubbi: ciò che si vuole disciplinare non è solamente il fenomeno dell’anatocismo nella materia bancaria, ma un fenomeno ben più vasto e complesso quello della capitalizzazione degli interessi. I passi chiave della norma sono sicuramente il fatto che il legislatore demanda al CICR il compito di disciplinare la modalità di calcolo degli interessi sugli interessi (e non degli interessi sugli interessi scaduti) e che non si tratta di una svista è dimostrato dalla parola seguente – maturati – dunque non scaduti – o quanto meno non necessariamente scaduti. Non deve sorprendere che il legislatore si sia voluto addentrare in un concetto così vasto come quello della capitalizzazione e non si sia limitato a disciplinare nel dettaglio l’anatocismo bancario specie all’indomani della sentenza Corte di Cassazione, Sezione I, 11 novembre 1999 n.2374. Il legislatore è ben consapevole che la questione è più complessa del solo anatocismo e che i contratti bancari non sono così trasparenti nella indicazione del reale costo dell’operazione finanziaria e in particolar modo sulla natura e operatività del tasso di interesse. Non a caso all’art. 6 della delibera CICR del 9.02.2000 viene disciplinata proprio la trasparenza consegnando nelle mani delle banche la chiave alla soluzione di ogni problema: è sufficiente che il contratto si esplicito nell’indicazione del fenomeno della capitalizzazione degli interessi e che faccia approvare specificatamente la relativa clausola. Da questo punto di vista mi sento di affermare che il CICR, in quanto organismo specializzato, avesse già in tempo non sospetto previsto che nel tempo sarebbero saltati fuori nuovi problemi in relazione a contratti bancari decisamente poco trasparenti e che il fenomeno dell’anatocismo, ma più in generale della capitalizzazione, necessitava di una particolare attenzione e disciplina. Le banche hanno evidentemente ignorato il “suggerimento” del CICR e la “scialuppa di salvataggio” messa a disposizione e non credo per-ché ignoravano il fatto che nell’ammortamento a.f. gli interessi operano in regime di capitalizzazione composta. La tesi appena espressa trova inoltre conferma nella recente ulteriore riforma dell’art. 120 c. 2 TUB operata dalla L. 27 dicembre 2013, n. 147 il cui art. 1, comma 629 norma entrata in vigore dal 1° gennaio 2014: 2. Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a) nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori; b) gli interessi periodicamente capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale. Adesso il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi, un mandato evidentemente più ampio rispetto al precedente; la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori non è più la condizione per poter derogare all’art. 1283, ma adesso viene formulata in un contesto ben diverso, e direi più opportuno, quello del sinallagma. È indiscutibilmente un elemento di equilibrio tra le prestazioni contrattuali prima ingiustificatamente sbilanciate in favore della banca che già percepiva e percepisce interessi esponenzialmente superiori agli interessi che pagano sui depositi. Ma è il punto b) ad aver suscitato il maggior interesse poiché sancisce in via definitiva il divieto di capitalizzazione degli interessi da molti tuttavia, ancora una volta, confuso con l’anatocismo. Intanto viene ribadito un principio consolidato dal 1971 Cass. 3479, (In tal senso anche Cass. 6 maggio 1977, n. 1724 e n. 2593 del 20 febbraio 2003) ovvero: il semplice fatto che nelle rate di mutuo vengono compresi sia una quota del capitale da estinguere sia gli interessi a scalare non opera un conglobamento è vale tanto meno a mutare la natura giuridica di questi ultimi, che conservano la loro autonomia anche dal punto di vista contabile Nel caso del mutuo, dunque, a carico del mutuatario di somme di denaro sono poste due distinte obbligazioni: l’una di restituire la somma ricevuta in prestito (art. 1813 c.c.), l’altra di corrispondere gli interessi al mutuante, salvo diversa pattuizione (art. 1815 c.c.). Le due obbligazioni distinte ontologicamente e rispondenti a finalità diverse (Cassazione Civile con la sentenza n. 2593 del 20 febbraio 2003). Il punto b) è in realtà ancor più stringente di quello che si pensa. Innanzi tutto è evidente da una prima lettura la contraddittorietà tra la prima parte gli interessi periodicamente capitalizzati non possono produrre interessi ulteriori che nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale. In effetti nella prima parte il legislatore allude (almeno ad una prima) capitalizzazione, che porta alla mente l’ipotesi dell’interesse moratorio sull’interesse corrispettivo, e all’ipotesi della capitalizzazione degli interessi corrispettivi addebitati su conto corrente ed oggetto di successivo calcolo di ulteriori interessi, mentre nella seconda parte specifica che gli interessi devo-no essere calcolati esclusivamente sulla sorte capitale. Ad avviso di chi scrive il legislatore usa, nella prima parte il termine capitalizzazione in una accezione diversa: considera gli interessi già maturati come capitalizzati a cui pone poi nella seconda parte un divieto che indubbiamente ha carattere generale. Al di là della formulazione discutibile è al momento pacifico che non c’è modo alcuno, nel nostro ordinamento giuridico di calcolare interessi sugli interessi, condizione non derogabile dalle parti: ed è questa una differenza essenziale con la formulazione dell’art. 6 della delibera CICR 9.02.2000 che consentiva alle parti di pattuire la capitalizzazione degli interessi a condizione che la relativa clausola venisse specificatamente approvata.
[19] Bianca, Diritto civile, L’obbligazione, IV, Milano 1990, p. 340; Di Majo, Dell’adempimento in generale, Com. S.B., Bologna-Roma 1994, p. 325.
[20] Di Majo, Dell’adempimento in generale, Com. S.B., Bologna-Roma 1994, p. 326.
[21] Bianca, Diritto civile, L’obbligazione, IV, Milano 1990, p. 340.
[22] In tal senso: Cass. civile, sez. 2, 13-12-2005, n. 27405 (sent.).
[23] Bellelli, L’imputazione volontaria del pagamento, Padova 1989, p. 107. Bianca, Diritto civile, L’obbligazione, IV, Milano 1990, p. 340.
[24] Breccia, Le obbligazioni, Tr. Iudica-Zatti, Milano 1991, p. 568.
[25] Bianca, Diritto civile, L’obbligazione, IV, Milano 1990, p. 341; Bellelli, L’imputazione volontaria del pagamento, Padova 1989, p. 102; Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, Il comportamento del debitore, II, Tr. Cicu-Messineo, Milano 1984, p. 146.
[26] Nicolò, Adempimento (dir. civ.), EdD, I, Milano 1958, p. 563.
[27] Giorgianni, Pagamento (diritto civile), Scritti minori, Napoli 1988, p. 753.
[28] Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, Il comportamento del debitore, II, Tr. Cicu-Messineo, Milano 1984, p. 145; Bellelli, L’imputazione volontaria del pagamento, Padova 1989, p. 87.
[29] La Cass. civ., sez. III, 16-01-2013, n. 917, precisa: in tema di imputazione del pagamento, quando il debitore non si avvalga della facoltà di dichiarare quale debito intenda soddisfare, la scelta, come desumibile dall’art. 1195 cod.  civ., spetta al creditore, il quale, nello stesso documento di quietanza, può dichiarare di imputare il pagamento ad uno o più debiti determinati, subentrando i criteri legali di cui all’art. 1193 cod.  civ., che hanno carattere suppletivo, solo quando né il debitore né il creditore abbiano effettuato l’imputazione.
[30] Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, Il comportamento del debitore, II, Tr. Cicu-Messineo, Milano 1984, p. 341
[31] Il codice di rito regola agli art. dal 198 al 200 c.p.c. la specifica attività dell’esame contabile, anch’essa svolta dal consulente tecnico, ma con più ampi e particolari poteri in relazione allo specifico compito.

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