Analisi critica dell’art. 2043 c.c.: nuove interpretazioni sul “danno ingiusto”

Analisi critica dell’art. 2043 c.c.: nuove interpretazioni sul “danno ingiusto”

Riferimenti normativi: artt. 1173, 2043, 2044, 2045 c.c. e artt. 40, 41, 50, 51, 52, 54 c.p..

Ai sensi dell’articolo 1173 c.c. costituiscono fonti delle obbligazioni il contratto, il fatto illecito, nonché ogni atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico.

La nozione di fatto illecito si desume dal disposto dell’articolo 2043 c.c., che qualifica come tale qualunque fatto che cagiona ad altri un danno ingiusto, contemplando in tal senso una clausola generale, in forza della quale il giudice sarà chiamato a valutare la violazione del principio del neminem laedere rispetto al singolo caso concreto. Ciò che risalta dell’illecito civile è la sua atipicità, riassunta nella locuzione “qualunque fatto”, che consente di distinguerla dal reato, tipico ai sensi degli articoli 1 c.p. e 25, 2 comma, Cost.

Al riguardo preme una breve quanto doverosa precisazione: così come evidenziato da autorevole dottrina, il termine “fatto” viene utilizzato impropriamente. A ben vedere, dovrebbe qui discorrersi piuttosto in termini di atto illecito, essendo manifesta la rilevanza che la Legge riconduce al coinvolgimento della volontà dell’agente nel processo di causazione del danno ingiusto.

Riprendendo le trame dell’argomentazione, si evidenzia che la necessaria ed incontestabile linea di confine tra il reato e l’illecito civile non è così netta, essendo i due tipi di illecito strutturati in maniera analoga, data l’articolazione in elementi oggettivi e soggettivi, quali la condotta, l’evento, il nesso di causalità, nonché gli elementi psicologici di dolo e colpa.

Con riguardo al profilo oggettivo, si rammenta che con la locuzione “fatto” l’articolo 2043 c.c. intende riferirsi sia ad una condotta commissiva, che ad un comportamento omissivo, inosservante non già di un qualunque dovere di condotta, bensì dello specifico obbligo che l’Ordinamento pone in capo al danneggiante proprio al fine di evitare il verificarsi dell’evento dannoso.

La rilevanza della condotta omissiva, sebbene non oggetto di specifica previsione nel Codice del 1942, può pacificamente considerarsi corollario del principio solidaristico di cui all’art. 2 Cost.

Ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana, è necessario che alla condotta realizzata faccia seguito un evento, qual è il danno ingiusto, che sia ad essa eziologicamente connesso in termini di condicio sine qua non ai sensi dell’articolo 40, 1 co, c.p.. In realtà detto rilievo merita un’ulteriore precisazione, poiché come sostenuto dalla dottrina maggioritaria, affiancata da una concorde giurisprudenza, la mera prospettazione della condotta in termini di condizione necessaria per il verificarsi dell’evento non è sufficiente a comprovare la sussistenza del nesso di causalità, ritenendosi indispensabile verificare che, secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico in cui si realizza il fatto, l’evento è derivazione certa o altamente probabile della condotta.

Quanto appena rimarcato serve altresì a giustificare l’applicabilità dell’art. 41, 2 co, c.p., posto che il nesso di causalità tra condotta ed evento può dirsi interrotto quando una causa sopravvenuta sia di per sé idonea a determinarlo.

Uno degli aspetti più critici della disciplina dell’art. 2043 c.c. è dato dall’interpretazione dell’ingiustizia che deve caratterizzare il danno conseguente all’azione/omissione.

Originariamente si riteneva che potesse qualificarsi ingiusto il solo danno arrecato a diritti assoluti, quali sono i diritti reali e i diritti della personalità, che, per definizione, comportano un generale dovere di astensione dei consociati dalla relativa turbativa.

Parimenti, era opinione diffusa che l’ingiustizia del danno ricorresse anche dinanzi alla lesione di diritti inerenti a status della persona: si pensi al caso in cui venga ucciso l’obbligato al mantenimento del coniuge e dei figli.

La dottrina tradizionale era incline ad escludere la configurabilità della responsabilità aquiliana in caso di danno arrecato a diritti relativi, poiché gli stessi, richiedendo per definizione la collaborazione del debitore ai fini del soddisfacimento dell’interesse ad essi sotteso, si consideravano tutelabili nei soli rapporti tra le parti.

Verso la fine degli anni ’70 si è registrata una progressiva apertura sulla questione da parte della giurisprudenza, che è giunta a considerare pacificamente risarcibile il danno derivante al creditore dall’uccisione o dal ferimento del debitore; peraltro, è lapalissiano rimarcare che nel caso di specie assume una rilevanza fondamentale ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria l’infungibilità della prestazione cui è tenuto il debitore.

Invero, è naturale che l’irrilevanza dell’intuitu personae renda difficilmente configurabile un danno ingiusto alla pretesa creditoria.

Occorrerà comunque valutare il singolo caso concreto, posto che anche dinanzi ad una prestazione fungibile il creditore potrebbe veder leso ingiustamente il proprio diritto in ragione dell’obbligo, per legge o per contratto, di continuare a corrispondere lo stipendio o il salario in favore del debitore.

Non si registrano perplessità, inoltre, in ordine alla responsabilità risarcitoria del terzo che collabori all’inadempimento del debitore, o che induca lo stesso ad autodeteminarsi in tal senso.

Ipotesi del tutto peculiare è quella della doppia vendita immobiliare, rispetto alla quale occorre esaminare la posizione del primo acquirente non trascrivente nei confronti del secondo acquirente che provveda ai sensi dell’art. 2643 c.c., nonché rispetto alla figura dell’alienante. Per le regole generali della trascrizione, la seconda alienazione che sia stata regolarmente trascritta può essere opposta a tutti i terzi, dunque anche al primo acquirente che non abbia provveduto a detto adempimento, o che lo abbia fatto tardivamente.

Peraltro, non vi è dubbio che il primo contraente possa agire ex art. 2043 c.c. nei confronti di colui che, consapevole dell’intervenuta alienazione, agisca in malafede e stipuli il contratto approfittando della mancata trascrizione.

È pacifico che l’acquirente possa agire anche nei confronti dell’alienante, sebbene non vi sia concordia di opinioni in ordine alla disciplina concretamente attuabile. Autorevole orientamento dottrinario muove nel senso dell’applicabilità dell’art. 2043 c.c., mentre la giurisprudenza sembra indirizzata verso l’attuazione del regime dell’art. 1483 c.c..

Si ritiene altresì risarcibile il danno derivante da perdita definitiva di chance, da intendersi quale possibilità, attualmente disponibile nel patrimonio del titolare, di conseguire un vantaggio finale. Ai fini del 2043 c.c. è per altro indispensabile che detta perdita sia irreversibile: secondo un orientamento del 2009, la giurisprudenza di merito ha disconosciuto il diritto al risarcimento del danno derivante dalla perdita di chance di vincere la lite, per corruzione del Giudice, in presenza di una sentenza ancora impugnabile nel giudizio di cassazione.

Di particolare interesse è il riconoscimento della tutela risarcitoria per i danni derivanti da lesione di interesse legittimo, per lungo tempo negata dalla giurisprudenza, la quale interpretava il “danno ingiusto” di cui all’art. 2043 c.c. in termini di lesione ai soli diritti soggettivi. La questione è assai complessa, essendo radicata nel dibattito relativo al riconoscimento della natura sostanziale o processuale dell’interesse legittimo, ormai superata in favore della prima soluzione. Per quel che qui rileva, si rammenta che soltanto con la sentenza n. 500/1999 la Cassazione a Sezioni Unite si è pronunciata positivamente verso il riconoscimento di una tutela risarcitoria in favore del soggetto danneggiato dalla lesione dell’interesse legittimo di cui è titolare, rimarcando che il disposto dell’art. 2043 c.c. non integra le disposizioni sui diritti soggettivi, ma ha un’autonoma valenza.

Non vi è dubbio che l’ingiustizia del danno postula, in linea di principio, l’antigiudiricità della condotta che ne costituisce la fonte, da intendersi quale contrarietà all’Ordinamento Giuridico nella sua complessità e non anche come devianza rispetto alla singola norma; in altri termini, l’antigiuridicità prescinde dalla natura dell’illecito, sia esso penale, civile o amministrativo.

Alla ricorrenza di particolari vicende soggettive ed oggettive il carattere antigiuridico della condotta viene meno, come si desume espressamente dagli articoli 2044 e 2045 c.c., e dagli articoli 50-54 c.p..

Affinché il consenso dell’avente diritto possa operare quale causa di esclusione dell’antigiuridicità è necessario che la condotta si rivolga verso diritti disponibili del titolare. Detta esimente, sotto il profilo civilistico, assume specifica rilevanza con riguardo ai danni subiti dallo sportivo nello svolgimento del gioco: secondo taluni, nel caso di specie si annullerebbe la stessa valenza dell’art. 5 c.c.. È pressoché scontato rimarcare che ai fini dell’applicabilità dell’esimente si richiede che la violenza sia compatibile con le dinamiche del gioco, nonché con le regole che lo disciplinano.

Il risarcimento del danno è escluso anche nel caso in cui il danno ingiusto sia derivato dall’esercizio di un diritto o dall’adempimento di un dovere, a norma dell’art. 51 c.p., ovvero laddove sia l’implicazione inevitabile della risposta alla condotta aggressiva altrui, ex artt. 2044 c.c. e 52 c.p.. L’antigiuridicità non si esclude in caso di eccesso di legittima difesa, a meno che la stessa non sia putativa, quindi giustificata dall’erronea convinzione di rispondere ad un’aggressione ingiusta. Peraltro, rispetto a quest’ultimo caso il danneggiante sarà comunque obbligato ad indennizzare il danneggiato, ricorrendosi analogicamente alla disciplina del 2045 c.c..

Così come espressamente sancito sia nel codice civile che nel codice penale, anche lo stato di necessità è una vicenda idonea ad escludere il carattere antigiuridico della condotta, e ciò che la differenzia dalla legittima difesa è l’assenza di un’altrui ingiusta aggressione. Invero, è proprio in ragione di quest’ultimo carattere che si giustifica l’obbligo di indennizzare il danneggiato, prospettandosi in tal senso un’evidente ipotesi di responsabilità da atto lecito.

L’argomentazione deve concludersi con la considerazione dell’elemento soggettivo dell’illecito civile, di cui l’articolo 2043 c.c. fa espressa menzione.

A differenza del reato, che storicamente nasce come doloso, per configurarsi responsabilità aquiliana è sufficiente la colpa; invero, l’articolo 2043 c.c., facendo alternativamente riferimento al dolo e alla colpa, pone i due stati psichici sullo stesso piano. Il dolo, inteso quale intenzionalità della condotta, rileva sia nella sua forma diretta che nella variante eventuale; mentre nel primo caso il danno ingiusto è l’obiettivo che si intende conseguire, o il mezzo necessario per giungere ad uno scopo differente, il dolo si dice eventuale quando l’evento dannoso viene prospettato dall’agente quale possibile conseguenza della propria condotta. Sebbene l’art 2043 c.c. equipari i due stati psichici, come precisato infra, è doveroso rimarcare la previsione di ipotesi in cui la responsabilità dell’autore presuppone necessariamente un comportamento doloso, come nel caso degli atti emulativi ex art 833 c.c..

La colpa rileva in entrambe le sue varianti, quindi sia come inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, che in termini di negligenza, imprudenza ed imperizia. Il termine di comparazione rispetto al quale valutare la sussistenza di colpa generica è indubbiamente quella del bonus pater familias.

È opportuno rilevare in tal sede che ai fini dell’art. 2043 c.c. è onere del danneggiato dar prova del dolo o della colpa, a differenza di quanto statuito dall’art. 1218 c.c. che addossa al debitore l’onere di provare che l’inadempimento sia dipeso da causa a lui non imputabile.


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Patrizia Picciano

Laureata in Giurisprudenza con lode presso l'Università degli Studi del Molise, con una tesi in Diritto Civile dal titolo "Clausole di prelazione e di gradimento". Tirocinante della Suprema Corte di Cassazione.

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