Analisi della normativa riguardante il potere di controllo del datore di lavoro

Analisi della normativa riguardante il potere di controllo del datore di lavoro

Il potere di controllo a distanza espletato dal datore di lavoro nei confronti dei lavoratori è da sempre un tema piuttosto complesso e oggetto di innumerevoli studi, critiche e interventi normativi e giurisprudenziali, vista l’importanza di bilanciare le reciproche posizioni delle parti contraenti e di assicurare soprattutto un’adeguata tutela al lavoratore, da sempre parte debole del rapporto contrattuale.

Tale potere è disciplinato dall’articolo 4 della legge 20 maggio n. 300 del 1970, il (c.d. statuto dei lavoratori.), che, nella sua formulazione originaria, stabiliva un espresso divieto dell’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Rimaneva consentita l’installazione di strumenti dai quali potesse derivare anche indirettamente un controllo a distanza solo nel caso in cui ricorressero “esigenze organizzative e produttive” o legate alla “sicurezza sul lavoro” o alla “tutela del patrimonio aziendale” e solo previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, con la commissione interna. Di tale divieto, se ne individuava la ratio in un generale diritto alla riservatezza del lavoratore, posto a barriera dell’attività di osservazione del datore di lavoro sul suo comportamento e su tutti i fatti e gli atteggiamenti che ne potevano rivelare la vita privata.

Col tempo, tale normativa, che nasceva in un contesto connotato da un livello tecnologico nemmeno lontanamente paragonabile all’attuale e le cui evoluzioni non erano ipotizzabili dal legislatore del ’70, ha evidenziato diversi profili di criticità e obsolescenza a causa del notevole sviluppo che ha interessato il mondo del lavoro, nonché l’emergere di nuove situazioni meritevoli di tutela con riferimento alla riservatezza del lavoratore, rendendo non più procrastinabile un intervento riformatore.

Tale reformatio si è avuta con l’art. 23 del D.Lgs. 151, del 2015, il c.d. Jobs Act. Dal testo si evince la scelta legislativa verso una fattispecie “aperta”, che si adegua al progresso tecnologico in modo da comportare un’automatica inclusione di tutti quegli strumenti, o tecnologie, facenti riferimento all’hardware e  ai software, che possono effettuare un controllo effettivo sull’attività dei lavoratori, operando un opportuno raccordo tra il potere di controllo tecnologico e gli altri poteri gestionali del datore di lavoro e venendo così a colmare diverse lacune del vecchio art. 4 che alimentava non poche incertezze applicative.

Quello che emerge subito dalla lettura della norma è la scomparsa del generale divieto di utilizzare impianti audiovisivi e altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività lavorativa. La nuova formulazione, tuttavia, non ha realizzato una completa “liberalizzazione” dei controlli a distanza, confermando che l’installazione di impianti audiovisivi richiede esigenze organizzative e produttive e il necessario previo accordo sindacale ovvero l’autorizzazione amministrativa.

Un ulteriore elemento di novità è contenuto nel 2° comma ove è previsto che per gli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e gli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze” non opera alcun divieto di utilizzo e non necessitano né accordi sindacali né autorizzazioni. In tali ipotesi la giurisprudenza ha parlato di “controlli svincolati”, qualificando lo strumento tecnologico per effettuare il controllo a distanza come lecito, perché, appunto, rientrante negli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione di lavoro”.

Va detto, tuttavia, che lo sviluppo delle tecnologie informatiche ha reso arduo distinguere tra strumenti utilizzati dal lavoratore per l’adempimento della prestazione e strumenti solo indirettamente correlati all’attività lavorativa, dai quali possano derivare forti rischi di sconfinamento verso aspetti più propriamente intimi e personali del soggetto utilizzatore.

Per questo motivo, la difficoltà che da gran parte della dottrina è stata messa in evidenza risiede proprio nell’individuazione di una categoria autonoma di strumenti, caratterizzati dall’essere funzionali alla corretta esecuzione della prestazione lavorativa e “svincolati” dall’osservanza degli oneri delle procedure codeterminative, qualora intrinsecamente e naturalmente idonei a consentire operazioni di controllo, purché, gli stessi non siano stati appositamente modificati dal datore di lavoro al solo scopo ispettivo delle maestranze.

È pertanto inevitabile che dall’utilizzo di sistemi informatici aziendali discendano controlli di vasta portata sull’intera attività che viene svolta dal lavoratore all’interno del sistema stesso, e ciò non soltanto all’atto della prestazione ma anche a distanza di tempo e di luogo, come dimostrano numerosissimi casi affrontati dalla giurisprudenza di merito e di legittimità e dalle decisioni del Garante della Privacy.

Nel novero degli “strumenti” di cui all’art. 4 del nuovo testo, rientra non solo il telefono e la posta elettronica aziendale ma anche gli strumenti di geolocalizzazione installati sui veicoli e ogni altra tecnologia in concreto adottata per l’esecuzione della prestazione lavorativa.

Sul punto, il Garante era in precedenza intervenuto sottolineando come l’attività di “erogazione di servizi per via telematica mediante c.d. web contact center” poteva essere considerata come attività lavorativa alla quale si applicava il divieto di controllo a distanza.

Tuttavia, alla luce della previsione introdotta dall’art. 4, comma 2, la stessa conclusione potrebbe non essere più interamente condivisibile, in circostanze nelle quali la tecnologia indicata costituisse strumento di lavoro.

Sono, invece, da ritenere collocati fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 4, i controlli diretti ad accertare le condotte illecite del lavoratore (i c.d. controlli difensivi), come ad esempio nel caso di utilizzo di apparecchi di rilevazione di telefonate ingiustificate tramite il telefono aziendale.

Egualmente possono valutarsi negativamente i casi di svolgimento, nell’orario di lavoro, di attività personale di comunicazione e utilizzo di social network da parte del lavoratore. Come ribadito in una recente sentenza del 1° febbraio 2019 in cui la Corte di Cassazione ha confermato le precedenti decisioni dei giudici di merito che avevano dichiarato legittimo il licenziamento di una impiegata part time che, nell’arco di soli 18 mesi, aveva effettuato circa 6.000 accessi ad internet estranei all’ambito lavorativo, di cui almeno 4.500 circa sul suo profilo personale Facebook.

Da quanto detto, si può desumere che la previsione contenuta nel comma 2 ha un forte potenziale applicativo sia nei confronti dei datori di lavoro, sia nei confronti dei lavoratori, con l’auspicio, ovviamente, che si rispetti un giusto bilanciamento degli interessi in gioco e si impedisca a meri calcoli economici di sopprimere diritti e dignità fondamentali.

Merita menzione anche l’introduzione ex novo del comma 3, il quale in maniera specifica prevede che «le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196».

Tale comma è rilevante poiché l’originaria formulazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori non prevedeva alcunché in ordine all’utilizzo delle informazioni che venivano raccolte attraverso gli strumenti di controllo a distanza e ciò portava la giurisprudenza ad avere il difficile compito di verificare la legittimità o meno delle azioni e delle eventuali sanzioni che venivano comminate al lavoratore.

Dal nuovo art. 4, invece, discende che l’informativa rappresenta una conditio sine qua non per la legittimità di qualsiasi informazione acquisita e qualora il lavoratore non sia stato adeguatamente informato, i dati raccolti non saranno utilizzabili per nessun fine, neanche per quelli disciplinari.

Quindi, l’informativa ha una duplice funzione: da un lato mette i lavoratori in guardia circa i limiti da non superare e, dall’altro vieta un uso indiscriminato dei controlli, atteso che il dipendente viene posto nella condizione di conoscere con quali modalità la sua attività lavorativa potrà essere monitorata.

Nel comma 3 inoltre compare per la prima volta il rinvio diretto al codice della privacy, operando un raccordo tra i due sistemi, consentendo l’applicazione di alcuni principi fondamentali utili ad impedire la sorveglianza massiva e totale del lavoratore.

A mio avviso, la chiave interpretativa dell’intero progetto di riforma dell’art. 4 può essere ricercata all’interno della stessa legge delega, (la Legge 183 del 2014), ed in particolare nell’art. 1, co. 7, lett. f), che vuole che l’intera disciplina dei controlli a distanza sugli impianti e sugli strumenti di lavoro avvenga: «tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore».

La norma, infatti, richiede sempre un ragionevole equilibrio tra la tutela dei diritti e delle ragioni datoriali e la tutela dei diritti e delle ragioni del lavoratore soprattutto in considerazione del fatto che le nuove tecnologie, sia hardware sia software, possono davvero realizzare un controllo rilevantissimo non solo sull’attività̀ lavorativa, ma anche sulla vita privata del lavoratore. Proprio su questo aspetto, è probabile che tanto i giudici quanto il Garante della Privacy, chiamati ormai al ruolo essenziale di argine all’ utilizzo pervasivo dei controlli sul lavoro, interverranno per determinare il giusto perimetro dell’attività di controllo a distanza per evitare utilizzazioni distorte, in violazione dei fondamentali diritti del lavoratore

È vero che l’art 41 della Costituzione sancisce il principio della libertà di iniziativa economica privata ma richiede anche che questa venga esercitata nel rispetto della dignità e libertà umana. Da ciò consegue che, se è vero che il datore di lavoro ha il potere di controllare che l’attività dei dipendenti sia eseguita conformemente alle direttive da lui impartite, tale potere va però contemperato con il contrapposto diritto dei lavoratori al rispetto della riservatezza, della libertà di espressione e di comunicazione. Tale bilanciamento di interessi è soprattutto consentito dalla disciplina del potere di controllo del datore e in particolare del controllo a distanza.

Occorre a questo punto domandarsi quali effetti comporti, l’introduzione della finalità di tutela del patrimonio aziendale tra le causali legittimanti il controllo a distanza del datore di lavoro e, dall’altro, il raccordo della disciplina statutaria con la normativa sulla privacy.

Possiamo concludere che l’ingresso dell’esigenza di tutela del patrimonio aziendale all’interno dell’art. 4 dello Statuto consenta di porre la parola fine alla controversa vicenda dei controlli difensivi del datore di lavoro. Del resto, l’ampliamento delle fattispecie in cui l’installazione degli impianti audiovisivi è oggi legittima rende difficile immaginare ulteriori interessi datoriali meritevoli di tutela, tali da giustificare un controllo a distanza esercitato contra o extra legem.

Del pari, invece, il richiamo diretto al codice sulla privacy introduce un limite a ben vedere intrinseco al potere di controllo datoriale, il quale deve oramai essere esercitato nel rispetto non solo dell’art. 4 St. lav, ma anche del D.Lgs. n. 196/2003 (ora novellato dal GDPR). Ed in tale prospettiva, occorrerà verificare se i principi di trasparenza, correttezza, pertinenza e non eccedenza che permeano la disciplina sulla privacy, siano in grado di bilanciare i contrapposti interessi del rapporto di lavoro.

È scontato dire che il cammino è ancora lungo e complesso per arrivare ad una normativa completa che possa bilanciare in maniera effettiva il potere del datore con i diritti del lavoratore, poiché l’intero corpus normativo lavoristico, come noto, si muove sull’assunto in base al quale tra i due attori principali sussiste una profonda disparità di posizioni che, nondimeno, l’avvento dell’era digitale avrebbe accentuato maggiormente, in assenza di interventi di adeguamento. Ecco perché gli ultimi interventi normativi vanno nella direzione di dettare una regolamentazione che, senza nessuna ambiguità, richiede una valutazione integra e completa della disciplina lavoristica e di quella della privacy. Alla luce del nuovo contesto normativo, l’autonomia datoriale e il suo relativo potere necessitano di un’attenta valutazione con i presidi giuridici posti a salvaguardia dei valori del lavoratore inteso come persona.

Tuttavia, sono ancora numerose le incertezze interpretative che possono porsi come limiti alla libertà economica imprenditoriale in un’epoca in cui la “crescita”, per molti governi nazionali, sta identificandosi col mero incremento della produttività e diventa perciò cruciale, pertanto, che le regole siano sempre più definite poiché si potrebbero comprimere le libertà fondamentali dei lavoratori.


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Salvatore Andrea Bonavita

Laurea magistrale in Giurisprudenza conseguita a 24 anni presso l'Università della Calabria Attualmente è avvocato praticante presso lo "Studio Legale Chiaia" situato a Cosenza e specializzato in contenzioso penale.

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