Arricchimento senza causa della Pubblica Amministrazione

Arricchimento senza causa della Pubblica Amministrazione

Per il nostro ordinamento ogni spostamento patrimoniale necessita di una causa giustificatrice, ove tale causa sia inesistente ed una delle parti si sia arricchito, a causa di tale mancanza, deve indennizzare la controparte in misura dello svantaggio provocatogli, in ossequio all’art. 2041 c.c.

I presupposti di tale azione sono, quindi: il vantaggio di una delle parti, lo svantaggio provocato all’altra parte, la correlazione tra il vantaggio e lo svantaggio anzidetto e la mancanza di una causa giustificatrice.

Per quanto riguarda il primo presupposto indicato, il cd. vantaggio, si intende ogni prestazione che sia suscettibile di una valutazione economica, ex articolo 1174 c.c., con carattere di concretezza ed effettività; d’altra parte, invece, si intende – svantaggio-  il danno che viene arrecato ad un soggetto e si identifica con l’impoverimento del patrimonio, caratterizzato dalla differenza tra lo svantaggio conseguito ed il vantaggio che invece avrebbe ottenuto se non si fosse verificato.

L’ azione di arricchimento senza causa ha carattere sussidiario, come previsto esplicitamente dall’articolo seguente, art. 2042 c.c., che recita: “l’azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione per farsi indennizzare dal pregiudizio subito”, in base a tale disposto l’azione, ex art. 2041 c.c., può essere esperita solo allorquando non si possa trovare ristoro attraverso gli altri rimedi di tutela, come ad esempio attraverso le azioni di ripetizione dell’indebito ed il risarcimento del danno, con le quali, come si esporrà successivamente, presenta però peculiarità differenti. Sulla residualità, si è pronunciata la dottrina prevalente, chiarendo che in merito alla rigidità della conseguente azione, non si pretende una “residualità” in senso stretto, osservando che la ratio di tale preclusione sia stata affermata dal legislatore solo per chiarire che l’azione possa essere esperita solo ove il ristoro fosse precluso da altro rimedio.

Con riguardo alla conseguenza di tale azione, in relazione alla relativa diminuzione patrimoniale senza giusta causa, è caratterizzata dall’obbligo, a carico del soggetto che ha conseguito un vantaggio, di pagare l’indennizzo all’altra parte. Ed è proprio tale indennizzo che distingue il rimedio, ex art. 2041 c.c., dall’azione del risarcimento del danno, attraverso un punto di vista quantitativo: infatti, l’art. 2043 c.c. nasce quale ristoro per l’intero danno che un soggetto, attraverso un fatto doloso o colposo, ha cagionato ad altri; mentre l’indennizzo, ex art. 2014 c.c., non si caratterizza per la sua interezza bensì deve essere equiparato alla diminuzione patrimoniale causata, in relazione al pregiudizio subito dalla parte dall’arricchimento/vantaggio dell’altra. Altra peculiarità che differenza il risarcimento del danno dall’azione di arricchimento è dato dall’elemento soggettivo, richiesto nell’art. 2043 c.c. attraverso il dolo o la colpa, e che prescinde, invece, nell’art. 2041 c.c., poiché in quest’ ultimo caso siamo in presenza di un’ingiustizia oggettiva e cd. relativa, cioè di un danno non supportato dall’elemento soggettivo della parte.

L’azione di arricchimento ingiustificato si differenzia anche da un’altra azione, quale il pagamento dell’indebito, ex artt. 2033 e seguenti. Difatti, mentre per l’arricchimento si presuppone che vi sia un vantaggio per l’accipiens, questo tipo di presupposto non è richiesto per la ripetizione; oltretutto, nel pagamento dell’indebito il solvens ha diritto alla restituzione della cosa o di ciò che ha pagato a causa di un rapporto inesistente tra le parti o anche a causa di un errore scusabile sull’esistenza del proprio status di debitore (per quanto concerne il cd. indebito soggettivo); al contrario, per quanto riguarda l’arricchimento senza giusta causa si fa riferimento all’indennizzo determinato in relazione ad un rapporto esistente tra le parti, anche se non giustificato.

L’art. 2041 nasce come norma di chiusura, è un rimedio unitario, idoneo a ricomprendere tutte le situazioni oggettive, ed è proprio su tale inciso che si andò a riconoscere tale rimedio anche nei confronti dei poteri pubblici, che in concomitanza con gli artt. 24 e 103 Costituzione, garantiva al cittadino che fosse stato leso dalla Pubblica Amministrazione., attraverso uno spostamento patrimoniale ingiustificato, di poter essere indennizzato.

La condizione di tale azione era riconosciuta dall’esistenza della cd. utilitas, considerata quale parametro per il quale una prestazione potesse ritenersi utile alla Pubblica Amministrazione, e quindi a vantaggio della stessa, giustificando così l’indennizzo in equivalenza dello svantaggio conseguito dal privato.

In particolare, allorquando vi fosse stata realizzata un’opera o effettuata una prestazione nei confronti della Pubblica Amministrazione e questa non fosse stata supportata da una causa, l’Amministrazione, a seguito dell’esperimento da parte del privato dell’azione di cui all’articolo 2041 c.c., avrebbe dovuto indennizzare lo stesso dello svantaggio patrimoniale subito.

Il riconoscimento dell’utilità doveva essere effettuato dall’amministrazione stessa attraverso un potere discrezionale, che poteva essere individuato sia implicitamente, per mezzo dell’utilizzazione dell’opera o della prestazione, o anche attraverso un giudizio esplicito positivo che quell’opera o quella prestazione garantiva il pubblico interesse.

Con riguardo ai soggetti della Pubblica Amministrazione che potevano espletare tale cd. riconoscimento della utilitas, si discuteva su due distinte posizioni: chi sosteneva che l’atto potesse essere emesso solo dagli organi di vertice e quindi dall’organo deliberativo, chi invece, al contrario, riteneva che bastasse un semplice atto disposto da un tecnico competente. Sul punto, recentemente, si è pronunciata la Cassazione, che in riferimento a tale aspetto ha determinato che il riconoscimento ogni qualvolta non sia esplicito debba provenire da un organo di vertice, cioè da un organo qualificato della Pubblica Amministrazione.

Tale procedimento, con riferimento alla possibilità di poter esperire l’azione di arricchimento solo sul presupposto che potesse configurarsi l’utilità della sussistenza dell’opera o della prestazione solo attraverso la discrezionalità della Pubblica Amministrazione, senza quindi lasciare la possibilità al giudice di accertare tale presupposto in base alla propria valutazione, ha trovato per vari anni dalla sua parte l’avallo della giurisprudenza maggioritaria sull’assunto della posizione di supremazia che la Pubblica Amministrazione godeva, accompagnata dalla convinzione che l’interesse valutato come “utile” potesse essere individuato solo da parte della stessa.

D’altro canto, non mancarono considerazioni opposte a tale fermezza, da parte di un orientamento minoritario, che non solo criticava tale assunto sulla base del potere troppo ampio conferito all’amministrazione, ma anche sulla base delle incertezze insite riguardo alla cd. “prestazione” effettuata.

Su questa scia si è espressa recentissimamente, con sentenza 26 maggio 2015, la Cassazione a SS.UU. in merito ad un caso nel quale una donna, attraverso l’azione ex art. 2041 c.c., chiedeva all’amministrazione comunale che le fosse indennizzato la prestazione d’opera di manutenzione di alcuni edifici scolastici, non inserita nel contratto d’opera e mai retribuita, in favore dell’ormai deceduto marito, definendo la prestazione in oggetto “indispensabile per assicurare la funzionalità di tali edifici scolastici”.

I giudici, cambiando radicalmente posizione rispetto alle precedenti pronunce, si basarono sulla ormai abbandonata concezione di supremazia della Pubblica Amministrazione, in riferimento all’ormai posizione paritaria della stessa nei confronti del privato, ex art. 97 cost., ma soprattutto si soffermarono sulla “oggettività” dell’azione in sé, definendo che la stessa non richiede per l’indennizzo la sussistenza di una utilitas. In particolare, definirono che: la regola di carattere generale secondo cui: 1) non sono ammessi né arricchimenti ingiustificati né spostamenti patrimoniali ingiustificati sia per il privato che per la Pubblica Amministrazione; 2) il requisito dell’utilità non costituisce requisito necessario dell’azione ex art. 2041 c.c; 3) il privato (attore) deve provare il fatto oggettivo dell’arricchimento senza causa secondo il diritto comune; 4) che la P.A. può opporre a tale elemento probatorio solo che l’arricchimento in questione non era stato voluto o non fu consapevole da parte dell’amministrazione stessa (cd. arricchimento imposto); 5) si affida al giudice l’accertamento e la valutazione dell’utilità nel fatto concreto.

Orientamento questo, ben contrario alle pronunce precedenti: da una parte, attraverso l’eliminazione della valutazione da parte dell’amministrazione dell’utilitas, si è voluto evidenziare come, ormai, il potere discrezionale della P.A. sia limitato ove ricorra una tutela del cittadino privato ed oltretutto come tale limitazione sia devoluta allo scrutinio del giudice in merito alla valutazione dell’arricchimento e dello svantaggio in questione, garantendo quindi un maggiore tutela per il privato da abusi dell’amministrazione stessa; d’altra parte, però, sembra sia stato affievolito il carattere oggettivo della norma, dove si richiede la prova del cd. arricchimento imposto, cioè la mancanza di volontà o consapevolezza della P.A., che sembra approcciare, invece, ad una visione soggettiva quale presupposto che non è richiesto per l’esperimento dell’azione generale di arricchimento, ex art. 2041.


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