Assegno di divorzio, Cassazione: “dal tenore di vita” al parametro dell’indipendenza economica degli ex coniugi

Assegno di divorzio, Cassazione: “dal tenore di vita” al parametro dell’indipendenza economica degli ex coniugi

La Corte Suprema di Cassazione I sez. civ. con la sentenza in commento ha determinato quella che potremo definire una vera e propria “rivoluzione copernicana” nel diritto di famiglia, mutando in maniera radicale l’orientamento pressoché consolidato in tema di riconoscimento del diritto all’assegno divorzile. Gli ermellini, infatti, con una decisione epocale, destinata, pertanto, ad avere ricadute applicative straordinarie, analizzando attentamente la ratio dell’istituto del divorzio e la relativa normativa, nonché l’evoluzione nel corso del tempo del significato e della concezione del matrimonio, hanno ritenuto non più adeguato ancorare il diritto all’assegno divorzile al parametro del “tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”, ma piuttosto al più coerente presupposto della non autosufficienza economica del coniuge più debole.

Ma analizziamo il percorso argomentativo seguito dai giudici di Piazza Cavour.

Il caso sottoposto all’attenzione della Corte Suprema ha riguardato un giudizio di divorzio, nell’ambito del quale la Corte di Appello di Milano negava alla ex moglie il riconoscimento del diritto all’assegno divorzile sul presupposto che la stessa non avesse adeguatamente dimostrato una sua non indipendenza economica, al contrario dell’ex coniuge, che invece aveva subìto (e dimostrato) un’evidente contrazione della sua situazione reddituale. La donna, pertanto, impugnava la sentenza della Corte di Appello milanese sulla base di quattro motivi di ricorso al fine di vedere riconosciuto il suo diritto.

La I sezione civile della Corte di Cassazione ha rigettato tutti e quattro i motivi di ricorso avanzati dalla ex moglie, elaborando due principi di diritto rivoluzionari per il diritto famiglia italiano.

Il ragionamento degli ermellini è partito dalla disamina della legge sul divorzio (legge n. 898/1970) e della ratio di tale istituto, nonché degli articoli che espressamente disciplinano il diritto e i criteri per la quantificazione dell’assegno divorzile.

Come è noto, l’art, 5 comma 6 della legge 898/1970 stabilisce espressamente che “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

I giudici della I sezione civile, riprendendo quanto già statuito dalla Corte Suprema nella sentenza n. 2546/2014, divenuta ormai pietra miliare di ogni statuizione in materia di assegno divorzile, hanno evidenziato come dalla stessa struttura della norma emerga in maniera chiara la presenza di un giudizio suddiviso in due fasi ben distinte e separate. La prima concernente l’an debeatur, ossia il riconoscimento della sussistenza del diritto a ricevere un assegno divorzile; la seconda, a cui giungere solo in caso di esito positivo della prima, relativa al quantum debeatur, ossia ai criteri di determinazione quantitativa del suddetto assegno.

La Cassazione, pertanto, ribadendo la natura condizionata del diritto all’assegno di divorzio, ha posto l’attenzione sul dato letterale della norma, e specificamente sul significato da attribuire alla nozione di “mezzi adeguati” e alla disposizione “impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive”, comportando, infatti, la presenza di tali requisiti la negazione tout court del diritto per l’ex coniuge richiedente.

L’orientamento adottato costantemente dalla Corte Suprema, a partire dalle note e fondamentali sentenze delle Sezioni Unite nn. 11490 e 11492 del 1990, ha individuato come parametro di riferimento cui rapportare l’adeguatezza/inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente “il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”.

Tuttavia con la decisione in oggetto i giudici della I sezione civile hanno ritenuto che dopo 27 anni questo orientamento non sia più attuale e che, pertanto, debba essere rivisto.

La Corte Suprema, a giustificazione di tale revirement, ha richiamato in primis il fondamento costituzionale dell’assegno divorzile, individuato nell’art. 2 Cost., ossia in quel dovere inderogabile di solidarietà economica “il cui adempimento è richiesto ad entrambi i coniugi “quali persone singole” a tutela della persona economicamente più debole”, coerente con la natura “assistenziale” di tale assegno, e che lo diversifica da quello di mantenimento eventualmente riconosciuto nella fase di separazione personale.

Gli ermellini hanno evidenziato, inoltre, come le Sezioni Unite dell’epoca si fossero fatte carico dell’esigenza di superare la concezione patrimonialistica del matrimonio, inteso allora come “sistemazione definitiva”, ponendosi, quindi, come obiettivo quello di evitare rendite parassitarie ed ingiustificate proiezioni patrimoniali di un rapporto personale ormai sciolto; tale esigenza, invece, al giorno d’oggi, si ritiene non più così sentita, essendo del tutto mutata la concezione che il matrimonio ha assunto nel corso del tempo, concepito, ormai, quale “atto di libertà, luogo degli affetti e di una comunione di vita”, e come tale del tutto dissolubile.

Pertanto, avvalersi del parametro relativo al “tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” anche per la prima fase, ossia quella concernente l’an debeatur tenderebbe, a giudizio della Corte di Cassazione, a collidere proprio con la natura e la ratio dell’istituto del divorzio, comportando di fatto  “l’ultrattività” di un rapporto, quello matrimoniale, che, invece, proprio col divorzio si vuole far estinguere.

Dal dato letterale si invece in maniera chiara come il riferimento al preesistente rapporto matrimoniale debba riguardare unicamente la seconda fase, ossia quella relativa all’effettiva determinazione dell’assegno (quantum debeatur) a cui, come già precisato, si procede solo in caso di esito positivo di quella precedente, relativa al diritto all’assegno di divorzio.

Il riferimento al parametro del “tenore di vita” indurrebbe, quindi, ad una inammissibile ed indebita commistione tra le predette due fasi del giudizio e tra i relativi accertamenti.

Orbene, la Corte Suprema avendo abbandonato il riferimento al parametro del tenore di vita, ha ritenuto comunque necessario individuare un ulteriore criterio a cui ancorare il giudizio sull’ “adeguatezza-inadeguatezza” dei “mezzi” dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio e sulla “possibilità-impossibilità “per ragioni oggettive” dello stesso di procurarseli.

Tale parametro viene ravvisato nel raggiungimento dell’indipendenza economica del soggetto richiedente.

Applicando in via analogica la disciplina prevista dal codice civile in materia di mantenimento dei figli maggiorenni, ma non ancora economicamente autosufficienti (art. 337 septies I comma c.c.), ispirata al principio dell’autoresponsabilità economica, la Corte Suprema ha evidenziato come tale principio ben possa permeare e valere anche per l’istituto del divorzio.

Il Collegio pertanto individuato anche gli elementi da cui poter dedurre l’autosufficienza economica del soggetto richiedente l’assegno  e precisamente: ) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza (“dimora abituale”: art. 43 c.c. , comma 2) della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione.

A chiusura di tale percorso argomentativo vengono elaborati i seguenti principi di diritto “l giudice del divorzio, richiesto dell’assegno di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi e dell’ordine progressivo tra le stesse stabilito da tale norma:

  1. deve verificare, nella fase dell’an debeatur – informata al principio dell'”autoresponsabilità economica” di ciascuno degli ex coniugi quali “persone singole”, ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o no, del diritto all’assegno di divorzio fatto valere dall’ex coniuge richiedente -, se la domanda di quest’ultimo soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di “mezzi adeguati” o, comunque, impossibilità “di procurarseli per ragioni oggettive”), con esclusivo riferimento all'”indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso, desunta dai principali “indici” – salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie – del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione; ciò, sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dal richiedente medesimo, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge;

  2. deve “tener conto”, nella fase del quantum debeatur – informata al principio della “solidarietà economica” dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro in quanto “persona” economicamente più debole ( artt. 2 e 23 Cost. ), il cui oggetto è costituito esclusivamente dalla determinazione dell’assegno, ed alla quale può accedersi soltanto all’esito positivo della prima fase, conclusasi con il riconoscimento del diritto -, di tutti gli elementi indicati dalla norma (“(….) condizioni dei coniugi, (….) ragioni della decisione, (….) contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, (….) reddito di entrambi (….)”), e “valutare” “tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio”, al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno di divorzio; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova ( art. 2697 cod. civ.).”

La Corte di Cassazione, pertanto, con una sentenza dal contenuto epocale, destinata anche a determinare non pochi contrasti giurisprudenziali, e, forse, un necessario intervento della Sezioni Unite, rivoluziona il diritto di famiglia italiano, a partire già dalla terminologia utilizzata;  i giudici della prima sezione civile, a fondamento della loro decisione, evidenziano come il riconoscimento del diritto all’assegno divorzile venga effettuato al coniuge in quanto persona, considerato come singolo individuo, e non più come parte di un rapporto matrimoniale estinto, ormai, anche sul piano economico-patrimoniale. Pertanto, al fine di evitare locupletazioni illegittime, che potrebbero arrivare a protrarsi anche sine die, abbandonano il concetto di tenore di vita goduto in costanza di matrimonio per adottare il nuovo parametro “dell’autosufficienza economica” del coniuge richiedente, in ossequio al principio dell’autoresponsabilità economica, con una visione molto più coerente col dato letterale della norma e soprattutto con la natura definita da sempre “assistenziale” dell’assegno divorzile.


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