Autocertificazione COVID-19: quando le false dichiarazioni integrano i reati menzionati nel modulo

Autocertificazione COVID-19: quando le false dichiarazioni integrano i reati menzionati nel modulo

Una delle misure introdotte dal decreto legge n. 19/2020 (e, prima di questo, dal decreto legge n. 6/2020) al fine di contenere la pandemia in corso è quella che impone limitazioni alla libertà di circolazione dei cittadini. Nell’attuale momento d’emergenza, sono stati, infatti, consentiti spostamenti individuali limitati nel tempo e nello spazio, e motivati da esigenze lavorative, da situazioni di necessità o urgenza, da motivi di salute o da altre specifiche ragioni.

L’onere di allegare e dimostrare la sussistenza delle situazioni che consentono la possibilità di spostamento incombe, ovviamente, sull’interessato. Al riguardo, il Ministero dell’Interno, nella Direttiva n. 14606 dell’8 marzo 2020 diretta ai Prefetti, ha precisato che tale onere “potrà essere assolto producendo un’autodichiarazione ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, che potrà essere resa anche seduta stante attraverso la compilazione dei moduli appositamente predisposti in dotazione agli operatori delle Forze di polizia e della Forza pubblica”.

L’utilizzo dell’autocertificazione dovrebbe agevolare la procedura di controllo e l’onere probatorio per l’interessato, salve eventuali verifiche ex post circa la veridicità delle dichiarazioni rese nella medesima. Di conseguenza, eventuali falsità delle dichiarazioni rese al pubblico ufficiale in sede di controllo comporterebbero non solo l’integrazione dell’articolo 495 codice penale, ma anche il reato di cui agli articoli 76 D.P.R. n. 445/2000 e 483 codice penale, solitamente ravvisato dalla giurisprudenza in materia di autocertificazioni[1].

Con riferimento all’autocertificazione, occorre fare alcune precisazioni.

L’uso dell’autocertificazione per attestare le ragioni dello spostamento non è previsto da alcuna norma di legge o alcun atto amministrativo generale: si fonda, infatti, esclusivamente su un atto interno dell’Amministrazione, ossia la Direttiva del Ministero ai Prefetti, che, come tale, non produce alcun effetto nei confronti dei privati.

Le dichiarazioni circa le ragioni dello spostamento non potrebbero essere qualificate come dichiarazione sostitutiva di certificazione di cui all’articolo 46, D.P.R. n. 445/2000. Tale disposizione, infatti, consente al privato di comprovare con dichiarazioni sottoscritte dall’interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni, stati, qualità personali e fatti tassativamente indicati, i quali, in assenza di autocertificazione, sarebbero comunque rinvenibili in pubblici registri o già di dominio della pubblica amministrazione.

Stesso discorso varrebbe per la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà di cui all’articolo 47, D.P.R. n. 445/2000, concernente stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato, non potendosi parlare di atto di notorietà con riferimento alle ragioni dello spostamento dalla propria abitazione.

Per tali motivi, parte della dottrina ritiene che la dichiarazione resa agli agenti di pubblica sicurezza in ordine alle ragioni dell’allontanamento non possa essere qualificata in termini di autocertificazione rilevante ai sensi degli articoli 46 e 47, D.P.R. 445/2000. Conseguentemente, non potranno integrarsi i reati di cui agli articoli 76 e 483 codice penale. Le dichiarazioni raccolte nell’autocertificazione assumerebbero allora un mero valore di verbalizzazione delle dichiarazioni rese al p.u. circa il motivo dello spostamento.

Altra parte della dottrina, diversamente, ritiene che le dichiarazioni contenute nell’autocertificazione, sebbene non possano essere inquadrata all’interno dell’articolo 46, D.P.R. cit., potrebbero, al più, rientrare nell’alveo dell’articolo 47, D.P.R. 445/2000, il quale prevede, al comma 3, che “tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell’articolo 46 sono comprovati dall’interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà”.

Dunque, dalla lettura congiunta degli articoli 47 comma 3 e 76, D.P.R. cit., si potrebbe affermare la riconducibilità delle false dichiarazioni attestate nelle autocertificazioni nell’ambito applicativo dell’articolo 483 codice penale. Da un lato, infatti, l’articolo 47, in un’ottica di semplificazione amministrativa, consente al privato di sostituire certificati ufficiali con le proprie dichiarazioni, attribuendo ad esse efficacia probatoria. Dall’altro, l’articolo 76 prevede un generale divieto di dichiarare il falso nell’elaborazione dell’autodichiarazioni, rinviando, in caso di violazione, alle norme penali previste in materia di falso. Peraltro, in quest’ultimo articolo si precisa che «le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 […] sono considerate come fatte a pubblico ufficiale», integrando anche l’ultimo dei requisiti previsti dall’articolo 483 codice penale, ossia che le false dichiarazioni siano rese al pubblico ufficiale[2].

L’articolo 483 codice penale punisce con la pena della reclusione fino a due anni chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.

Innanzitutto, si rammenta che, per giurisprudenza consolidata, il reato di cui all’articolo 483 codice penale è escluso quando l’atto non provi la verità di fatti, attuali ed obiettivi, bensì includa manifestazioni di volontà, intendimenti o propositi futuri[3].

Inoltre, il reato di cui all’articolo 483 in esame presuppone che il privato abbia il dovere giuridico, previsto esplicitamente o implicitamente dalla legge, di dire la verità in ordine a un fatto in un atto pubblico che sia destinato a provare la verità delle dichiarazioni raccolte. Infatti, l’articolo in esame richiede, per la definizione del suo contenuto precettivo, il collegamento con una diversa norma, anche extrapenale, che conferisca valenza probatoria all’atto in cui viene inserita la falsa dichiarazione, determinando l’obbligo per il dichiarante di riferire il vero.

A questo punto, accertata l’astratta possibilità di configurazione del reato di falsità ideologica, occorre verificare quando, in concreto, il privato possa essere perseguito per le sue false dichiarazioni. Pertanto, occorrerà verificare se dietro le motivazioni addotte dal cittadino si celi un fatto, come la norma incriminatrice richiede espressamente, o una mera intenzione, come tale non punibile.

Nel primo caso, dovrà trattarsi di un fatto compiuto, suscettibile di essere riferito, attestato e, eventualmente, verificato ex post dalla polizia: nel caso in cui si dovesse riscontrare la non veridicità delle dichiarazioni, il soggetto potrà essere passibile di denuncia penale. Diversamente, ove si tratti di un fatto non ancora verificatosi, cioè una semplice intenzione, si incorrerebbe in uno dei divieti giurisprudenziali che non consente di ritenere configurata la fattispecie delittuosa.

Infine, ai sensi della Direttiva del Ministro dell’Interno del 8 marzo 2020, il pubblico ufficiale, nel caso in cui il privato fosse sfornito della dichiarazione sostitutiva, è abilitato a consegnargli il modulo all’atto del controllo e, previa compilazione dello stesso da parte del soggetto fermato, a controfirmarlo.

In tale ultima circostanza, ove le false dichiarazioni del privato confluiscano nel verbale del p.u., si dubita circa la punibilità del cittadino. La Corte di Cassazione ha, infatti, in casi simili, ritenuto non integrato il reato di cui all’articolo 483 codice penale, “posto che il verbale della polizia, contenente le dichiarazioni del privato, non è destinato ad attestare la verità dei fatti dichiarati ed il reato in questione è ravvisabile quando l’atto pubblico, nel quale sia trasfusa la dichiarazione del privato, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati”[4].

Quanto invece alla possibile configurazione del reato di cui all’articolo 495 codice penale, esso punisce con la pena della reclusione da uno a sei anni chi dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona.

Per identità devono intendersi il nome, il cognome, la data e il luogo di nascita, la paternità e la maternità; per stato si intendono invece cittadinanza, capacità di agire, stato libero o coniugale, parentela, affinità, patria potestà etc. Nel concetto di altre qualità rientrano indicazioni, cui l’ordinamento riconnette effetti giuridici, che concorrono a stabilire le condizioni della persona, ad individuare il soggetto e consentire la sua identificazione, quali la residenza e il domicilio, la professione, la dignità, il grado accademico, l’ufficio pubblico ricoperto, l’essere convivente, una precedente condanna e ogni attributo che serva ad integrare la individualità della persona[5].

Nel caso in cui un soggetto venga fermato per un controllo e dichiari o attesti il falso al pubblico ufficiale, rischia una denuncia per violazione dell’articolo 495 codice penale solo se l’oggetto del mendacio riguardi gli elementi innanzi citati. Per esempio, il reato sussisterà nel caso in cui il soggetto dichiari una falsa identità o un falso stato (riferendo falsamente di essere coniugato); diversamente, non sussisterà alcun reato nell’ipotesi in cui il soggetto dichiari falsamente di essere uscito per andare a trovare il proprio genitore malato, non corrispondendo ciò ad un’attestazione relativa a una qualità personale altrui.

Secondo una tesi di recente esposta, la falsità riguardante il non trovarsi posto in quarantena e il non essere positivo al virus rientrerebbe nelle maglie letterali dell’articolo 495 c.p., nello specifico nella nozione di “altre qualità”, prima analizzate[6].

Ovviamente, nei casi in cui fosse accertata la falsità delle dichiarazioni giustificative e queste non integrassero né il reato di cui all’articolo 495 c.p. né il reato di cui all’articolo 483 c.p., troverebbe comunque applicazione l’illecito amministrativo consistente nella violazione del divieto di spostamento senza giustificazione, con possibilità di considerare la condotta mendace tenuta dal soggetto nella commisurazione della sanzione amministrativa.

Ultimo profilo da analizzare riguarda la configurabilità del reato di cui all’articolo 483 codice penale in relazione al principio nemo tenetur se detegere: ci si chiede, nello specifico, se il privato abbia la possibilità di mentire al pubblico ufficiale per occultare la propria trasgressione delle misure di contenimento e risultare non punibile, così come è riconosciuto il diritto di mentire all’imputato.

Sul piano generale, la Suprema Corte attribuisce al diritto di mentire una natura ed una rilevanza prettamente processuale e non sostanziale[7], nel senso che la facoltà di taluno di rendere dichiarazioni mendaci all’Autorità trova applicazione solo dopo l’apertura di un formale procedimento penale a carico di costui e non può precedere tale momento. Peraltro, lo stesso diritto di mentire nel procedimento penale a proprio carico incontra forti limitazioni, come quella relativa al divieto di sconfinare nella calunnia, e non si qualifica pertanto in termini di assolutezza[8].

Con specifico riferimento ai reati di falso, la Corte di Cassazione pare assegnare posizione prioritaria all’esigenza di affidabilità e veridicità del documento in cui le dichiarazioni confluiscono, sulla cui verità viene riposto affidamento. Inoltre, si ritiene non applicabile il principio de quo al reato di cui all’articolo 495 codice penale, posto che, già a livello procedimentale, è escluso che l’imputato/indagato possa mentire sulle proprie generalità[9].

In attesa di una pronuncia della giurisprudenza di legittimità relativa allo specifico contesto emergenziale, si segnala che recentemente, il 16 novembre 2020, il Gip del Tribunale di Milano (dott. Crepaldi) si è pronunciato sulla possibilità di far rientrare nell’ambito di operatività del reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico – disciplinato dall’articolo 483 codice penale – l’ipotesi di falsità in autocertificazione, con riferimento alle attestazioni relative all’intenzione di recarsi presso un determinato luogo o di svolgere una determinata attività[10].

Nella sentenza il giudice, sebbene ritenga non ci siano dubbi circa la falsità dell’intenzione dichiarata dall’imputato nel modulo di autocertificazione, esclude che tale falsità integri la fattispecie di cui all’articolo 483 codice penale, in quanto la fattispecie de qua incrimina esclusivamente il privato che attesti al pubblico ufficiale “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”. Nell’escludere l’integrazione della fattispecie, il giudice ha infatti richiamato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui tra i fatti di cui può essere attestata la verità non possono essere ricomprese le mere manifestazioni di volontà, intenzioni o propositi.

A sostegno di tale assunto, il giudice elenca una serie di ragioni. Innanzitutto, dal punto di vista letterale, la nozione di fatto deve essere necessariamente ricondotta a qualcosa che è già accaduto, a differenza dell’intenzione la cui corrispondenza con la realtà è verificabile solo ex post. Dal punto di vista teleologico, la norma è finalizzata ad incriminare la dichiarazione falsa del privato al p.u. in relazione alla sua attitudine probatoria, attitudine che evidentemente non può essere riferita a qualcosa non ancora accaduta. Infine, in un’ottica sistematica, all’interno della normativa in tema di autocertificazione, i fatti sono indicati, quale oggetto di possibile dichiarazione probante del privato, insieme agli stati e alle qualità personale, ossia caratteristiche del soggetto già esistenti al momento della dichiarazione.

Pertanto, mentre l’affermazione nel modulo di autocertificazione da parte del privato di una situazione passata potrebbe integrare gli estremi del delitto di cui all’articolo 483 codice penale, la semplice attestazione della propria intenzione di recarsi presso un determinato luogo o di svolgere una determinata attività non rientra nell’ambito applicativo della norma, non potendo essere ricompresa tra i fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.

In conclusione, potrebbe essere integrato il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico solo se si mente sul luogo dal quale si proviene, ma non sulla destinazione.

 

 

 


[1] Ex plurimis: Cass. pen., Sez. V, Sentenza n. 3701 del 19/09/2018; Cass. Pen., Sez. V, Sentenza n. 30099 del 15/03/2018; Cass. Pen., Sez. V, Sentenza n. 15047 del 22/02/2012.
[2] La Corte di Cassazione, V Sez. Pen., con la sentenza n. 27739/2019 ha chiarito che l’autocertificazione falsa integra il reato di cui all’art. 483 c.p. sussistendo una chiara equiparazione, ai fini penali e della valenza pubblica dell’atto, tra le autocertificazioni o dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà consentite dal d.p.r. n. 445 del 2000 e gli atti con autenticazione esplicita da parte del pubblico ufficiale.
[3] Cass. Pen., Sez. V, sentenza del 3/12/1982, Pres. La Fortezza, in Cass. pen., 1984, p. 529; Cass. Pen., Sez. II, sentenza del 2/12/1982, Pres. Cortuso, ivi, 1984, p. 294; Cass. Pen., Sez. III, sentenza del 12/10/1982, Pres. Servino.
[4] Ex plurimis: Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 9195 del 19/01/2016, Rv. 266345; Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 39610 del 27/05/2011, Rv. 250835; Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 21402 del 5/02/2008, Rv. 240080.
[5] Per le tre distinzioni, si veda Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 19695 del 5/03/2019, Rv. 275920; Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 9195 del 4/03/2016; Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 1789 del 8/11/2011, Rv. 251713; Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 7462 del 19/04/1977; Cass. Pen., Sez. III, sentenza del 27/02/1967.
[6] A. NATALINI, Nuovo modello, delitto più grave di falsa attestazione, in Guida al Diritto, 2020, fasc. 1, pp. 14 ss. Tuttavia, non può rientrare nella nozione di “qualità” personale ogni connotato della persona cui l’ordinamento giuridico riconnette effetti giuridici, ma solo quello che abbia la capacità di individuare il soggetto nella comunità sociale. Pertanto, l’orientamento proposto è minoritario in quanto molti nutrono forti dubbi circa la possibilità che l’attributo di “soggetto non sottoposto a quarantena” o di “soggetto non positivo al virus” possa rientrare nell’ambito delle “altre qualità”. Peraltro, sebbene in una recente pronuncia di legittimità (Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 44111 del 26/09/2019, Rv. 277846) la Corte di Cassazione abbia affermato che “la tutela penale della fede pubblica — ancorché abbia sempre ad oggetto i connotati della persona che ne costituiscono l’identità o lo status — si estende anche ad altri connotati della persona, integrativi o sostitutivi che siano, se una particolare norma collega loro effetti giuridici e, quindi, se determinate situazioni di fatto che attengono alla persona costituiscano presupposti o condizioni di legittimazione nei rapporti intersoggettivi”, essendo la pronuncia in questione riferita alla qualità di “convivente”, si sottolinea il difficile inquadramento dell’attributo di “soggetto posto in quarantena” tra le qualità della persona.
[7] Cass. Pen., Sez. V sentenza n. 2379 del 1994: “In virtù dell’art. 60 c.p.p. la qualità di imputato si assume nel momento in cui a taluno viene attribuito un reato nella richiesta di rinvio a giudizio o in altri atti tassativamente indicati da tale norma. Pertanto, la persona nei cui confronti vengono svolte le indagini preliminari non è qualificabile come imputato”.
[8] Cass. Pen., Sez. II, sentenza n. 14761 del 19/12/2017, Rv. 272755.
[9] Cass. Pen., Sez V, sentenza n. 11369 del 1986: “Il diritto al silenzio di cui all’art. 78 co. 3 c.p.p. comprende il diritto dell’imputato di mentire, non essendo egli un soggetto di prova, ma è limitato sia dal divieto di dare false generalità in sede di identificazione personale, sia da norme relativa a delitti contro l’amministrazione della giustizia che vietano le false attestazioni suscettibili di fuorviare il giudice o gli organi tenuti a riferirgli, tanto da determinare il pericolo dell’instaurazione di un altro procedimento per fatto diverso, inesistente o a carico di persone incensurate; ne consegue che risponde del delitto di cui all’art. 495 c.p. l’imputato che, in sede di verbalizzazione della contravvenzione contestatagli, fornisca false generalità in ordine al nome, al luogo ed alla data di nascita, nonché al luogo di residenza”.
[10] Il procedimento riguardava in particolare la condotta di un imputato al quale veniva contestata la fattispecie di cui all’art. 76 D.P.R. 445/2000 in riferimento all’art. 483 c.p.: il soggetto, in sede di autodichiarazione resa ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. 445/2000 e consegnata ai Carabinieri nell’ambito di un controllo sul rispetto delle misure di contenimento COVID-19, aveva infatti riferito di recarsi presso un collega per ritirare dei pezzi di ricambio; circostanza rivelatasi poi non vera a seguito degli accertamenti effettuati dalla polizia giudiziaria.

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Elena Avenia

Nata ad Agrigento nel 1994. Laureata con pieni voti e lode nel luglio del 2018, presso l'Università degli studi di Enna Kore, con una tesi in diritto processuale penale dal titolo "L'ascolto del minore nel processo penale". Diplomata nel luglio 2020 presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli studi di Catania. Abilitata alla professione forense il 21 settembre 2020.

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