Avvocati e Società di capitali: quali sono le incompatibilità?

Avvocati e Società di capitali: quali sono le incompatibilità?

Sommario: 1. Differenza tra avvocato, abilitato al patrocinio, e praticante abilitato – 2. Avvocato e amministratore unico di società di capitali – 2.1 Avvocato e socio di società di capitali – 3. Conclusioni

 

1. Differenza tra avvocato, abilitato al patrocinio, e praticante abilitato

La professione forense, come gran parte di quelle che prevedono l’iscrizione a un albo, presenta alcune incompatibilità che ne precludono lo svolgimento in contemporanea con altre attività.

Tuttavia, data la complessità normativa, capita spesso che si verifichino situazioni nelle quali un avvocato, inconsapevolmente, si ritrovi in una condizione d’incompatibilità rispetto alla permanenza con l’iscrizione all’albo.

Dal punto di vista legislativo, l’analisi deve partire dalla lettura dell’articolo 18 della legge professionale forense, il quale al primo comma recita che “La professione di avvocato è incompatibile: a) con qualsiasi altra attività di lavoro autonomo svolta continuativamente o professionalmente, escluse quelle di carattere scientifico, letterario, artistico e culturale, e con l’esercizio dell’attività di notaio. È consentita l’iscrizione nell’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, nell’elenco dei pubblicisti e nel registro dei revisori contabili o nell’albo dei consulenti del lavoro”.[1]

Sul punto, anche l’articolo 6 del Codice deontologico forense, impone all’avvocato un dovere di evitare incompatibilità.[2]

Se da un lato viene riconosciuta la possibilità di svolgere attività di lavoro dipendente compatibilmente non solo alla permanenza dell’iscrizione, ma anche all’esercizio vero e proprio della professione (es. insegnante di Diritto ed Economia delle superiori, che contemporaneamente ha lo studio di Avvocato e svolge la professione), da un altro le limitazioni appaiono piuttosto stringenti.

Le medesime incompatibilità sono da considerarsi applicabili anche nei confronti degli avvocati provenienti da altri stati membri dell’Unione Europea, o nei confronti dei cosiddetti avvocati stabiliti. Come pronunciato dalla Cassazione della sezione lavoro, : “La disciplina prevista dalla L. 25/11/2003 n. 339, che sancisce l’incompatibilità tra impiego pubblico “part-time” ed esercizio della professione forense, non determina alcuna discriminazione “al contrario” tra gli avvocati italiani e quelli, invece, cittadini di Stati membri dell’Unione europea, “stabiliti” o “integrati”, dipendenti di corrispondenti istituzioni pubbliche degli Stati di appartenenza. Difatti, in base alla normativa nazionale di recepimento della direttiva intesa ad agevolare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello di acquisizione della qualifica professionale (art. 5, comma 2 del D.lgs 02/02/2001 n. 96, recante attuazione della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998 n. 1998/5/CE), è previsto espressamente che tutte le norme nazionali sulle incompatibilità si applichino anche all’avvocato “stabilito” o “integrato”.[3]

Tuttavia, sussistono delle considerevoli differenze sulla base del diverso   status del professionista operante nel settore giuridico.

A tal riguardo, è opportuno soffermarsi sulle varie distinzioni tra la disciplina normativa inerente alla professione dell’avvocato, dell’abilitato al patrocinio, e del praticante abilitato.

Si intende avvocato, con possibilità di spendere il titolo con la clientela, colui il quale, una volta superato l’esame di abilitazione alla professione, abbia posto in essere due azioni fondamentali: la prima, è quella di perfezionare l’iscrizione alla cassa forense, ente previdenziale tipico di chi svolge la professione di avvocato, da effettuare nella sede dell’ordine in cui si ha interesse a esercitare.

La seconda azione, invece, riguarda il giuramento, da prestare davanti al consiglio dell’ordine della medesima sede individuata sopra.

Una volta effettuato anche il giuramento, il professionista ha tutti i requisiti per potersi immettere sul mercato.

Diversamente, colui il quale abbia superato l’esame per l’abilitazione professionale, senza tuttavia essersi iscritto alla cassa forense, né aver prestato il giuramento innanzi all’ordine, non potrà spendere il titolo di avvocato con la clientela.

Potrà essere definito, infatti, come abilitato all’esercizio della professione.

La figura del praticante abilitato, invece, è stata profondamente modificata dalla legge n. 247/2012[4], che ne ha radicalmente mutato le modalità di esercizio.

Infatti, la vecchia normativa[5] prevedeva la possibilità, per il praticante che dopo un anno di tirocinio forense avesse prestato giuramento innanzi all’ordine degli avvocati dove stava svolgendo il praticantato, di patrocinare delle cause in proprio, pur con alcuni limiti ben definiti.

Ad esempio, per i giudizi civili i limiti riguardavano le cause da svolgersi innanzi al giudice di pace, e al tribunale monocratico, di valore non superiore a € 25.822,84;

– alle cause per azioni possessorie, salvo il disposto dell’art. 704 c.p.c. e, per le denunce di nuova opera e di danno temuto, salvo il disposto dell’art. 688 secondo comma c.p.c.;

– alle cause relative ai rapporti di locazione e di comodato di immobili urbani ed a quelle di affitto di azienda, in quanto non siano di competenza delle sezioni specializzate agrarie.

Per quanto concerne, invece, i limiti inerenti ai giudizi di natura penale, essi riguardavano:

– le cause per le quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, ovvero una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena detentiva;

– alle cause per i seguenti reati: violenza o minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 primo comma c.p.);

– resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.); oltraggio a un magistrato in udienza aggravato (art. 343 secondo comma c.p.); maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli (quando non ricorra l’aggravante previsto dall’art. 572 secondo comma c.p.); rissa aggravata (art. 588 secondo comma c.p., con esclusione delle ipotesi in cui nella rissa taluno sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni gravi o gravissime); omicidio colposo (art. 589 c.p.); violazione di domicilio aggravata (art. 614 quarto comma c.p.); furto aggravato (art. 625 c.p.); truffa aggravata (art. 640 secondo comma c.p.); ricettazione (art. 648 c.p.)[6] .

Appare di tutta evidenza come l’elencazione di cui sopra riguardi perlopiù contenziosi non particolarmente complessi per valore in ambito civile, e reati cosiddetti “bagatellari” nel penale, ovvero condotte che prevedono una pena più lieve.

Tuttavia, nonostante i limiti al praticante abilitato era concesso seguire cause in proprio.

Con la nuova normativa, la figura del praticante abilitato è stata profondamente ridimensionata.

Difatti, il praticante abilitato può patrocinare delle cause solo in sostituzione del proprio dominus, non più in nome proprio.

Fatti salvi, in ogni caso, i limiti per valore (nelle cause di civile), e per reati (nel penale).

Inoltre, come pure nella vecchia formulazione normativa, il praticante abilitato è soggetto alla stessa disciplina prevista per gli avvocati, anche e soprattutto in relazione alle incompatibilità, come si avrà modo di analizzare nel proseguo della trattazione.

2. Avvocato e amministratore unico di società di capitali

Prima di introdurre il suddetto paragrafo, al fine di comprendere meglio l’argomento di cui si tratta, è innanzitutto d’obbligo una doverosa premessa.

La presente trattazione non riguarda le società professionali di avvocati che, in seguito alle ultime modifiche normative, possono altresì essere costituite mediante le forme tipiche delle società di capitali (es. S.r.l.).

Il riferimento riguarda, invero, la compatibilità dell’esercizio della professione forense con il ruolo di Amministratore unico all’interno di società di capitali aventi diverso oggetto sociale (es. attività di consulenza e rappresentanza commerciale).

I riferimenti giurisprudenziali, pur non particolarmente frequenti sull’argomento, hanno tracciato una netta linea di confine.

Nel caso di specie la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14131/18 del 1.6.2018[7], ha ribadito che la carica di Amministratore unico di una Società di capitali è incompatibile con la permanenza dell’iscrizione all’albo forense.

Di conseguenza, l’avvocato che viene chiamato a ricoprire un incarico di Amministratore unico, e non ci voglia rinunciare, deve necessariamente sospendere la propria iscrizione all’albo, o provvedere alla cancellazione qualora non voglia più esercitare la professione.

La sanzione, in caso di esercizio in contemporanea delle due cariche, può essere della sospensione dall’esercizio della professione fino a 5 anni.

Nel caso in esame era stato condannato, dall’ordine degli Avvocati di Matera, un avvocato che esercitava la professione e, contemporaneamente, era divenuto Amministratore unico di una Società sportiva dilettantistica di pallavolo, costituita con la forma di una s.r.l.

Inizialmente era stato comminato il provvedimento della cancellazione dall’albo, successivamente impugnato innanzi al Consiglio Nazionale Forense che, con decisione n. 56/2017[8], aveva accolto parzialmente il ricorso e provveduto a rideterminare la sanzione, commutandola nella più lieve sospensione dall’albo per la durata di 3 anni.

L’avvocato istante aveva successivamente impugnato la sentenza presso la Suprema Corte di Cassazione, evidenziando plurimi motivi d’illegittimità.

Tuttavia, il Giudice di legittimità ha rigettato il ricorso.

Difatti, la Corte ha affermato che nonostante la carica di Amministratore unico in questione riguardasse una Società sportiva dilettantistica senza fini di lucro (anche se su questo aspetto il ricorrente non ha dimostrato tesi a proprio favore, e la forma societaria lascia intendere ben altre interpretazioni), sussiste l’incompatibilità con la professione forense in quanto l’anzidetta Società era stata costituita come una s.r.l.

Sia la normativa vigente, che la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, sono irremovibili.

L’esercizio della professione di avvocato, e la contemporanea attività di Amministratore unico di Società di capitali, sono attività assolutamente incompatibili.

La sanzione prevista, in caso di violazione, è quella della sospensione fino a 5 anni dall’esercizio della professione, laddove inizialmente poteva essere comminata anche la cancellazione.

Sul punto, è opportuno sottolineare che la normativa ha subito delle modifiche più favorevoli rispetto a quanto inizialmente previsto.

Difatti la sanzione è più mite, anche se certamente molto rigida.

Il medesimo regime normativo vige anche per le società di persone.

Giova quindi ribadire che la carica di Amministratore unico, sia che si tratti di società di capitali, che di persone, è incompatibile con il contemporaneo svolgimento della professione di avvocato.

2.1. Avvocato e socio di società di capitali

Una volta appurata l’incompatibilità tra la carica di Amministratore unico di società di capitali, e il contemporaneo esercizio della professione di avvocato, resta da capire se l’avvocato ha la possibilità di ricoprire comunque altri incarichi all’interno di una società avente le stesse caratteristiche.

Sicuramente l’avvocato non potrà svolgere un ruolo da lavoratore dipendente a contratto, come d’altronde stabilito dalla normativa di cui si è detto sopra, che sostanzialmente impedisce il contemporaneo esercizio della professione con qualsiasi attività di lavoro dipendente (salve alcune eccezioni).

In generale, la figura dell’avvocato libero professionista, ad eccezione dei legali interni alle aziende (che presentano delle iscrizioni ad albi particolari), non è ritenuta compatibile con il lavoro dipendente.

Difatti, è il vincolo di subordinazione che risulta non conforme alla figura del professionista del diritto.

Tuttavia, nessuna normativa vieta all’avvocato di avere delle quote societarie all’interno di una società di capitali.

Anche la consolidata giurisprudenza della Cassazione, conferma quanto sancito dalla normativa.[9]

In particolare : “l’incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato con impieghi privati retribuiti, anche se consistenti nella prestazione di assistenza o consulenza legale (che non abbia carattere scientifico o letterario), si riferisce alle attività svolte in regime di subordinazione. Tale incompatibilità, pertanto, non è ravvisabile in relazione alla opera di assistenza e consulenza legale, che venga espletata da un avvocato in qualità di socio di una cooperativa di produzione e lavoro, qualora difetti il presupposto per la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato coesistente con il rapporto sociale e cioè, qualora si tratti di prestazioni che, indipendentemente dalla coincidenza con gli scopi sociali, si inseriscano nella comune attività economica, restando così inquadrabili, nell’ambito del rapporto societario, fra gli apporti occorrenti alla realizzazione della causa sociale”.[10]

Allo stesso modo anche il Consiglio Nazionale Forense : “il professionista che svolga, presso una cooperativa di cui è socio, attività lavorativa non inquadrabile nel rapporto di impiego (che si qualifica essenzialmente per il vincolo di subordinazione), ha diritto di ottenere l’iscrizione all’Albo degli avvocati, non sussistendo nella fattispecie cause di incompatibilità rilevanti”.[11]

Pertanto, mentre è da escludere che un avvocato possa contemporaneamente ricoprire l’incarico di amministratore unico di una società di capitali, e altresì di una società di persone, non vi è alcun divieto relativamente alla possibilità di essere socio di una società di capitali.

Il contemporaneo esercizio della professione, tuttavia, impedisce di essere socio di una società di persone.

3. Conclusioni

Sia la normativa di riferimento, che la giurisprudenza della Cassazione, sono conformi nel ritenere che l’esercizio della professione di avvocato, e la contemporanea carica di amministratore di società di capitali, siano attività incompatibili.

Allo stesso modo, relativamente invece alle società di persone, è vietato il contemporaneo esercizio della professione forense con la carica di amministratore, o socio.

Risulta invece consentito il contemporaneo esercizio della professione, con la qualità di socio di una società di capitali.

In generale, la figura dell’avvocato è incompatibile con ogni tipo di attività lavorativa dipendente, in quanto il vincolo di subordinazione risulta contrario alla libera professione forense.

Restano tuttavia delle eccezioni, riscontrabili in coloro i quali, pur esercitando la professione forense, ricoprano incarichi relativi ad attività di carattere scientifico, letterario, artistico e culturale.

Giova ribadire che esistono anche condizioni particolari in cui il giurista svolge incarichi di lavoro dipendente quali, ad esempio, i legali interni alle aziende, o i giuristi d’impresa.

Occorre fare una precisazione in merito alle due figure.

I legali interni sono spesso avvocati (non necessariamente), iscritti in albi particolari, per i quali è quindi consentito il vincolo di subordinazione con l’ente per il quale lavorano (es. legali interni azienda Enel).

Hanno quindi un contratto di lavoro dipendente con vari inquadramenti a seconda dell’esperienza maturata (es. quadro, dirigente).

Il giurista d’impresa pur potendo essere abilitato all’esercizio della professione, non può contemporaneamente essere iscritto all’albo forense, né negli altri elenchi speciali.[12]

Il Consiglio Nazionale Forense ha infatti ribadito che giurista d’impresa e avvocato sono figure professionali distinte, in quanto è la stessa legge professionale forense ad inquadrarle e disciplinarle diversamente.[13]

In conclusione, è opportuno sottolineare che la stessa disciplina delle incompatibilità è applicabile anche nei confronti dei praticanti abilitati.

Non è invece ravvisabile alcuna incompatibilità tra la figura del praticante semplice (non abilitato al patrocinio in sostituzione del dominus), e il contestuale esercizio di attività lavorativa dipendente.

Come sancito dall’art. 2 del Regolamento recante la disciplina per lo svolgimento del tirocinio per l’accesso alla professione forense[14], derubricato ‘Tirocinio contestuale a rapporto di lavoro’, “Qualora il tirocinio venga svolto contestualmente ad attività di lavoro subordinato pubblico o privato, il praticante deve informarne il consiglio dell’ordine, indicando anche gli orari e le modalità di svolgimento del lavoro”.

Nello specifico, qualora il praticante svolga attività di lavoro subordinato (pubblico o privato) dovrà darne immediata comunicazione all’ordine nel quale svolge la pratica, che avrà il compito di verificare se l’attività lavorativa impedisca la corretta prosecuzione del praticantato.

Per prassi si ritiene svolto correttamente, e in maniera continuativa, il praticantato che si protrae per 18 mesi consecutivi, con attività nello studio di riferimento che non deve essere inferiore alle 20 ore settimanali, e previa presenza alle udienze, per un numero non inferiore alle 20 ogni semestre.

In conseguenza di ciò, il praticante che riesca a svolgere il tirocinio per almeno 20 ore settimanali, comprese le 20 udienze a semestre, e contestualmente svolga attività di lavoro subordinato, non incorre in alcuna incompatibilità, in quanto il vincolo di subordinazione lavorativo è consentito dalla predetta normativa.

Resta sempre compatibile anche l’attività di chi, abilitato all’esercizio della professione, ma senza giuramento e iscrizione alla cassa, ponga in essere attività di lavoro subordinato, anche contestuale ad attività di consulenza a partita iva, mediante contribuzione Inps.

L’esempio lampante è dato da coloro i quali presentano l’iscrizione alla gestione separata Inps, che consente di effettuare attività di consulenza senza obbligo di partecipazione a un albo professionale.

Difatti, gli iscritti alla gestione separata, sono anche definiti professionisti senza cassa.

 

 

 

 

 


[1] Art. 18, L. 31/12/2012, n. 247
[2] Art. 6, CNF 31/01/2014, n. 241
[3] Cass. Civ., sez. Lavoro, sent. N. 9660, 13/04/2021
[4] Art. 41, Legge n. 247/2012
[5] Regio Decreto Legge n. 1578/1933
[6] “Praticante avvocato: l’abilitazione al patrocinio, tra vecchia e nuova normativa”, Diritto.it
[7] Cass. S.U., sent. n. 14131/2018, del 1.6.2018
[8] C.N.F., decisione n. 56/2017
[9] BolognaForense, “Compatibilità iscrizione all’albo e qualità di socio in s.r.l. con oggetto sociale consulenza ad enti pubblici-Verbale delibera del 26/04/2017”
[10] Cass. Sez. 1, sent. n. 11151, 12/11/1997
[11] CNF, sent. n. 45, 19/04/1991
[12] Altalex, Avv. Irene Marconi, “Giurista d’impresa non è avvocato: no all’iscrizione all’albo forense e negli elenchi speciali”
[13] CNF, sent. n. 161, 26/08/2020
[14] Art. 2, Decreto n. 70, 17/03/2016

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