Bancarotta pre-fallimentare: la controversa qualificazione giuridica della declaratoria di fallimento

Bancarotta pre-fallimentare: la controversa qualificazione giuridica della declaratoria di fallimento

Quello della natura della sentenza dichiarativa di fallimento nei reati di bancarotta è uno dei temi più controversi in ambito societario, presentando a tutt’oggi una ineliminabile complessità.

I poli attorno cui si articola il dibattito interpretativo tra dottrina e giurisprudenza sono essenzialmente rappresentati dalla ricostruzione del provvedimento giurisdizionale come elemento costitutivo del reato oppure come condizione obiettiva di punibilità.

Se da un lato, nessun problema si pone per le fattispecie di bancarotta post fallimentare (art. 216, co.2, Lg. Fall. n. 267/1942), nelle quali la condotta tipica si realizza successivamente alla dichiarazione di fallimento e la declaratoria, oltre a fungere da presupposto del reato, segna il termine iniziale di rilevanza penale delle condotte offensive; ad esiti non così immediati si giunge nei casi di bancarotta prefallimentare, ossia quelle ipotesi in cui la condotta dell’agente, volta alla distrazione o all’occultamento dei beni dell’impresa, sia stata realizzata in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento (art. 216, co. 1, e 217 Lg. Fall. n. 267/1942).

Accantonato un primo orientamento minoritario che qualificava la bancarotta come reato proprio e, di conseguenza, la dichiarazione di fallimento come elemento costitutivo della qualifica soggettiva di fallito[1], la dottrina prevalente ricomprende la declaratoria di fallimento nel novero delle condizioni obiettive di punibilità estrinseche.

Il fallimento sarebbe, dunque, un fatto determinato da un terzo (i.e. il giudice) che null’altro aggiunge alla portata lesiva dei fatti posti in essere dall’agente, limitandosi a rivelare successivamente una offesa già realizzata[2].

Questa tesi troverebbe conferma non solo nella relazione governativa a corredo della legge fallimentare, ma altresì nella disciplina processuale degli artt. 2, 3 e 479 c.p.p.[3], la quale, non obbligando più il giudice alla sospensione del processo penale in attesa della definizione di quello civile[4], sottolinea il ruolo meramente formale della dichiarazione di fallimento (poiché non più vincolante ai fini del giudizio penale), che si inserirebbe come un “sovrappiù” nel reato di bancarotta prefallimentare.

Di diverso avviso, appare la giurisprudenza della Suprema Corte, la quale, prendendo le mosse dalla risalente pronuncia a Sezioni Unite n. 2/1958, qualifica la sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo del reato.

Alla base di tale qualificazione vi è la convinzione che l’apertura della procedura concorsuale giochi un ruolo essenziale nell’individuazione del nucleo di disvalore sotteso alla fattispecie criminosa, tanto che gli atti di disposizione o i comportamenti, attivi o omissivi compiuti dall’imprenditore risulterebbero – al di fuori delle procedure concorsuali – privi di ogni rilievo penale, poiché libera espressione del diritto di gestire l’impresa nel modo a lui più congeniale[5].

Al contempo, la Cassazione esclude che la dichiarazione di fallimento debba necessariamente ricollegarsi causalmente e psicologicamente al soggetto agente, “in quanto, in caso di fallimento, ogni atto distrattivo viene ad assumere rilevanza ai sensi dell’art. 216 Lg. Fall. indipendentemente dalla rappresentazione di questi da parte del fallito”[6]. Pertanto, è irrilevante che nell’agente manchi la consapevolezza di poter fallire[7].

Segnando una parziale rottura rispetto all’orientamento tradizionale, con sentenza n. 47502/2012, la giurisprudenza di legittimità tornava sul punto e, ribadita ancora una volta la natura di elemento costitutivo del reato dello stato di insolvenza e della dichiarazione di fallimento, sottolineava la necessità in relazione a quest’ultima di un rigoroso accertamento causale e psicologico (conformemente a quanto statuito dagli artt. 40 e 43 c.p.). Infatti, logico corollario della qualificazione della sentenza di fallimento come elemento costitutivo è una lettura della bancarotta come reato di evento. In particolare, lo stato di insolvenza deve essere dall’agente preveduto e voluto, quantomeno a titolo di dolo eventuale. Il soggetto deve, dunque, prefigurarsi che il suo comportamento depauperativo porterà verosimilmente al dissesto ed accettare tale rischio[8].

Si osserva criticamente, infatti, come risulti assolutamente censurabile l’idea di un elemento costitutivo del reato che non soggiace alle regole della causalità e dell’imputazione psicologica, la quale genera non soltanto un evidente contrasto con il principio della colpevolezza ma anche evidenti incongruenze sotto il profilo sanzionatorio[9].

Per quanto condivisibile, tuttavia, tale posizione non ha incontrato i favori della giurisprudenza successiva: infatti, con la sentenza n. 733/2012, prima, e la n. 15613/2014 (caso Parmalat), dopo, i giudici di legittimità tornarono ad aderire all’orientamento tralatizio del 1958.

Sulla scorta di quest’ultimo, la dichiarazione di fallimento, non costituendo evento del reato, non necessiterebbe di alcuna riconduzione alla volontà o al dominio fisico dell’agente, risultando irrilevante il relativo accertamento[10].

In particolare, la punibilità della condotta del fallito non sarebbe subordinata alla condizione che la distrazione sia stata causa del crac finanziario in quanto una volta intervenuta la declaratoria di fallimento, questi fatti assumono rilevanza penale in qualsiasi tempo siano stati commessi e, quindi, anche quando l’impresa non versava ancora in condizioni di insolvenza. Né è rilevante, trattandosi di reato di pericolo (ossia reati in cui le condotte determinano una mera esposizione a pericolo di lesione del bene), che al momento della consumazione, l’agente non avesse consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, per non essersi lo stesso ancora manifestato[11].

Attraverso l’art. 216, co.1, dunque, l’ordinamento mira a punire quelle condotte che attentano all’integrità della garanzia patrimoniale dei creditori, indipendentemente dal fatto che questi incidano causalmente o meno sulla determinazione del fallimento[12].

“Il disvalore delle condotte tipizzate deve essere, pertanto, ricostruito in ragione dell’oggetto della tutela penale del diritto di credito, che non è il mero inadempimento, bensì la responsabilità patrimoniale del debitore. Proprio per tale ragione, quindi, il fallimento non determina in maniera autonoma l’offesa, ma si limita a renderla attuale e meritevole di pena”[13].

Di conseguenza, né la sentenza di fallimento, né il dissesto costituiscono l’evento del reato di bancarotta patrimoniale e, pertanto, non necessitano di essere ricoperte dal dolo[14].

A sostegno di tale tesi, si rileva quanto segue: primum, quando il legislatore intende assegnare ad un dato accadimento valenza di evento del reato, di norma lo fa ricorrendo a formule lessicali che esplicitamente rievocano il rapporto causale – quali “causare”, “cagionare”, “determinare” – come nel caso dell’art. 223, co.2. Lg. Fall. (“si applica alle persone suddette la pena prevista dal co. 1 dell’art. 216 se hanno cagionato, o concorso a cagionare il dissesto della società…”); deinde, si evidenzia che nella struttura dei reati di bancarotta la dichiarazione di fallimento assume rilevanza in quanto provvedimento giurisdizionale, il che la rende insindacabile in sede penale ma reca la conseguenza per cui l’elemento costitutivo della fattispecie criminosa non risiede nei presupposti di fatto (fra cui lo stato d’insolvenza) accertati dal giudice fallimentare[15].

In ultimo, l’orientamento in esame supera agevolmente l’ostacolo rappresentato dalla stridente anomalia della previsione di un elemento costitutivo del reato non soggetto ad una imputazione psicologica, eccependo che nulla impedisce al legislatore di individuare diverse tipologie di reato, attribuendo alle stesse una struttura del tutto peculiare[16], purché non violi una norma di rango costituzionale e che tale lettura era stata avallata dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 110/1972[17].

Dissentendo apertamente dalle argomentazioni della pronuncia Corvetta (n. 47502/2012), la fattispecie prevista dall’art. 216 Lg. Fall. viene, dunque, qualificata come reato di condotta e di pericolo e non di danno, giacchè il fallimento non costituisce oggetto di rimprovero e non consegue necessariamente alla consumazione delle condotte incriminate, le quali vengono punite per il solo fatto di aver esposto a pericolo l’integrità della garanzia patrimoniale poste a tutela del creditore (del cui esito, infatti, la norma incriminatrice si disinteressa)[18].

Tali pronunce rappresentano l’ubi consistam, da cui muove la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione per ribadire – all’udienza dell’8 febbraio 2017 – la natura di condizione obiettiva di punibilità della declaratoria di fallimento.

Da ciò consegue che, sia per quanto attiene al termine di prescrizione che alla competenza territoriale, dovrà farsi riferimento – rispettivamente – al giorno e al luogo in cui la condizione (i.e. la sentenza dichiarativa di fallimento) si è verificata.


[1] A. Pagliaro, Il diritto penale fra norma e società. Scritti 1956-2008, III, Milano, 2009, 39 ss.

[2] C. Pedrazzi, Reati fallimentari, in Manuale di diritto penale dell’impresa, II, a cura di C. Pedrazzi, A. Alessandri, L. Foffani, S. Seminara e G. Spagnolo, Bologna 2003, 1148.

[3] In particolare, l’art. 479 c.p.p. “Fermo quanto previsto dall’art. 3, qualora la decisione sull’esistenza del reato dipenda dalla risoluzione di una controversia civile o amministrativa di particolare complessità, per la quale sia già in corso un procedimento presso il giudice competente, il giudice penale .. omissis .. può disporre la sospensione del dibattimento …”.

[4] Cass. Pen., Sez. V, n. 8607/2012.

[5] Cass. Pen., Sez. V, n. 660/1973.

[6] Cass. Pen., Sez. V, n. 44933/2011.

[7] Cass. Pen., Sez. V, 26/6/1990; Cass. Pen., Sez. V, 27/4/2001; Cass. Pen., Sez. V, n. 3782/2002.

[8] G. Di Biase, Il ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento nei reati di bancarotta, in http://www.neldiritto.it, aprile 2016. Sul punto, Cass. Pen., Sez. V, n. 14905/1977; Cass. Pen., Sez. V, n. 7178/1983; Cass. Pen., Sez. V, n. 5919/1980; Cass. Pen., Sez. V, n. 16579/2010.

[9] A. Parialò, La controversa natura della dichiarazione di fallimento nei reati di bancarotta. Spunti di riflessione alla luce delle più recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità, in http:://www.lalegislazionepenale.eu, 6 giugno 2016, 10.

[10] A. Parialò, cit., 13.

[11] Cass. Pen., Sez. V, n. 733/2012.

[12] Cass. Pen., Sez. V, n. 15613/2014.

[13] Cass. Pen., Sez. V, n. 15613/2014.

[14] Cass. Pen., Sez. V, n. 15613/2014.

[15] G. Di Biase, cit.

[16] Cass. Pen., Sez. V, n. 47502/2012.

[17] G. Di Biase, cit.

[18] Cass. Pen., Sez. V, n. 15613/2014.


Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News

Articoli inerenti