Breve focus sull’istituto del Trust

Breve focus sull’istituto del Trust

Si riporta di seguito una scheda riassuntiva relativa all’istituto del Trust, con riferimento agli elementi costitutivi, alla funzione, alla natura giuridica, alla disciplina applicabile, nonché alle differenze dalle figure affini. Infine verrà dato conto degli ultimi “rumours” in tema di regolamentazione del Trust in Italia.

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Il trust, istituto tipico della tradizione giuridica anglosassone di common law, si sostanzia in un rapporto giuridico, basato sulla fiducia, in base al quale il disponente, di norma, trasferisce, per atto inter vivos o mortis causa, taluni beni o diritti a favore dell’amministratore – trustee – il quale li amministra, con i diritti ed i doveri di un vero proprietario, nell’interesse del beneficiario (trust con beneficiario), o per uno scopo o un fine prestabilito, purchè lecito e non contrario all’ordine pubblico (trust di scopo).

Soggetti:  sono soggetti del trust:

  • settlor o disponente, colui che trasferisce i propri beni e/o diritti al trustee;

  • trustee o amministratore, colui che riceve i suddetti beni e/o diritti dal disponente ed ha il diritto/dovere di gestirli, secondo le indicazioni dell’atto istitutivo e dello stesso disponente, con la massima diligenza. Il trustee può essere una persona fisica o una persona giuridica (Trust Company), vale a dire una società che abbia quale oggetto sociale l’assistenza ai clienti nella istituzione e successiva gestione dei beni costituiti in trust;

  • beneficiario, che può essere “beneficiario di reddito” e godere delle utilità dei beni in trust oppure “beneficiario finale” dei beni che gli verranno devoluti al termine del trust

  • protector o guardiano (eventuale) che ha la funzione di vigilare sull’operato del trustee, per assicurarne il regolare svolgimento; può essere titolare di poteri straordinari di sostituzione del trustee.

Di solito, disponente e trustee sono soggetti distinti, ma possono anche coincidere; in tal caso si parla di trust autodichiarato, per effetto del quale il disponente non perde, irreversibilmente, la disponibilità dei propri beni.

Forma: l’art. 3 della L.364/89 prevede espressamente la forma scritta ad probationem, ma la prassi presenta, nella stragrande maggioranza dei casi, la forma dell’atto pubblico notarile.

Oggetto: beni immobili, mobili, mobili registrati, titoli di credito, somme di danaro, aziende, partecipazioni societarie ecc …..

Funzione: la funzione tipica del trust è quella di realizzare la segregazione dei beni costituiti in trust per effetto della quale tali beni formano una massa distinta dal patrimonio personale del disponente e del trustee, sottratta alle azioni dei creditori personali degli stessi soggetti. Lo schema in cui si sostanzia il trust ne consente l’utilizzo per il perseguimento delle finalità più diverse:

  • protezione dei beni: il trust viene spesso istituito per creare una “blindatura patrimoniale”, per separare e proteggere il proprio patrimonio o per tutelare tutti quei soggetti il cui patrimonio può essere compromesso da attività professionali rischiose (medici, avvocati ecc.);

  • tutela dei minori e dei soggetti diversamente abili: per garantire un godimento limitato dei beni ai minori fino al raggiungimento della maggiore età, ovvero per garantire il godimento dei beni ai soggetti diversamente abili, senza esserne pieni proprietari;

  • tutela del patrimonio per finalità successorie: di frequente, il trust viene istituito allo scopo di tutelare un patrimonio nel passaggio generazionale o dallo sperpero ad opera di soggetti incapaci di amministrarlo, dediti al gioco o affetti da eccessiva prodigalità;

  • tutela del patrimonio societario: quale mezzo per separare il destino dei beni propri e della propria famiglia da quello dell’impresa, come strumento di gestione della delicata fase di successione generazionale ecc.;

  • forme di investimenti e pensionistiche: i piani di investimento pensionistici ed i fondi comuni sono derivazione dei trust fund

  • Molte altre ancora: il trust, infatti, per le sue caratteristiche, è idoneo a realizzare una molteplicità di scopi che non è possibile enucleare. Esso è paragonabile ad “un abito di alta sartoria che deve essere cucito su misura”, a seconda degli obiettivi che si intende realizzare nel singolo caso specifico.

Natura giuridica: in assenza di una normativa che ne detti la disciplina specifica, il trust rappresenta un negozio giuridico atipico, basato sulla fiducia, diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, ai sensi dell’art. 1322 c.c.. Quanto alla natura giuridica, vi è chi sostiene la natura contrattuale e chi, invece, sostiene la natura negoziale unilaterale. Sembrerebbe deporre a favore della natura contrattuale, la considerazione che l’intestazione dei beni al trustee, implicando l’assoggettamento di quest’ultimo all’obbligo periodico di rendiconto, esige il suo consenso, ma la tesi maggioritaria è nel senso del negozio unilaterale.

Disciplina: in attesa di una disciplina interna, il trust, attualmente, è sottoposto alla disciplina prevista dalla legge regolatrice che si deciderà di adottare all’atto di costituzione dello stesso, nonché alle disposizioni della Convenzione dell’Aja, aventi carattere di norme di diritto sostanziale uniforme, quali quelle previste dagli artt. 2 e 11, co. 2 della stessa Convenzione.

L’art. 2 indica in tre punti le caratteristiche essenziali del trust:

  • effetto segregativo per il quale i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee;

  • intestazione dei beni al trustee o ad una altro soggetto per conto del trustee;

  • dovere/obbligo del trustee di gestire, amministrare e disporre dei beni, con l’obbligo di rendiconto, in conformità delle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge.

L’art. 11 , co. 2 disciplina gli effetti minimi che, in modo uniforme, deve produrre il riconoscimento del trust in ognuno degli Stati contraenti. Tali effetti consistono nell’obbligo di riconoscere la segregazione dei beni costituiti in trust, rispetto alla residua parte del patrimonio del settlor e agli altri beni del trustee. La Convenzione, inoltre, detta una serie di norme di salvaguardia (art.. 15, co. 1, 16 e 18) per le quali il trust non può in alcun modo:

  • ledere la legittima ed, in generale, tutte le norme in materia di successione necessaria;

  • violare le norme imperative che regolano le garanzie reali e il trasferimento di proprietà;

  • essere esente da azione revocatoria, ordinaria e/o fallimentare, qualora ne ricorrano i presupposti;

  • contenere disposizioni che risultino manifestamente incompatibili con l’ordine pubblico del Paese in cui si vuole procedere al riconoscimento.

Durata: la durata del trust deve essere limitata. In tal senso l’art. 8 lett. f) della Convenzione dell’Aja indica espressamente nella restrizione del termine di durata uno degli elementi che la legge scelta dal costituente deve obbligatoriamente regolamentare, affinché il trust possa essere validamente riconosciuto.

Distinzione da figure affini:

1. Patto successorio: il trust non può in alcun modo essere assimilato ad un patto successorio, difettando l’elemento del rapporto bilaterale tra costituente e beneficiario; inoltre, a differenza di quanto accade in seguito ad una convenzione che violi il divieto di cui all’art. 458 c.c., ove il trasferimento della proprietà del bene avviene, in ogni caso, dopo la morte del testatore, nel trust tale trasferimento avviene immediatamente, mentre il disponente è ancora in vita;

2. Mandato fiduciario: si dice che il trust sia l’equivalente anglosassone del mandato fiduciario di diritto interno, ma le differenze sono molto profonde. Nel mandato fiduciario, infatti, la proprietà dei beni appartiene soltanto formalmente al fiduciario che si obbliga ad obbedire a tutte le disposizioni del fiduciante, ivi compreso l’eventuale ordine di restituzione degli stessi beni. Nel trust, invece, il trustee è pieno proprietario “legale” del bene costituito in trust, “vincolato nell’esercizio del proprio diritto” dalle disposizioni contenute nell’atto di trust da esercitare nell’interesse del beneficiario o per il perseguimento dello scopo specifico. Il trustee può alienare, permutare, locare, dare a garanzia i beni in trust (alle condizioni del disponente e se ciò è funzionale allo scopo da perseguire). La piena proprietà del trustee giustifica l’uso di tale strumento per la protezione e la pianificazione successoria. A fronte della protezione del bene in trust, vi è la compressione del diritto di proprietà subita per effetto dell’apposizione di un vincolo a tutela di interessi riconosciuti legittimi;

3. Fondo patrimoniale (art. 167 c.c.): definito come il più tradizionale esempio di patrimonio separato, costituito dai genitori o da un terzo per soddisfare i bisogni della famiglia, il fondo patrimoniale trova limiti a una sua più larga diffusione a causa della rigidità della sua struttura e dei relativi presupposti, per superare i quali una valida alternativa potrebbe essere rappresentata proprio dal trust. Il fondo patrimoniale può essere istituito soltanto nell’ambito della famiglia, intesa nel senso tradizionale di famiglia legittima, potendo lo stesso essere costituito unicamente da persone coniugate; pertanto rimangono estranee a tale tutela le famiglie di fatto, o ancora le esigenze di una persona non coniugata che voglia provvedere ai bisogni presenti e futuri della propria famiglia di origine. Quanto all’oggetto poi, nel trust possono essere conferiti anche beni diversi da quelli di cui all’art. 167 c.c. (beni immobili, mobili, mobili registrati, titoli di credito nominativi), quali, ad esempio, quote societarie, strumenti finanziari diversi dai titoli di credito e altri beni. In tema di durata, inoltre, il trust, a differenza del fondo patrimoniale, che viene meno, ex lege (art. 171 c.c.) in caso di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché, in presenza di figli, al momento del raggiungimento della maggiore età dell’ultimo figlio, è insensibile alle vicende del legame famigliare. Pertanto, in assenza di specifiche clausole che dispongono il venir meno degli effetti del trust allo scioglimento del vincolo coniugale, esso può continuare ad esistere fino a che appare opportuno;

4. Amministrazione di sostegno: la nuova disciplina sull’amministrazione di sostegno – per quanto elastica e semplificata rispetto ai tradizionali strumenti della interdizione e della inabilitazione – presenta, rispetto al trust, aspetti di burocratizzazione in quanto comporta pur sempre il ricorso ad una procedura pubblica che può non sempre essere gradita. Il carattere “privato” e fiduciario del trust consente una cura e gestione degli interessi del soggetto debole che potrebbero essere regolamentati sia dal punto di vista economico che da quello relazionale e umano (si pensi alla possibilità di disciplinare, sia con l’atto istitutivo che con le lettere dei desideri – letters of wishes – le abitudini e le necessità quotidiane della persona con disabilità). Grazie all’effetto tipico collegato al trust, la segregazione patrimoniale, si eviterebbe qualsiasi commistione tra i beni personali del gestore ed i beni a lui affidati nell’interesse del soggetto debole. Con il trust, inoltre, è possibile disciplinare più situazioni giuridiche bisognose di regolamentazione (ad es. con l’atto istitutivo si potrebbe designare beneficiario del reddito del trust il soggetto incapace e beneficiari del capitale finale altri soggetti, quali gli altri eredi legittimi);

5. Sostituzione fedecommissaria ( artt. 692-699 c.c.): la sostituzione fedecommissaria, a differenza del trust, può essere attivata da una limitata categoria di soggetti (genitori, ascendenti e coniuge), nei confronti di una circoscritta categoria di soggetti (interdetti, ovvero minori di età che si trovino in uno stato di abituale infermità di mente tale da presumere la pronuncia di interdizione). Nel trust, inoltre non si realizza la doppia istituzione tipica della sostituzione fedecommissaria, per effetto della quale i genitori istituiscono erede l’incapace con la previsione che i beni ereditari siano conservati per essere attribuiti, alla morte di quest’ultimo, alla persona o all’ente che ne ha avuto cura. Infatti nel trust i beni sono del trustee che non è istituito erede. Il fedecommesso, poi, non consente di dar luogo a quella segregazione patrimoniale che può, assai efficacemente, salvaguardare le ragioni di un soggetto debole; ciò in quanto, la separazione patrimoniale delineata dall’art. 695 c.c. (per il quale i creditori personali dell’istituito possono agire soltanto sui frutti dei beni che formano oggetto della sostituzione) non presenta quel rilievo bilaterale che presenta nel trust, atteso che i beni fedecommessi e i loro frutti sono pur sempre aggredibili dai creditori personali del de cuius;

6. Patrimoni destinati ad uno specifico affare (artt. 2447 bis – decies c.c.): istituto introdotto dalla riforma societaria (D. Lgs. 6/2003 e D. Lgs. 37/2004) in forza del quale la società può destinare determinati beni, anche immobili o mobili registrati, o una determinata parte del capitale (che non può essere superiore al 10% del patrimonio netto della società), in via esclusiva, ad uno specifico affare, nonché stipulare un contratto di finanziamento finalizzato ad un solo affare. L’effetto che ne consegue è la creazione di un patrimonio “autonomo” che cessa di costituire oggetto della garanzia generica dei creditori della società per divenire esclusivamente oggetto della garanzia patrimoniale dei creditori delle obbligazioni poste in essere per intraprendere e realizzare l’affare. Esso presenta un’analogia strutturale con il trust “autodichiarato” caratterizzato dalla coincidenza tra disponente e trustee. Nel trust “autodichiarato”, come nel patrimonio “destinato”, non c’è alcun atto di trasferimento, poiché nel primo, il disponente diviene trustee in forza di una sua dichiarazione unilaterale, nel secondo, la società stacca uno o più beni dal proprio patrimonio in forza della delibera di costituzione.

Il primo elemento differenziale riguarda la “segregazione patrimoniale” che, nel patrimonio “destinato” è univoca, mentre nel trust è biunivoca e simmetrica. Nel primo, infatti l’effetto segregativo si propaga dal patrimonio “destinato” verso quello generale della società ma non viceversa, nel senso che la società può sempre scegliere di rispondere per le obbligazioni del patrimonio separato  e, in ogni caso, risponde delle obbligazioni da fatto illecito. Alla possibilità che la società scelga di rispondere per le obbligazioni contratte dal patrimonio di destinazione non fa riscontro la responsabilità del patrimonio “destinato” che mai può essere aggredito dai creditori della società che possono valersi unicamente sul patrimonio generale.

Il patrimonio “destinato, inoltre, prevede lo schema del solo trust “autodichiarato”, ma non di quello traslativo dove disponente e trustee sono soggetti diversi e dove c’è trasferimento di un bene o di un diritto ad un terzo.

Quanto all’amministrazione, il patrimonio “destinato è gestito dagli stessi amministratori della società che, a loro volta, gestiscono anche il patrimonio generale; i trustees, invece, possono essere e, di norma, sono soggetti diversi dagli amministratori. Questo aspetto pone l’ineludibile questione del conflitto di interessi alla quale la riforma societaria avrebbe potuto ovviare se avesse attribuito la gestione del patrimonio “destinato” ad un soggetto diverso, titolare di obbligazioni fiduciarie (al pari del trustee), indipendente in quanto nominato dall’assemblea e che, quindi, operi in piena autonomia rispetto all’organo esecutivo della società.

Anche la nozione di “patrimonio”sottolinea la distanza tra i due istituti: mentre il singolo bene o la singola posizione soggettiva, una mera aspettativa, beni futuri o sperati non possono formare oggetto di patrimonio “destinato”, essi ben possono e spesso costituiscono “beni in trust”. Il trust può infatti vincolare un’aspettativa che, una volta verificatasi, è già automaticamente, in forza del meccanismo della surrogazione reale, posta in trust.

Infine, il patrimonio “destinato” presenta, rispetto al trust, maggiore rigidità: è vincolante l’indicazione nella delibera di costituzione dei beni e rapporti giuridici compresi nel patrimonio (art. 2447 ter c.c.); non è possibile che, per circostanze impreviste, facciano ingresso altri beni o alcuni ne escano senza una nuova deliberazione, un nuovo termine per l’opposizione dei creditori, una nuova iscrizione nel registro delle imprese. La flessibilità del trust, invece, permette che i beni in trust possano entrare e uscire dal trust secondo le disposizioni dell’atto istitutivo. Soprattutto in presenza di apporti di terzi o di finanziamenti, la disciplina del trust è più agevole perché interamente rimessa alla volontà del disponente che agisce di intesa con apportatori e finanziatori; più elastica perché può prevedere il mutamento delle condizioni al sopraggiungere di nuove circostanze;

7. Patto di famiglia (art.. 768 bis ss.): i patti di famiglia, di recente introduzione nell’ambito dell’ordinamento giuridico, rappresentano un primo passo per tentare di gestire, più agevolmente che in passato, il passaggio generazionale nell’impresa, pur presentando, tuttavia, dei limiti che, in alcuni casi, rendono più utile il ricorso ad un istituto maggiormente flessibile e dinamico quale il trust.

I patti di famiglia, infatti, si limitano a regolare il trasferimento della proprietà dell’azienda o delle partecipazioni societarie, tralasciando elementi di estrema importanza quali le scelte relative alla leadership e all’assetto di governo aziendale. Se i vertici aziendali non funzionano, l’azienda entra in crisi , di conseguenza, entra in crisi anche la proprietà. Proprio in quanto fondato sul concetto di proprietà, tale istituto si rivela scarsamente flessibile, statico e passivo, al contrario del trust che, invece, è uno strumento dinamico ed attivo. Nel trust, infatti, non esiste la figura della proprietà o del proprietario, esistono esclusivamente: il bene (mobile, immobile o quant’altro), chi lo cede in gestione, chi lo gestisce, e chi ne trae i benefici.

L’estrema flessibilità del trust permette di perseguire tutte le finalità che il titolare dell’azienda si propone nella prospettiva del passaggio generazionale e che non è possibile perseguire esaustivamente con i patti di famiglia, cioè:

  • mantenere efficiente la gestione dell’azienda di famiglia;

  • regolamentare nell’atto istitutivo le modalità di gestione e il modo di esercitare i diritti inerenti le partecipazioni sociali;

  • assicurare unitarietà al patrimonio familiare;

  • assicurare reddito o mantenimento anche agli altri membri della famiglia;

  • segregare i beni in trust, che rimangono pertanto insensibili alle vicende personali del trustee.

Il ricorso al trust è preferibile, ad esempio, quanto all’aspetto soggettivo, quando il familiare che dovrà continuare l’attività di impresa non è un discendente in linea retta del disponente (unica ipotesi contemplata invece dai patti di famiglia), ovvero se l’imprenditore è privo di discendenti ma desideri ugualmente assicurare continuità alla propria impresa destinandola alla persona che, nel tempo, si dimostri più idonea. Altra ipotesi non contemplata dalla disciplina codicistica sui patti di famiglia è quella dell’imprenditore legato da rapporto di convivenza.

Il trust è sicuramente lo strumento più idoneo allorché l’impresa sia gestita da più rami di una stessa famiglia (ad esempio più fratelli). La normativa sui patti di famiglia, infatti, ha riguardo all’imprenditore singolarmente considerato: nel caso di impresa gestita da più fratelli, ad esempio, ognuno di loro dovrebbe stipulare un proprio patto di famiglia con i soggetti appartenenti al proprio ramo famigliare, cosa che non è di alcuna utilità per l’azienda.

I fratelli disponenti, invece, potrebbero istituire un unico trust, trasferendo ad un trustee la proprietà dell’azienda o autodichiarandosi trustee, costituendo un collegio. In questo modo otterrebbero il vantaggio di mantenere uniti il capitale ed i beni produttivi, evitandone la frammentazione fra più eredi ed assicurandone la protezione nell’ottica di una gestione oculata dell’impresa.

La flessibilità del trust si manifesta anche nella possibilità di saltare una generazione, allorché manchi un soggetto idoneo nella precedente.

Ancora, il trust può essere strutturato in modo da escludere dall’attribuzione dei beni di famiglia, i coniugi dei discendenti che sono, molto spesso, elemento destabilizzante degli equilibri familiari, ad esempio, in occasione della crisi del matrimonio.

Nell’atto istitutivo del trust, il disponente regola a lungo termine il trasferimento delle partecipazioni all’interno della famiglia e può dare le prescrizioni più varie in ordine all’amministrazione, in considerazione delle capacità dei soggetti coinvolti, potendo altresì riservarsela o individuare soggetti esterni che la assumano.

Nel trust possono essere segregati anche altri beni del pater familias in modo da soddisfare tutti gli eventuali legittimari, tra cui partecipazioni societarie detenute a scopo di mero investimento o speculativo. Possono essere oggetto dei patti di famiglia, invece, soltanto l’azienda e le partecipazioni espressione di attività di impresa del loro titolare.

Le utilità prodotte dai beni in trust possono essere accumulate nel trust stesso o versate ai beneficiari del reddito, in quote prestabilite o secondo la discrezionalità del trustee, o al verificarsi di determinati eventi. Attraverso le utilità del trust possono essere soddisfatti anche i bisogni di vita del disponente. I beni in trust saranno devoluti ai beneficiari finali una volta sopraggiunto il termine finale di durata.

Il disponente il trust, inoltre, può prevenire il rischio che le finalità del trust siano vanificate a causa di eventuali azioni di legittimari che pretendano di essere stati lei o pretermessi, facendo sì che i loro interessi economici legati al trust siano maggiori della loro pretesa, attribuendo loro vantaggi come, ad esempio, corrispondendo loro le rendite dell’attività aziendale e prevedendo la perdita di tali benefici in caso di azione contro il trustee.

Il disponente può riservare a sé o attribuire ad altri soggetti (trustee, guardiano, comitato dei beneficiari) un potere più o meno ampio di modificare determinati aspetti dell’atto istitutivo, senza dover ricorrere alla necessaria partecipazione di tutti i soggetti interessati, il che rende il trust uno strumento molto più “snello”, rispetto a quanto previsto per i patti di famiglia, per procedere ad una revisione delle disposizioni originarie;

8. Fondazione (artt. 14 ss. c.c.): anche la fondazione, al pari del trust, appartiene alla categoria dei “patrimoni destinati” al perseguimento di uno scopo determinato. Conferendo i propri beni nella fondazione, il fondatore, come il disponente del trust, si spoglia dei diritti di proprietà sugli stessi, non potendone più disporre, salvo il suo diritto di revoca ai sensi dell’art. 15 c.c.. Anche nella fondazione, i beni conferiti vanno a formare una massa distinta dal patrimonio del fondatore, aggredibile esclusivamente dai creditori dell’ente stesso, ma pur sempre nel rispetto dello “scopo socialmente utile”che si intende perseguire. Tuttavia, tra il trust e la fondazione sussistono delle differenze sostanziali che fanno del trust uno strumento più flessibile e adattabile ad una eterogenea gamma di situazioni.

Innanzitutto, nella fondazione è essenziale la previsione della destinazione del bene ad un fine “altruistico”, di pubblica utilità (si pensi ad un complesso di beni attribuito dal fondatore per istituire un ospedale): Ne consegue che la fondazione non può mai, contrariamente al trust, perseguire uno scopo lucrativo e, quindi, non può mai avere una finalità commerciale. Pertanto, a differenza del trust, la fondazione appare uno strumento rigido, poco adattabile al perseguimento di diverse finalità.

In secondo luogo, la fondazione appartiene alla categoria delle “persone giuridiche”. Il trust, invece, è considerato persona giuridica soltanto ai fini fiscali, in quanto, a seguito della Legge Finanziaria del 2007, è considerato soggetto autonomo di imposta. Ma , al di fuori dell’ambito prettamente fiscale, il Trust non si configura come autonomo soggetto diritto, poiché esiste ed opera per mezzo del trustee.

Infine, non bisogna sottovalutare l’aspetto del controllo e della vigilanza che esercita l’Autorità Governativa sull’amministrazione delle fondazioni, ai sensi dell’art. 25 c.c.. L’Autorità pubblica, infatti, ha il potere di provvedere alla nomina e alla sostituzione degli amministratori, quando le disposizioni contenute nell’atto di fondazione non possono attuarsi; di annullare, sentiti gli amministratori, con provvedimento definitivo, le deliberazioni contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume; ancora, di sciogliere l’amministrazione e nominare un commissario straordinario, qualora gli amministratori non agiscano in conformità dello statuto o dello scopo della fondazione o della legge. Tale penetrante controllo, nelle fondazioni, si giustifica per l’aspetto di “pubblica utilità” che deve presentare lo scopo della fondazione stessa. Nel trust tutto ciò non sussiste, poiché esso è connotato da aspetti prettamente privatistici che ne fanno uno strumento flessibile e dinamico;

9. Holding: società capogruppo (o società “madre”) che controlla le altre società del “gruppo”, tramite il possesso di partecipazioni azionarie (holding “pura”) ed esercita anche attività di produzione (holding “mista”), per la quale è richiesta l’iscrizione in un albo speciale ex art. 113 TUB. Anche nella holding è ravvisabile un’ipotesi di “separazione patrimoniale”, poichè le partecipazioni ad essa conferite vanno a formare una massa distinta dal resto del patrimonio dell’imprenditore conferente, non più aggredibile. Aggredibili sono soltanto le partecipazioni che l’imprenditore conferente detiene nella holding. Ciò implica una vicinanza tra la holding ed il trust.

Da quanto detto, però, si ricava che la holding ha un oggetto più circoscritto rispetto al trust, è uno strumento che può essere utilizzato unicamente per le partecipazioni societarie, a differenza del trust che, come detto, può avere ad oggetto una indefinita categoria di oggetti. Di conseguenza, l’effetto di “blindatura” può riguardare esclusivamente le partecipazioni societarie.

Con riferimento al caso del passaggio generazionale dell’azienda di famiglia, i due istituti possono essere utilmente combinati tra loro.

Poniamo il caso, piuttosto frequente, in cui l’imprenditore desideri cedere la propria azienda soltanto ai discendenti che sono concretamente in grado di proseguire l’attività con successo, assicurando, tuttavia, al coniuge e agli altri discendenti il godimento degli altri beni, al fine di tutelare l’unione e l’armonia familiare.

In una siffatta ipotesi, appare dapprima preferibile costituire una holding alla quale saranno trasferite le quote dell’azienda. Le azioni della Holding, poi, saranno a loro volta conferite, insieme a tutte le altre proprietà dell’imprenditore, ad un Trust istituito ad hoc. Il trustee nominerà ad Amministratori dell’azienda di famiglia i discendenti indicati dall’imprenditore e gli altri eredi potranno godere degli utili prodotti dall’azienda e di altri beni (ad esempio, immobili, case di villeggiatura ecc…). Ne consegue che la holding, in abbinamento al trust, può rivelarsi un efficace strumento di pianificazione successoria delle diverse partecipazioni rappresentanti le aziende di famiglia.

Trust in Italia: in arrivo l’attesa regolamentazione ?

Una tra le principali novità legislative che il Parlamento ha dichiarato di voler attuare per il futuro più prossimo è costituita dalla riforma dell’istituto del trust.

A ben vedere, più che di riforma, dovrà trattarsi della predisposizione di una vera e propria regolamentazione organica di un istituto che, nato e consolidatosi nell’esperienza giuridica di common law, ha fatto ingresso nel nostro ordinamento più di vent’anni fa, cercando timidamente di affermarsi anche nelle più rigide logiche della tradizione di civil law.

Come noto, il trust ha trovato riconoscimento in Italia con la ratifica – ad opera della Legge 16 ottobre 1989, n. 364, in vigore dal 1 gennaio 1992 – della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, i cui obiettivi precipui erano rappresentati dalla definizione della legge applicabile all’istituto e dalla regolazione del suo riconoscimento.

Da allora, a parte la copiosa elaborazione giurisprudenziale e dottrinale accumulatasi sul tema, il Legislatore italiano ha sempre – volontariamente o per mera trascuratezza – finito col mettere in secondo piano tale istituto che, solo se opportunamente conosciuto, può rivelare la sua natura estremamente flessibile e la sua attitudine al perseguimento dei fini più disparati.

Ad oggi, infatti, nonostante diversi disegni di legge in materia (presentati in passato, ma risoltisi in un nulla di fatto) e una risicata e frammentaria disciplina fiscale, il nostro ordinamento risulta ancora carente di una disciplina civilistica del trust.

È pur vero che la Convenzione dell’Aja, all’articolo 6, stabilisce che “il trust è regolato dalla legge scelta dal contribuente” e, al successivo articolo 7, che “qualora non sia stata scelta alcuna legge, il trust sarà regolato dalla legge con la quale ha più stretti legami”. La possibilità, prevista dalla stessa Convenzione, di adottare la legge del Jersey piuttosto che quella dell’Isola di Man o del Regno Unito, rappresenta, tuttavia, probabilmente, il maggior punto di debolezza dell’istituto. Esso, infatti, continua ad essere percepito con sfavore, quasi sottendesse inevitabilmente alcunché di abusivo/evasivo.

Sarà, dunque, questa situazione di incertezza normativa la ragione per cui l’istituto viene ancora guardato in Italia con una certa diffidenza e non sfruttato per quelle che sono le sue reali potenzialità. Niente di più auspicabile, allora, una sua regolamentazione ad hoc.

Ed invero, questa situazione di incertezza si respira più che mai nelle aule dei tribunali, dove i vari collegi sempre più spesso finiscono – ora per necessità, ora per diletto – con l’interpretare il ruolo di supplenti del Legislatore.

L’ultimo a subire i colpi della giurisprudenza è stato il cd. trust autodichiarato.

I Tribunali di Bergamo e Monza hanno categoricamente escluso l’ammissibilità nell’ordinamento italiano di tale tipologia di trust. Nelle sentenze datate 4 novembre 2015 e 13 ottobre 2105 detti organi giudicanti, infatti, si sono espressamente schierati a favore, rispettivamente, della nullità e della non riconoscibilità di tale schema di trust nel nostro ordinamento.

È pur vero, nondimeno, che giurisprudenza altalenante e dottrina suddivisa non sono altro che il risultato della situazione di incertezza che regna nel mondo del trust, ora più che mai necessitante di una organica e razionalizzata disciplina dell’istituto, sia civilistica che fiscale. Decisivo si rivela, pertanto, l’annunciato intervento del Legislatore sul tema. A Lui l’ultima parola.


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