Brevi appunti sul perché è importante costituzionalizzare la figura dell’Avvocato

Brevi appunti sul perché è importante costituzionalizzare la figura dell’Avvocato

Il “discorso” relativo alla (necessaria) costituzionalizzazione della figura dell’avvocato è tornato negli ultimi  tempi, com’è noto, a farsi più vivo che mai. Non è l’obiettivo di questi “appunti” ripercorrere le proposte in tema di riforma dell’art. 111 della Costituzione, delle quali sono a tutti note portata ed evoluzione.

Certo è, però, che il rinnovato interesse verso l’argomento, sollecitato (anche) da più iniziative degli organi di rappresentanza del ceto forense, ha stuzzicato e stuzzica alcune riflessioni in chiave strettamente costituzionale.

La figura del difensore, checché se ne dica, riveste un ruolo centrale (e non si tratta di un’iperbole) all’interno del nostro ordinamento; e questo ruolo può essere ben colto sotto più aspetti: a) la Costituzione prevede la presenza degli avvocati all’interno dei supremi organi giurisdizionali e di garanzia; b) è facilmente intuibile che non esiste (rectius: che non può esistere) un diritto costituzionale ad agire e difendersi in un giudizio se non esiste il riconoscimento della (importanza della) figura dell’avvocato; c) vi è una costante e sempre importante partecipazione degli avvocati, in un ordinamento ispirato al dialogo tra i vari operatori del diritto, all’evoluzione (e degenerazione) interpretativa dello stesso.

Ma partiamo dalla lettera a):  l’art. 104, comma 4, della nostra Carta fondamentale prevede che gli avvocati, trascorsi i 15 anni di esercizio, possano essere eletti al Consiglio Superiore della Magistratura; ancora: l’art. 106, comma 3, ci dice chiaramente che possono essere nominati all’ufficio di Consiglieri di cassazione quegli avvocati che abbiano maturato 15 anni di esercizio e di iscrizione negli albi speciali per le giurisdizioni superiori; ancora: l’art. 135, comma 2 prevede che, dopo 20 anni di esercizio della professione, gli avvocati possano essere eletti come giudici costituzionali.

Continuando con la lettera b), non si vede come si possa negare che la funzione svolta dall’avvocato (ma direi la stessa natura della professione in analisi) abbia un carattere intrinsecamente e sostanzialmente costituzionale.

La presenza del difensore è condizione necessaria perché quanto sancito in Costituzione all’art. 24 («Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.») possa rendersi effettivo. Stesso discorso vale se ci spostiamo all’art. 111: «[…] ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale». Quando parliamo di diritto di agire e difendersi parliamo – come la Corte costituzionale ha più volte riconosciuto e,  poi, ribadito[1] – di  uno dei princìpi indispensabili perché si possa parlare di Stato costituzionale di diritto.

Allora riconoscere anche formalmente l’importanza che la figura dell’avvocato ha (e si ripete: che la stessa ha già sul piano sostanziale) non è vuota esigenza retorica: è volontà di conferire dignità scritta a una professione senza la quale alcune disposizioni della Costituzione si risolverebbero in lettera morta.

La centralità della figura dell’avvocato, sotto il profilo da ultimo menzionato, è emersa con estrema chiarezza nei tempi recenti, non fosse altro che per la definitiva affermazione del principio del giusto processo nel sistema di tutela multilivello dei diritti[2].

Tra l’altro, a caratterizzare il giusto processo, vi sono i due fondamentali princìpi della parità delle parti e del contraddittorio pieno: se per il primo ogni cittadino coinvolto in giudizio deve avere eguali possibilità di incidere sul formarsi del  convincimento del giudice, il secondo postula  il  pieno contraddittorio fra le parti come mezzo di ricostruzione della verità (naturalmente processuale, giacché la verità reale  – o sostanziale che dir si voglia – non è quella di cui i tribunali si interessano e devono interessarsi – che a rimetterne sarebbe, com’è purtroppo noto, la certezza del diritto).

Ebbene: anche i princìpi appena citati si risolverebbero in un nulla di fatto senza l’avvocato (si pensi a quanto la presenza di quest’ultimo possa rilevare, nel processo penale, quando la sua voce deve combinarsi – in uno storico giuoco dialettico – con quella del giudice e del pubblico ministero).

Con non troppa difficoltà tornano alla mente le parole di Calamandrei, che nella prefazione alla seconda edizione del suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”[3] si esprimeva così: «in realtà l’avvocatura risponde, anche nello Stato autoritario, a un interesse essenzialmente pubblico altrettanto importante quanto quello cui risponde la magistratura: giudici e avvocati sono ugualmente organi della giustizia, sono servitori ugualmente fedeli dello Stato, che affida loro due momenti inseparabili della stessa funzione». E altresì: «[…] qualsiasi perfezionamento delle leggi processuali rimarrebbe lettera morta, là dove, tra i giudici e gli avvocati, non fosse sentita, come legge fondamentale della fisiologia giudiziaria, la inesorabile complementarità, ritmica come il doppio battito del cuore, delle loro funzioni».

Calamandrei vedeva dunque magistratura e avvocatura come entrambe impegnate nella missione di giustizia (non in senso morale, ma in termini di buona amministrazione e buon andamento della stessa) e della cultura del diritto.

Ed è da queste idee che si dovrebbe oggi ripartire: il riconoscimento dei reciproci ruoli e compiti da parte di giudici e avvocati non può che avere la naturale conseguenza di irrobustire (o tardivamente consacrare) l’indipendenza: 1) degli uni con gli altri; 2) degli stessi rispetto al potere politico (se ancora oggi ha senso, e deve averlo, parlare di principio di principio di divisione dei poteri).

Non solo: una decisiva presa di coscienza del ruolo sociale delle professioni del giudice e dell’avvocato, pur nella loro totale diversità fattuale, aumenterebbe delle stesse l’innegabile prestigio – troppo spesso dimenticato o, peggio, calpestato.

Ma slittiamo alla lettera c) di cui all’inizio di queste brevi considerazioni: tutta la caratura costituzionale della figura dell’avvocato e del suo ruolo si scorge benissimo rivolgendo lo sguardo alle nuove “tendenze” in materia di fonti del diritto. Com’è pacifico, già da tempo i sistemi c.d. di civil law stanno subendo numerose (e oserei dire pericolose) contaminazioni dai sistemi di common law: ciò per l’eccessivo potere di cui la magistratura si è appropriata con riferimento ai processi di interpretazione (e conseguente distorta applicazione del diritto): eccesso di potere che non di rado ha trasformato e trasforma l’attività di applicazione del diritto in attitività di creazione dello stesso.

L’avvocato, nel contesto di queste torsioni, non può che rivendicare e onorare il suo ruolo (quello di assicurare a ogni individuo il diritto a una difesa), cercando il più possibile, nei limite dei suoi mezzi processuali, di scongiurare un’attività creatrice del diritto da parte del potere giudiziario.

L’avvocatura, in questo specifico senso, ha il compito di rappresentare nel mondo del diritto un “argine” rispetto a inaugurabili approcci etici, contribuendo così al miglioramento del sistema giudiziario.

Non sono banali le parole usate dal Presidente Mattarella in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziarie 2017, nel messaggio diretto al Presidente del Consiglio Nazionale Forense: “[…] L’Avvocatura ha un ruolo fondamentale ed imprescindibile per la realizzazione della tutela dei diritti dei cittadini. Professionalità e competenza nell’esercizio della professione sono il viatico necessario in questo percorso, espressioni delle quali sono il rigore e la disponibilità costante al confronto costruttivo per il miglioramento del sistema giustizia. Il concreto funzionamento del processo è, infatti, possibile, nel rispetto della diversità dei ruoli, solo se tutti, gli avvocati fra questi, vi contribuiscono lealmente.

La qualità della giurisdizione dipende grandemente anche dalla qualificata partecipazione del foro alla complessa attività decisionale propria del Giudice.[4] […]”.

 

 

 


[1] Fra tutte, si veda la recente sentenza n. 80 del 2000 della Corte costituzionale.
[2] Art. 111 Cost.; art. 6 CEDU; art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
[3] P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Milano, Ponte alle Grazie, 1999.
[4] Messaggio del Presidente Mattarella al Presidente del Consiglio Nazionale Forense, Mascherin in https:/-/www.quirinale.it/elementi/2641 (Ultimo accesso maggio 2020)

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