Cassazione: danno da mancato consenso informato risarcibile anche in caso di intervento riuscito

Cassazione: danno da mancato consenso informato risarcibile anche in caso di intervento riuscito

Con ordinanza n. 31234 del 04.12.2018, la 3° sezione civile della Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che il danno da mancata prestazione del consenso informato è risarcibile anche nel caso di un intervento chirurgico correttamente eseguito le cui conseguenze, se fossero state conosciute dal paziente, lo avrebbero portato a rifiutare l’operazione. In tale condizione, infatti, si configurerebbe una lesione del diritto alla autodeterminazione del paziente, a prescindere dal pregiudizio al diritto alla salute.

Sommario: 1. Il fatto – 2. La decisione della Corte – 3. Considerazioni.

1. Il fatto

La pronuncia in esame riguarda il caso di un uomo al quale era stato diagnosticato un tumore alla laringe per cui era stato sottoposto a tre interventi. Durante l’ultimo di questi, al paziente venne asportata completamente la laringe, con conseguente perdita della fonesi, nonostante l’uomo fosse stato trasferito in sala operatoria ufficialmente solo per una revisione della ferita.

La struttura ospedaliera si era costituita in giudizio eccependo che l’intervento era stato eseguito d’urgenza e che il paziente era stato comunque edotto degli effetti dell’operazione.

Il giudice di merito aveva ritenuto acclarata l’inesistenza di un idoneo consenso informato, in quanto il paziente era stato sì costantemente edotto circa il suo stato di salute, ma non per questo poteva ritenersi che gli fosse stata fornita anche una informazione adeguata sui possibili e prevedibili esiti della prestazione chirurgica che aveva comportato il danno. Inoltre, non vi era prova che ricorresse una situazione di urgenza.

La casa di cura in parola, a seguito delle pronunce di primo e secondo grado, proponeva ricorso motivando che la Corte territoriale avrebbe errato nell’equiparare il danno da mancato consenso informato a quello da errata esecuzione dell’intervento: infatti, la perdita della voce era stata una conseguenza prevedibile di una operazione chirurgica effettuata correttamente.

Ancora, la ricorrente deduceva che il Giudice di merito aveva posto a fondamento della sua decisione l’allegazione secondo cui il paziente non avrebbe prestato il consenso se fosse stato edotto correttamente dei rischi e delle conseguenze dell’operazione chirurgica, nonostante tale allegazione fosse stata inserita dall’attore nell’atto introduttivo di primo grado e non anche nell’atto di appello.

2. La decisione della Corte

Pur accogliendo i due motivi di ricorso, gli ermellini hanno comunque avallato la tesi secondo cui il danno all’autodeterminazione del paziente sia risarcibile a prescindere da una lesione incolpevole del diritto alla salute.

L’autodeterminazione, infatti, costituisce diritto e bene giuridico distinto dalla salute. Ne consegue che la lesione al diritto di autodeterminazione costituirà oggetto del danno risarcibile tutte le volte che il paziente abbia subìto delle conseguenze dell’operazione (riuscita) prevedibili ma per lui inaspettate, non avendo avuto modo di affrontarle e accettarle per via del mancato consenso informato.

La Corte è esplicita nel sottolineare che “il paziente, infatti, vanta la legittima pretesa di conoscere con la necessaria e ragionevole precisione le conseguenze dell’intervento medico, onde prepararsi ad affrontarle con maggiore e migliore consapevolezza, atteso che la nostra Costituzione sancisce il rispetto della persona umana in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua essenza psicofisica, in considerazione del fascio di convinzioni morali, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive.[1]

Come si è accennato, i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso presentato dalla struttura sanitaria in quanto il paziente non aveva formulato alcuna domanda per il risarcimento del danno da lesione dell’autodeterminazione, limitandosi a chiedere di essere indennizzato per danno non patrimoniale da invalidità temporanea assoluta, relativa e permanente, per il danno morale, per quello da capacità lavorativa specifica e quello esistenziale e alla vita di relazione. Queste figure di danno erano state ricondotte dall’attore sia alla responsabilità medica dei singoli medici, dell’equipe e della struttura (poi esclusa in entrambi i gradi di giudizio) che alla responsabilità per mancata acquisizione di un valido consenso informato.

Argomenta la Corte che sarebbe stato compito del giudice di merito accertare se il corretto adempimento, da parte dei sanitari, dei doveri informativi avrebbe garantito al paziente la adeguata preparazione e predisposizione ad affrontare il periodo post-operatorio o, al contrario, lo avrebbe indotto a non acconsentire all’esecuzione dell’intervento chirurgico.

Se il paziente, infatti, avesse scientemente acconsentito all’intervento indipendentemente dalle conseguenze (comunque a lui note), non sarebbe stato rinvenibile il nesso di causalità materiale tra il trattamento medico e il danno lamentato, anche al netto di una informazione incompleta nei termini indicati. Ciò in quanto egli avrebbe consapevolmente scelto di subire quell’incolpevole lesione quale prevedibile conseguenza di un intervento eseguito secundum leges artis.

Pertanto, sarebbe stato onere del paziente provare – anche con presunzioni – che non avrebbe autorizzato l’intervento qualora fosse stato correttamente informato, neanche in ipotesi di operazione salva vita.

3. Considerazioni  

La pronuncia in esame, nel considerare il consenso informato (rectius, l’autodeterminazione da esso garantita) come un bene meritevole di tutela, si muove in continuità con quanto affermato anche dalla Corte Costituzionale. Il giudice delle leggi, infatti, nell’importante sentenza n. 438/2008 ha chiarito che “il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che «la libertà personale è inviolabile», e che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge».”[2]

La necessità che il paziente sia posto in condizioni di conoscere il proprio percorso terapeutico emerge, d’altronde, anche da una serie di norme nazionali, “ad esempio, dall’art. 3 della legge 21 ottobre 2005, n. 219 (Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati), dall’art. 6 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nonché dall’art. 33 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), il quale prevede che le cure sono di norma volontarie e nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se ciò non è previsto da una legge.”[3]

Conclude quindi la Corte Costituzionale che il consenso informato ha una funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute. Il diritto a ricevere tutte le informazioni possibili sul percorso terapeutico intrapreso o da intraprendere è infatti essenziale all’esercizio tanto del diritto alla propria autodeterminazione attraverso una scelta consapevole, quanto del diritto ad essere curati.[4]

Per approfondire il tema, analizzando Cass. Civ. sez. III, sent. n. 2847 del 09.02.2010 possiamo ricavare una panoramica completa del rapporto tra autodeterminazione e diritto alla salute.

La loro diversità, commentano i giudici nella pronuncia n. 2847/10[5] è desumibile da due considerazioni: che la lesione del diritto alla salute può verificarsi anche in presenza di consenso informato, qualora l’intervento sia stato effettuato non correttamente; e che la lesione del diritto all’autodeterminazione non necessariamente implica una lesione della salute.

Nel primo caso, la lesione alla salute si ricollega causalmente alla colposa condotta del medico, a nulla rilevando il fatto che sia stato prestato consenso informato.

Nel secondo, la mancanza del consenso può assumere rilievo risarcitorio anche qualora non sia rinvenibile una lesione alla salute.

Da quest’ultima considerazione ne discende che il danno al diritto di autodeterminazione causato dalla mancanza di consenso informato sia risarcibile, come danno patrimoniale, anche in casi nei quali – differentemente dalle vicende di cui alla ordinanza oggetto del nostro articolo – non vi sia stata una menomazione del paziente come conseguenza non imprevedibile dell’intervento.

Esempio è la tutela risarcitoria di chi abbia consapevolmente rifiutato una trasfusione di sangue perché in contrasto con la propria fede religiosa, anche qualora i sanitari abbiano salvato la vita del paziente praticandola senza il suo consenso.

Ulteriore esempio è l’esecuzione di un intervento in difetto di consenso informato che abbia salvato la vita del paziente ma allo stesso tempo gli abbia provocato sofferenze fisiche che questi, se correttamente informato, avrebbe potuto decidere di non sopportare preferendovi la morte.

La decisione di accettare o meno siffatte conseguenze pregiudizievoli, argomenta la Corte, spetta infatti al solo paziente. Né sarebbe possibile operare un bilanciamento tra il valore della salute (o della vita) e gli altri interessi del malato, in quanto una valutazione comparativa di tal genere assume rilievo nell’ambito del diritto solo qualora soggetti diversi siano titolari di interessi contrastanti.

Va inoltre considerata, continua la Corte, la risarcibilità del turbamento e della sofferenza psicologica derivati da conseguenze dell’intervento inaspettate per il paziente in quanto non correttamente informato. Il medico è infatti tenuto a determinare nel paziente l’accettazione delle possibili conseguenze negative, “in una sorta di condivisione della stessa speranza del medico che tutto vada bene; e che non si verifichi quanto di male potrebbe capitare, perché inevitabile.”[6] In tal modo viene a compiersi quella alleanza terapeutica tra medico e paziente cui la Suprema Corte ha avuto modo di fare cenno anche la nel giudizio oggetto del nostro articolo.[7]

Qualora il medico venga meno a siffatto compito, nel paziente si ingenererà inevitabilmente una situazione di turbamento di intensità correlata alla gravità delle conseguenze verificatesi e non prospettate come possibili.

La risarcibilità del danno in questione, precisa la Corte[8], è vincolata al requisito che venga superata la soglia della gravità dell’offesa secondo i canoni delineati dalle sentenze di Sezioni Unite nn. da 26972 a 26974 del 2008, secondo le quali il diritto deve essere inciso oltre un livello minimo di tollerabilità che deve essere determinato dal giudice in un bilanciamento tra principio di solidarietà e tolleranza secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico.

Recentissima giurisprudenza di legittimità ha sistematizzato quanto appena detto sulle possibili configurazioni del danno da mancato consenso informato. Esso può avere origine: “a) dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal paziente in ragione dello svolgimento sulla sua persona dell’esecuzione dell’intervento durante la sua esecuzione e nella relativa convalescenza; b) eventualmente, dalla diminuzione che lo stato del paziente subisce a livello fisico per effetto dell’attività demolitoria, che abbia eventualmente eliminato, sebbene a fini terapeutici, parti del corpo o le funzionalità di esse: poiché tale diminuzione avrebbe potuto verificarsi solo se assentita sulla base dell’informazione dovuta e si è verificata in mancanza di essa, si tratta di conseguenza oggettivamente dannosa, che si deve apprezzare come danno conseguenza indipendentemente dalla sua utilità rispetto al bene della salute del paziente, che è bene diverso dal diritto di autodeterminarsi rispetto alla propria persona, ancorché in modo di riflesso incidente sul bene della salute; c) se del caso, con riferimento alla possibilità che, se il consenso fosse stato richiesto, la facoltà di autodeterminazione avrebbe potuto indirizzarsi nel rivolgersi per l’intervento medico altrove, qualora si riveli che sarebbe stata possibile in relazione alla patologia l’esecuzione di altro intervento vuoi meno demolitorio vuoi anche solo determinativo di minore sofferenza, si verifica anche un danno conseguenza rappresentato da vera e propria perdita, questa volta relativa proprio ad aspetti della salute del paziente.”[9] 

Per quanto attiene all’aspetto probatorio, Il caso sub a) non richiede una prova specifica, infatti esso “corrisponde allo sviluppo di circostanze connotate da normalità, ovverosia da normale frequenza statistica, corrispondendo all’id quod plerumque accidit e potendo quindi ritenersi di regola esentata da prova specifica, salvi la contestazione della controparte o l’onere dell’allegante che intenda giovarsi di fatti ancora più favorevoli a sé[10]

Invero, la compromissione della genuinità del processi decisionali del paziente può considerarsi immediata perché relativa al foro interno della coscienza dell’individuo e viziata da dati incompleti a causa, appunto, della mancanza di consenso informato.

I casi sub b) – in cui rientra il fatto della ordinanza n. 31234/18 – e sub c) richiedono invece una prova sempre più puntuale e specifica man mano che ci si allontana da una sequenza causale immediata e si amplia il ventaglio delle opzioni percorribili o degli esiti possibili. [11]

In ogni caso, come ben argomentato dalla già vista sent. n. 2847/10,  l’onere probatorio grava sul paziente: “(a) perché  la prova di nesso causale tra inadempimento e danno comunque compete alla parte che alleghi l’inadempimento altrui e pretenda  per questo  il risarcimento; (b) perché il fatto positivo da provare  è il  rifiuto  che  sarebbe stato opposto dal paziente al  medico;  (c) perché  si tratta pur sempre di stabilire in quale senso si  sarebbe orientata  la  scelta  soggettiva  del  paziente,  sicché  anche  il criterio  di  distribuzione dell’onere probatorio in  funzione  della “vicinanza” al fatto da provare induce alla medesima conclusione; (d) perché  il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di  opportunità  del  medico  costituisce  un’eventualità  che  non corrisponde all’id quod plerumque accidit.”[12]

 


[1] Cass. Civ. sez. III Ord. n. 31234 del 04.12.2018
[2] Corte Cost. Sent. n. 438 del 31.12.2008, considerato in diritto para 4.
[3] Vedi nota 2.
[4] Vedi nota 2.
[5] Cass. Civ. sez. III, n. 2847 del 09.02.2010, para 3.2
[6] Vedi nota 5.
[7] Cfr. Cass. Civ. sez. III Ord. n. 31234 del 04.12.2018:la Corte territoriale aggiungeva che l’informazione avrebbe dovuto riguardare le problematiche consequenziali e costituire il fondamento di una alleanza terapeutica tra medico e paziente: il bene tutelato è, difatti, quello della libertà di autodeterminazione, bene del tutto diverso rispetto a quello della salute
[8] Vedi nota 5.
[9] Cass. Civ. sez. III, n. 16503 del 05.07.2017, para 10.
[10] Cass. Civ. sez. III, n. 16503 del 05.07.2017, para 11. Come è già stato accennato, anche Cass. Civ. sez. III n. 31234 del 14.12.2018 riconosce la possibilità del ricorso anche a semplici presunzioni “la cui efficienza dimostrativa seguirà una sorta di ideale scala ascendente, a seconda della gravità delle condizioni di salute e della necessarietà dell’operazione”.
[11] Cass. Civ. sez. III, n. 16503 del 05.07.2017, para 12.
[12] Cass. Civ. sez. III, n. 2847 del 09.02.2010, para 3.3

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Avvocato del Foro di Roma con attività prevalente nel diritto civile, nel diritto di famiglia e minorile e nella responsabilità civile. Laureato in Giurisprudenza nel novembre 2017 presso La Sapienza Università degli Studi di Roma con una tesi in Diritto Pubblico Comparato dal titolo "La tutela dei diritti fondamentali dinnanzi alla minaccia del terrorismo internazionale." Autore anche presso altre riviste giuridiche telematiche tra cui Cammino Diritto e GiuriCivile.

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