Cassazione, dichiarazioni spontanee utilizzabili anche senza avvocato

Cassazione, dichiarazioni spontanee utilizzabili anche senza avvocato

La verità di fronte o di profilo come il passo legato dalla catenella d’oro di Salambò.

La scelta personalissima dell’indagato di offrire la propria versione dei fatti è tutelata dal codice di procedura penale sia che l’accusato scelga di rivolgersi alla polizia giudiziaria, sia che lo stesso si presenti al pubblico ministero, come disposto dall’art. 374 cod. proc. pen.

Nel caso in cui le dichiarazioni spontanee siano rese, senza garanzie, alla polizia giudiziaria, il legislatore ha precisato il regime di utilizzabilità limitandone l’utilizzo  alla fase procedimentale, ovvero alla cognizione cautelare ed a quella sulla responsabilità che si svolge nei riti a prova contratta nella piena disponibilità dell’accusato, così come avviene nel giudizio abbreviato, scelto – per esplicita disposizione normativa- in via esclusiva dall’imputato.

Risultano utilizzabili nella fase procedimentale, le dichiarazioni spontanee rese dall’indagato anche in assenza di difensore e senza l’avviso di poter esercitare il diritto al silenzio, qualora emerga con chiarezza che l’indagato abbia scelto di renderle liberamente, senza alcuna coercizione o sollecitazione.

Pur rimanendone preclusa l’efficacia probatoria in dibattimento, la Suprema Corte precisa che tali dichiarazioni hanno un perimetro di utilizzabilità circoscritto non solo alla fase procedimentale e dunque all’incidente cautelare, ma anche ai riti a prova contratta.

Lo ha stabilito la Suprema Corte con la sentenza 14320 del 28 marzo 2018 .

Le norme di riferimento

L’art. 350, comma 7, cod. proc. pen. permette alla polizia giudiziaria di ricevere le dichiarazioni spontanee rese dall’indagato, anche in assenza di difensore e senza la somministrazione degli avvisi previsti dall’art. 64 cod. proc. pen. La norma prevede, pertanto, l’inutilizzabilità relativa, il che impedisce di ritenere che la stessa regola possa essere svilita dalla disciplina generale che sancisce l’inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni rese dall’indagato senza garanzie. L’ 350, comma 7, cod. proc. pen. si configura, piuttosto, come un’ espressa eccezione a tale regola, che trova la sua la ratio nella natura eminentemente difensiva e libera delle dichiarazioni spontanee. –  la direttiva 2012/13/UE in materia di diritti di informazione dell’indagato.

Il caso

L’imputato aveva impugnato la pronuncia di merito chiarendo che le dichiarazioni rese dal coimputato nell’immediatezza dell’accertamento del fatto, determinanti per l’accertamento della sua responsabilità, fossero correttamente da ritenere inutilizzabili, in quanto prestate senza le garanzie di legge.

Lo sferzante giudizio espresso sanzionava un’ inutilizzabilità patologica, sganciata dalla progressione processuale avuto riguardo sia alla scelta del rito abbreviato, sia all’assenza di motivazione circa la qualifica di dichiarazioni spontanee alle stesse assegnata.

Doglianza contrastata in concreto dalla Cassazione che supera la lettura proposta dall’imputato essenzialmente concentrata su una microspia semantica, atta scivolare a mezza schiena, quasi fosse un peso scrollato dalle spalle, che attestava la sequela di errori connotati da una “catena di smontaggio” del giudizio abbreviato e dei passaggi del procedimento delle indagini preliminari.

Tesi difensiva abissalmente lontana dalla rigorosità invocata e ostentata.

La sentenza della Corte d’appello, si precisa, lungi da scorciatoie e accertamenti sommari, volutamente curante dei macigni che circoscrivevano la responsabilità dell’imputato, ha accreditato le dichiarazioni rese da quest’ultimo in qualità di indagato come “spontanee” in quanto elargite nell’immediatezza dell’accertamento con finalità meramente difensive, in circostanze univocamente indicative ed inequivocabili dell’assenza di ogni sollecitazione di sorta.

Infine, nel gravame promosso non risultavano contestate dall’imputato le circostanze di fatto, erano stati sollecitati specifici accertamenti volti alla verifica della “spontaneità” delle dichiarazioni rese che, conformemente alla natura del rito prescelto (ossia il giudizio abbreviato che cristallizza la valutazione della responsabilità dell’imputato sull’esame degli atti delle indagini preliminari), era stata valutata puntando gli occhi sulle risultanze disponibili.

Il principio introduce così nello spinoso cespuglio dei riti deflattivi del dibattimento e segnatamente nel rito abbreviato.

Occorre, pertanto, andare al di là dell’ apparente intento descrittivo della sentenza in commento, per cogliere che l’ affermazione della Suprema Corte sembrerebbe contenere un severo monito: inviterebbe a prendere le distanze da un atto – il rendere dichiarazioni spontanee- quando al presunto cumulo di dati fattuali non si ritiene corrisponderanno i fatti oggetto di considerazione e stima da parte del giudice di merito.

Una mannaia implacabile ed inesorabile definisce quali orizzonti rovinosi si nascondono dietro il numero di inesattezze evocato dal discorso sull’ inutilizzabilità patologica che rimane schiacciato dal preciso quadro normativo richiamato dalla Cassazione.

Deve essere chiarito che, come previsto dall’art. 513 comma 1 cod. proc. pen. le dichiarazioni assunte d’iniziativa dalla polizia giudiziaria (con o senza la presenza del difensore) non possono entrare nel fascicolo del dibattimento: il recupero delle dichiarazioni predibattimentali contra se, qualora l’imputato si avvalga del diritto al silenzio è, infatti, limitato ai casi in cui le dichiarazioni siano rese al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria che le raccoglie su sua delega. L’utilizzo delle dichiarazioni dell’imputato raccolte d’iniziativa dalla polizia giudiziaria è dunque limitato alla fase procedimentale. Nell’ambito di tale fase il legislatore ha previsto un ulteriore limite: le dichiarazioni “sollecitate” acquisite senza garanzie “sul luogo e nell’immediatezza del fatto” sono utilizzabili solo per l’immediata prosecuzione delle indagini; tali dichiarazioni non sono dunque utilizzabili neanche nella fase procedimentale e, segnatamente, nella cognizione cautelare. Il collegio ribadisce, sul punto, che le dichiarazioni “sollecitate”, rese dall’indagato nell’immediatezza dei fatti ed in assenza di garanzie, a differenza di quelle “spontanee”, non sono in alcun modo utilizzabili, neanche a favore del dichiarante (Cass. sez. 2 n. 3930 del 12/01/2017, Rv. 269206; Cass. sez. un. n. 1150 del 25/09/2008, dep. 2009, Rv. 241884). Residua l’area delle dichiarazioni “spontanee” che, ai sensi dell’art. 350 comma 7 cod. proc. pen., sono invece utilizzabili nell’area procedimentale e, dunque, nella cognizione cautelare, anche se acquisite senza le garanzie.

Con riguardo al rito contratto, infatti, espone la Cassazione, esso si risolve “in una espressa e personalissima rinuncia dell’imputato al diritto al contraddittorio, sicché diventano utilizzabili tutti gli atti formati nel corso delle indagini preliminari e, dunque anche le dichiarazioni spontanee, destinate altrimenti a perdere efficacia in caso di progressione processuale ordinaria”.

La sentenza esibisce sistematicamente la sequenza delle fonti normative e vi si legge la ricostruzione di un percorso giuridicamente ineccepibile e ricco di spessore.

Ed, invero, la rinuncia al contraddittorio “non è in contrasto con il diritto tutelato dall’art. 6 della Convenzione Edu tenuto conto della ratio decidendi che orienta una serie di pronunce della Corte europea”.

Rileva, in tal senso, la sentenza della Grande Camera Scoppola v. Italia del 17 settembre 2009, in cui la Corte europea evidenzia che “né il testo né lo spirito dell’art. 6 della convenzione Edu impediscono che una persona vi rinunci spontaneamente in maniera espressa o tacita». La rinuncia deve essere comunque essere espressa  “in maniera non equivoca ed essere accompagnata da un minimo di garanzie corrispondenti alla sua importanza”.

La normativa europea, infatti, prosegue la decisione, si limita ad indicare la necessità di una “tempestiva informazione, lasciando agli Stati membri un margine di discrezionalità nell’apprezzamento della richiesta “tempestività”. E il legislatore italiano ha ritenuto di individuare il momento in cui è necessario fornire le informazioni di garanzia “in quelli dell’applicazione delle misure cautelari e del compimento di atti ai quali il difensore ha diritto di assistere; ha ritenuto invece di lasciare all’indagato la possibilità di entrare in contatto con la polizia giudiziaria procedente in modo spontaneo e deformalizzato nel corso di tutta la attività processuale”.

Si tratta di una scelta, continua la Corte, che trova la sua giustificazione nel fatto che “le dichiarazioni spontanee non sono funzionali a raccogliere elementi di prova, ma piuttosto a consentire all’indagato di interagire con la polizia giudiziaria in qualunque momento egli lo ritenga, esercitando un suo diritto personalissimo”.

Declama ancora la sentenza, contrariamente a quanto argomentato “la rinuncia al contraddittorio effettuata attraverso la libera e consapevole scelta di definire il processo con il rito abbreviato, sulla base di fonti di prova raccolte unilateralmente dalla pubblica accusa non contrasta con il diritto convenzionale, ma anzi si presenta coerente con i principi reiteratamente espressi dalla Corte di Strasburgo in materia”.

La massima dei Giudici del Palazzaccio conserva intatta la sua capacità di rispecchiare ciò che si mimetizzava nelle pieghe di una diversa verità processuale.


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