Causa del contratto e presupposizioni

Causa del contratto e presupposizioni

La causa del contratto è la ragione giustificatrice degli spostamenti patrimoniali, sia nei contratti tipici che in quelli atipici, cd. principio causalistico, definito ormai come regola inderogabile della volontà contrattuale. A livello normativo è riportata nel combinato disposto degli articoli 1325 c.c. e 1418 c.c., nei quali viene ad essere definita elemento essenziale del contratto assieme all’accordo, l’oggetto, e la forma quando richiesta dalla legge; e la mancanza o illeceità della stessa produce la nullità del contratto.

Nonostante la disciplina della causa sia sancita anche negli artt. 1343, art. 1344 ed art. 1345 c.c., che definiscono quando può essere definita illecita e quindi quando può portare alla nullità del contratto, in nessuna delle norme riportate dal legislatore vi è l’effettiva nozione di causa, lacuna questa che è stata oggetto di varie interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali, visto la ampia simbologia e astrattezza empirica del significato della stessa. Per sopperire tale mancanza, in dottrina, si svilupparono inizialmente due teorie contrastanti: una prima cd. teoria oggettiva della causa astratta (di Betti), la quale definiva la causa come funzione economico-sociale, avendo il compito di disciplinare le situazioni di pratiche sociali e commerciali nascenti attraverso accordi tra le parti, per la conclusione di un contratto; una seconda teoria la cd. teoria soggettiva che, invece, individuava la causa come ragione giustificatrice del contratto, identificata dalla signoria del volere dei contraenti di concludere quel determinato accordo, cioè dettato dall’autonomia contrattuale e dalle ragioni interiori del soggetto. Quest’ultima teoria ebbe poca credibilità visto che all’art. 1345 c.c. i motivi che portavano i soggetti a concludere un contratto sono definiti irrilevanti, salvo che tale motivo sia illecito e sia determinato in comune da entrambe le parti.

Se fino ad un periodo, quindi, la giurisprudenza individuava l’an della causa in base alla cd. causa astratta economico-sociale, successivamente, si ebbe una nuova visione, che sembra essere la soluzione combaciante ad entrambe le teorie predette; infatti, la Corte di Cassazione con Sentenza n. 10490 del 2006, a cui seguì la maggioritaria dottrina (maggiore esponente Ferri), affermava la troppa astrattezza e la generalità della teoria oggettiva con difficile applicazione pratica, così come prospettata ed individuava, invece, nella teoria soggettiva una credibilità, pur se marginale, ma considerata anch’essa funzionale per la giustificazione della libertà e autonomia contrattuale; si sviluppò, in base a questa nuova prospettazione la teoria cd. della causa concreta, per la quale la causa venne ad essere definita quale funzione economico- individuale basata sull’effettiva intenzione che le parti vogliono concretamente realizzare per mezzo dell’assetto contrattuale, finalità che ne diveniva quindi ragione giustificatrice, lasciando all’interprete l’individuazione della stessa caso per caso, in base alla situazione, alle circostanze e alla comune intenzione delle parti.

Da questa sentenza, che fu avallata dalle successive pronunce tra il 2008 ed il 2014, nonché da un’ ultima delle S.U. del 2015 (la quale definì i confini della validità del contratto preliminare di preliminare in base alla causa concreta), si cominciò ad intendere l’assetto negoziale delle parti attraverso un giustificazione causale basata sulla funzione economico- individuale, questa prospettiva, da parte della dottrina e della giurisprudenza, ha portato a successive conseguenze di interpretazione che appaiono più estensive, paradossalmente, rispetto alla originaria interpretazione della causa astratta, dettata dalla funzione economico- sociale.

Una prima conseguenza è stata quella di differenziare la causa dal tipo legale, definendo quest’ultimo come elemento statico per descrivere una fattispecie di un tipo di contratto, e definendo invece la causa quale elemento dinamico con funzione per realizzare concretamente l’interesse delle parti; da questo punto si ebbe quindi, a cascata, una visione differente del controllo della causa da parte del giudice, che non poteva più essere definita quale certa e insita nelle fattispecie tipizzate dal legislatore, ma imponeva un controllo della stessa per entrambi i contratti, sia tipici che atipici. Pertanto, con la prospettazione della cd. causa astratta il controllo del giudice non veniva posto nei contratti tipizzati, per il quale si andava ad accertare solamente la liceità e l’inquadramento della stessa nella fattispecie contrattuale, al contrario, per quanto riguardava i contratti atipici portava l’interprete a ricercare la meritevolezza e la proporzionalità dell’interesse delle parti, così come richiesto dall’art. 1322 c.c., che sancisce: “le parti possono concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina tipica, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela”. A seguito della teoria della cd. causa concreta, invece, il giudizio di controllo doveva essere effettuato dal giudice anche per i contratti tipici, che dovevano anch’essi corrispondere alla proporzionalità, liceità e meritevolezza dell’interesse funzionale delle parti.

Il controllo del giudice sull’interesse funzionale delle parti, inteso come ragione giustificatrice del contratto, ha portato la giurisprudenza all’applicazione della visione della funzione economico- individuale anche alle sopravvenienze contrattuali quando sia diventata impossibile l’utilizzazione della prestazione, inteso come interesse delle parti alla conservazione del contratto stesso. Ciò ha portato la giurisprudenza a scindere la mancanza di causa originaria e totale, che porta alla nullità del contratto, dalla cd. mancanza sopravvenuta che incide sugli effetti contrattuali.

In tal senso, si è individuato come in un rapporto contrattuale la mancanza sopravvenuta della causa possa portare alla risoluzione dello stesso, per sopravvenuto difetto dell’elemento funzionale come interesse delle parti.

La Corte Cassazione con Sentenza n. 16315 del 2007, circa al “pacchetto turistico” cd. package, in merito ad un contratto tra il privato e l’agenzia di viaggi, ha riconosciuto che la finalità del “tutto compreso” fosse la ragione giustificatrice del contratto in concreto, rilevante non solo sulla base della qualificazione dello stesso, ma anche relativamente sulla sorte del contratto, con conseguenza nel caso in cui tale finalità per motivi successivi e non imputabili alle parti fosse venuta meno, si sarebbe potuto risolvere il contratto per “impossibilità dell’utilizzo della prestazione”, definita quale finalità economico- individuale per aver concluso quel determinato contratto (ha applicato la risoluzione del contratto, in merito ad un viaggio a Cuba divenuto ineseguibile e causa di un epidemia in atto sull’isola). Altra Sentenza sempre del 2007 ha seguito la stessa interpretazione, dichiarando la restituzione di quanto pagato, ex art. 1463 c.c., e la risolubilità di un contratto concluso tra due coniugi e una struttura alberghiera avente ad oggetto un soggiorno e non utilizzato a seguito della morte dei uno dei due coniugi il giorno prima della partenza, causa che ha reso impossibile l’utilizzo della prestazione per causa non imputabile alle parti, funzione per la quale quel contratto era stato concluso dai coniugi stessi.

Le sentenze sopra riportate hanno in comune la irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione per mezzo della risoluzione.

A questo punto, però, la dottrina cominciò ad interrogarsi circa il peso da dare alla finalità dell’interesse delle parti nel contratto, e circa il confine che poteva esserci tra questa ed il motivo che portava le parti a concludere un negozio.

L’art. 1325 c.c. individua la causa come elemento essenziale del contratto definendola come lo scopo dello stesso, mentre il motivo (definito quale scopo del contraente) è irrilevante per il nostro ordinamento, divenendo rilevante solo per combinato disposto degli artt. 1325 e art. 1418 c.c., se illecito e comune ad entrambe le parti nei contratti, o nel caso dei motivi erronei e illeciti nei negozi gratuiti, ex art. 727 e 728 c.c..

Tuttavia, un orientamento dottrinale ha considerato che era possibile riconoscere la rilevanza di alcuni motivi se questi apparivano come condizione del contratto, anche implicitamente, poiché divenivano attraverso la loro indicazione o presupposizione requisiti del contratto stesso, trattandosi di un’incisione sugli elementi che lo caratterizzavano, questi motivi sono le cd. presupposizioni.

Mentre i motivi irrilevanti sono dettati da un impulso psicologico interno della parte e ne costituiscono un presupposto soggettivo del contratto, quindi irrilevante,  le presupposizioni nascono come circostanza esterna che ne costituisce un presupposto oggettivo della volontà contrattuale, e per questo sono giustificabili.

Le presupposizioni non sono codificate dal nostro ordinamento, sono una invenzione della dottrina sulla base della nuova visione della causa concretamente individuata nell’interesse delle parti, e per giustificare quelle situazioni di fatto e di diritto che, pur se non attenendo alla causa, all’oggetto e né ai motivi contrattuali, assumono importanza fondamentale alla conclusione e conservazione del contratto.

In particolare, non è rilevante per l’ordinamento se A compra un frigorifero e tornando a casa scopre che la moglie ne aveva nel frattempo comprato uno uguale, A non potrà per tale motivo risolvere il contratto perché il motivo è rilevante; però, se A compra da B un terreno edificabile, perché vuole costruire una casa, ma poco dopo il piano regolatore cambia, in quest’ultimo caso il contratto diviene dannoso perché è venuto meno il presupposto determinante per il quale A ha dato il consenso per quel contratto di compravendita.

Ricorre la presupposizione quando una determinata situazione di fatto o di diritto, di carattere obiettivo, è tenuta presente dai contraenti stessi nella formazione del loro consenso come presupposto determinante alla conclusione e alla conservazione del contratto.

Secondo l’orientamento maggioritario, e l’intervento della giurisprudenza che con Sentenza 12235/2007 che ne ha delineato i confini, la presupposizione si caratterizza da tre requisiti: 1) la comune consapevolezza delle parti; 2) la certezza; 3) l’oggettività dell’evento.

Per quanto riguarda 1) la consapevolezza delle parti, entrambi i soggetti devono essere a conoscenza del motivo che nasce come condizione del consenso, nonostante questo non è inserito nel contratto esplicitamente, cioè pur non essendo contemplato dalle parti viene inteso dagli stessi come comune consapevolezza, quantomeno noto all’altra parte; per quanto riguarda, invece, la certezza e la oggettività dell’evento, il presupposto deve essere percepito come certo (poiché l’incertezza definirebbe il rischio considerato dalle parti stesse), e qualora quell’evento viene a mancare deve dipendere da un evento e dalle circostanze estranee alla volontà dei contraenti, incidendo sulla causa del contratto.

Per quanto i rimedi da applicare in caso di sopravvenienze contrattuali, nel caso in cui l’evento non si dovesse realizzare, ancora oggi la giurisprudenza non è univoca. Inizialmente la dottrina, intravedendo in questa fattispecie la similitudine strutturale con la condizione, proponeva l’applicazione alla presupposizione di questa disciplina; d’altro lato la giurisprudenza ha, invece, spesso applicato a questi casi indifferentemente la invalidità e la risoluzione del contratto, riferendo all’invalidità tutti quegli eventi generati per difetto originario, e la risoluzione per difetto sopravvenuto della prestazione; altra parte della giurisprudenza accostava quale conseguenza la più precisa disciplina della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, ex art. 1467 c.c., essendo ricollegata non ad una impossibilità della prestazione ma bensì ad un mutamento della situazione fattuale tale da incidere sull’equilibrio contrattuale. In contrasto con tali impostazioni si è però pronunciata in ultimo la Corte di Cassazione che ha recentemente escluso il rimedio dell’eccessiva onerosità, facendone una distinzione tra presupposti specifici e presupposti generici; infatti, osservò che la presupposizione opera sulla situazione specifica presa in considerazione dalle parti, mentre la risoluzione per eccessiva onerosità altera i presupposti generali, cioè del contesto socio-economico generalmente inteso.

Per la Cassazione, quindi, l’unico rimedio esperibile in caso di non realizzazione dell’evento deve essere configurato nel recesso del contraente interessato, anche quando il presupposto obiettivo del contratto sia già in origine inesistente o impossibile a verificarsi.


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