Causalità materiale e causalità psichica, analogie e differenze nell’accertamento del nesso eziologico

Causalità materiale e causalità psichica, analogie e differenze nell’accertamento del nesso eziologico

Sommario: 1. Il rapporto di causalità materiale – 1.1 Il nesso eziologico nell’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale – 1.2 Le concause nei reati di danno lungolatente – 2. La causalità psichica – 2.1 Il noto caso del terremoto di L’Aquila

1. La causalità, quale nesso eziologico che deve intercorrere tra la condotta dell’agente e l’evento che di essa costituisce scaturigine, può definirsi come l’elemento oggettivo del reato, la cui sussistenza assume valenza primaria nell’accertamento giurisdizionale.

Statuisce infatti l’art. 40 c.p. che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.

Se in forza dell’accertamento del nesso eziologico si assiste al passaggio dalla responsabilità per fatto altrui alla responsabilità per fatto proprio, solo a seguito della successiva indagine sull’elemento psichico si potrà muovere a carico dell’agente un addebito, non più a titolo di responsabilità oggettiva, bensì, per fatto proprio colpevole.

Si evince, dunque, che l’accertamento dell’elemento soggettivo della colpevolezza – da cogliere nella sua dimensione normativa di atteggiamento antidoveroso della volontà – risulterà superfluo qualora il giudice abbia già escluso la riconducibilità eziologica dell’evento alla condotta materiale dell’agente.

È bene precisare che il rapporto di causalità materiale potrà dirsi rilevante solo rispetto all’evento inteso in senso naturalistico, quale processo modificativo della realtà fenomenica. Ormai recessiva deve reputarsi la teoria tendente ad inquadrare l’evento quale aggressione al bene-interesse tutelato, sia che essa assuma le vesti di messa in pericolo, sia che si configuri in termini di effettiva lesione dell’oggetto giuridico del reato. L’accoglimento di tale ricostruzione ermeneutica porterebbe ad un surrettizio appiattimento dei reati di pericolo in quelli di danno, sconfessando, altresì, il discrimen tra reati di pura condotta e reati di evento.

1.1 Varie le elaborazioni dottrinali volte a ricostruire gli esatti termini del rapporto di causalità tra condotta ed evento.

La teoria condizionalistica della “condicio sine qua non” considerava la condotta causa dell’evento se ed in quanto fosse configurabile in termini di condizione necessaria e sufficiente al suo verificarsi. Vulnus di tale ricostruzione era il procedere a ritroso nella catena causale sino a raggiungere l’antecedente causale più remoto, eliminato il quale l’evento non si sarebbe verificato (es. dalla fabbricazione dell’arma da fuoco al suo acquisto e al suo successivo utilizzo, giungendo, in ultimo, al decesso della vittima per effetto dello sparo).

Come correttivo della teoria condizionalistica sono state elaborate, dapprima la teoria della causalità adeguata che ravvisava la ricorrenza del nesso eziologico solo quando l’evento fosse prevedibile dall’uomo di media esperienza e, successivamente, la teoria della causalità umana che individuava l’elemento oggettivo del reato solo rispetto all’evento riconducibile entro la sfera di dominabilità dell’uomo.

Evidenti le commistioni tra piano oggettivo e soggettivo, innestandosi i concetti della prevedibilità e della dominabilità umana dell’evento, più propriamente nell’alveo dell’elemento psicologico del reato.

È solo in forza della causalità scientifica che la condotta può definirsi causa dell’evento quando, secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico, l’evento sia conseguenza certa o altamente probabile della condotta, eliminata la quale l’evento non si sarebbe verificato, con certezza o elevato grado di probabilità.

La causalità scientifica necessita della sussunzione del fatto entro leggi scientifiche di copertura, siano esse universali e certe, siano esse di tipo statistico probabilistico. Tale causalità si avvale, inoltre, del sapere probabilistico e delle massime di esperienza generalizzate che siano affidabili in quanto scientificamente fondate. È per il tramite del sapere probabilistico che si è giunti all’accertamento del nesso causale rispetto alla nota vicenda della talidomide, ossia del legame tra l’uso del farmaco da parte delle donne incinte e la nascita di neonati malformati.

Le leggi scientifiche di copertura sono idonee ad individuare la regolarità causale che avvince condotta ed evento, ricostruibile in termini di probabilità statistico-astratta. Ad essa deve far seguito l’accertamento che tenga conto di tutte le circostanze del caso concreto idonee ad esprimere una probabilità concreta, volta a corroborare il convincimento del giudice ad onta di una valutazione sorretta da probabilità logica e credibilità razionale. Ad un elevato grado di probabilità statistica (probabilità generale) può corrispondere un più basso grado di probabilità logica (concernente la c.d. probabilità individuale), ravvisandosi in concreto, l’operatività di fattori causali alternativi. È solo alla luce delle circostanze del caso concreto che è possibile vagliare la pertinenza di una data legge causale al singolo caso esprimendo una inferenza probatoria in grado di resistere al metro dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Questi gli approdi fondamentali raggiunti con la nota sentenza sul caso ThyssenKrupp (SS.UU. 38343/2014).

Ruolo nevralgico nella causalità scientifica è assunto dal giudizio controfattuale, da condurre ex post, considerando l’evento hic et nunc verificatosi. Si tratta di un giudizio di eliminazione mentale, contro i fatti realmente accaduti, il quale si conclude con l’accertamento della ricorrenza del nesso di causalità qualora, eliminata la condotta, anche l’evento verrebbe meno.

Se questo è lo statuto della causalità per le fattispecie commissive, non può diversamente discorrersi per quelle omissive improprie (il dibattito non può certamente involgere i reati omissivi propri quali fattispecie di pura condotta, sprovvisti, quindi, di evento in senso naturalistico). Sancisce, infatti, l’art. 40, comma 2, c.p., che “non impedire un evento che si aveva l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.

Unico è, dunque, lo statuto della causalità, così come precisato dalla nota sentenza Franzese (SS.UU. 11/09/2002 n.30328), considerato che, con certezza o elevata probabilità, posta in essere la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato, si sarebbe verificato con minore intensità lesiva o si sarebbe verificato in un’epoca significativamente posteriore.

1.2 I danni lungolatenti si presentano particolarmente insidiosi quanto all’accertamento del nesso di causalità, stante il notevole lasso temporale intercorrente tra la condotta dell’agente e la verificazione dell’evento, lasso temporale così ampio da consentire, talvolta, l’innesto di fattori causali sopravvenuti, rispetto ai quali è dubbio l’inquadramento entro l’art. 41, secondo comma, c.p., ossia entro le concause sopravvenute da sole idonee e sufficienti a causare l’evento e tali, dunque, da recidere il nesso eziologico con la condotta originaria.

Ebbene, l’espressione utilizzata dall’articolo summenzionato pare a-tecnica in quanto, trattandosi di fattori di per sé idonei a cagionare l’evento, dovrebbe parlarsi di serie causali autonome, da sole capaci di dispiegare efficienza eziologica rispetto all’evento e, quindi, tali da essere ricomprese entro la disciplina dell’art. 40 c.p., ponendosi rispetto ad esso, l’art. 41 c.p. quale inutile superfetazione o, comunque, come norma dalla portata pleonastica.

Autorevole dottrina è giunta a risolvere l’annosa querelle in ordine alle concause sopravvenute di cui al secondo comma dell’art.41 c.p. fornendone una interpretazione che tenga conto del caso fortuito e della forza maggiore di cui all’art. 45 c.p., mediante una lettura unitaria e congiunta delle due previsioni normative. L’art. 45 c.p. viene, quindi, ricondotto nell’ambito della causalità, considerandosi essa la giusta collocazione e non già quella della colpevolezza. Potrà, quindi, dirsi reciso il nesso di causalità tra condotta ed evento quando la condotta resti pur sempre condicio sine qua non dell’evento che, però, si verifica per effetto del fattore eccezionale che ha reso possibile il verificarsi dell’evento, neanche probabile secondo la migliore scienza ed esperienza.

Caso fortuito e forza maggiore escludono, infatti, non solo l’elemento psichico ma, più a monte, quello eziologico, non potendo prevedersi ciò che non era neanche probabile per la migliore scienza ed esperienza.

In forza di recenti arresti giurisprudenziali la causalità potrà escludersi per via di una condotta eccentrica che determini l’insorgenza di un rischio nuovo, incommensurabile e letale rispetto a quello originario (Cass. 15493/2016).

La disamina dei danni lungolatenti ha impegnato dottrina e giurisprudenza soprattutto rispetto agli eventi letali che vengono a colpire i dipendenti impiegati nelle fasi produttive di complessi contesti industriali per effetto della esposizioni alle polveri d’amianto e, successivamente, della contrazione del mesotelioma pleurico.

Ai fini dell’addebito, in termini di responsabilità, a carico del datore di lavoro, è bene considerare la posizione di garanzia in capo allo stesso gravante. Sancisce, infatti, l’art. 2087 c.c. che l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’attività d’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Posto che l’imprenditore è garante dell’integrità psico-fisica del dipendente e che la contrazione della patologia sino all’exitus può interessare un arco temporale alquanto ampio, problematico è stabilire quali tra i datori di lavoro succedutisi nel tempo, siano effettivamente responsabili.

È dubbio, dunque, se rilevi solo il momento della esposizione iniziale alla sostanza cancerogena o anche le successive esposizioni che incidono in termini di aggravamento o accelerazione del processo morboso. L’adesione alla seconda ipotesi – assolutamente non unanime – rende non necessaria la verifica del momento esatto in cui è avvenuta la prima esposizione scatenante, atteso che anche le successive sarebbero causalmente rilevanti determinando una accelerazione nello sviluppo del processo morboso. In tale senso, il giudice della nomofilachia con sentenza n. 11128/2015 relativa al caso Fincantieri di Palermo, ha sancito che le esposizioni alle sostanze cancerogene, successive all’innesco della patologia, rilevano eziologicamente, in quanto abbreviano la latenza anticipando la morte.

Affinché possa giungersi ad un accertamento connotato da elevata probabilità logica e credibilità razionale, è bene, inoltre, escludere l’interferenza di fattori alternativi, quali l’ambiente domestico connotato da scarse condizioni di salubrità, l’essere il lavoratore un accanito fumatore, o l’essere geneticamente predisposto alla contrazione di patologie morbose con risvolti letali. L’interferenza di tali fattori non consentirebbe di giungere ad un accertamento che vada al di là di ogni ragionevole dubbio.

2. Posto che la causalità materiale incentra il suo rilievo sul nesso esistente tra condotta (attiva od omissiva) ed evento, quali termini di un processo modificativo della realtà fenomenica, non può sottacersi la presenza, nel nostro codice, di ipotesi di causalità psichica. Con tale espressione ci si riferisce al condizionamento psicologico che un soggetto esercita nei confronti di altro soggetto, determinando quest’ultimo a tenere una condotta penalmente rilevante.  Dunque, il condizionamento psichico che orbita nel foro interno dell’agente è idoneo ad incidere sulla condotta di altro soggetto e, infine, a dispiegare efficienza eziologica rispetto al reato da quest’ultimo posto in essere.

Si pensi alla disciplina sull’errore indotto di cui all’art. 48 c.p. che prevede l’esclusione della punibilità del deceptus quando l’errore sul fatto che costituisce reato sia stato determinato dall’altrui inganno. In tal caso, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo, cioè il deceptor.

Altra ipotesi rispetto alla quale è ravvisabile l’efficienza eziologica dispiegata dal condizionamento psichico di un soggetto ai danni di altro soggetto è la truffa di cui all’art. 640 c.p., norma paradigmatica quanto a condotte fraudolente. La truffa è connotata da una serie di concatenazioni causali: 1) dagli artifici e raggiri all’induzione in errore della vittima; 2) dalla induzione in errore al compimento, da parte della vittima, di atti di disposizione patrimoniale; 3) dagli atti dispositivi alla verificazione dell’ingiusto profitto per l’agente  e del danno per la vittima. Si è al cospetto di una fattispecie plurisoggettiva impropria, laddove la cooperazione artificiosa della vittima è frutto della induzione in errore del truffatore e, dunque, del condizionamento psichico dallo stesso azionato.

L’incriminazione della condotta induttiva al compimento di atti dispositivi dannosi è ravvisabile anche nella circonvenzione di incapaci di cui all’art. 643 c.p.. E’ per effetto del condizionamento psichico posto in essere abusando della inesperienza del minore, dello stato di infermità o di deficienza psichica di una persona, che la vittima è indotta a compiere un atto dispositivo, per lui o per altri dannoso.

Altra fattispecie in cui è dato rinvenire gli estremi della causalità psichica è quella della concussione di cui all’art. 317 c.p.: l’abuso dei poteri funzionali-pubblicistici del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio elide la libertà di autodeterminazione della vittima che è indotta ad acconsentire alle promessa o alla dazione di denaro o altra utilità in forza della prospettazione di un male ingiusto e notevole (e non già per il conseguimento di un indebito vantaggio come nell’ipotesi contemplata dall’art. 319-quater c.p.).

Il contributo psichico può, senza dubbio, rilevare, rispetto alla applicabilità della clausola estensiva della punibilità di cui all’art. 110 c.p. da leggere in combinato disposto con la fattispecie monosoggettiva di parte speciale. L’apporto eziologico del concorrente, infatti, non è solo di tipo materiale, ben potendo attestarsi in termini di contributo morale sia sub specie di determinazione in altri dell’insorgenza del proposito criminoso prima inesistente, sia sotto forma di contributo meramente agevolatore che: a) rafforza il proposito criminoso già esistente; b) rende più agevole la perpetrazione del reato; c) favorisce la realizzazione di un reato più grave.

Può, all’uopo, essere illuminante il richiamo all’art. 115 c.p. che attribuisce rilievo penale alla istigazione, se ed in quanto abbia dispiegato efficienza eziologica rispetto al reato: se l’istigazione è stata accolta ma il reato non è stato commesso, la punibilità è esclusa. Qualora l’istigazione non sia stata accolta, e si è trattato d’istigazione a un delitto, l’istigatore può essere sottoposto a misura di sicurezza.

L’operatività della causalità psichica rispetto alla fattispecie concorsuale, chiama in gioco il c.d. concorso esterno in associazione mafiosa. Il contributo dell’extraneus è oggetto di incriminazione ex artt. 110 c.p. e 416 bis c.p. quando, pur in carenza della volontà di entrare a far parte del sodalizio criminoso, e al di là di un momento patologico e di crisi della cosca mafiosa, si sostanzi in un apporto quantomeno di tipo agevolatore sorretto dalla consapevolezza dell’efficienza causale dello stesso rispetto al rafforzamento della societas sceleris.

2.1 Ipotesi di gran lunga rilevante nell’indagine sulla causalità psichica è stata oggetto della pronuncia dei giudici della Corte di Cassazione  in ordine alla complessa vicenda relativa alle responsabilità della Commissione Grandi Rischi nel processo per il terremoto di L’Aquila (Cass. 25 marzo 2016 n.12478).  La sentenza ha confermato la responsabilità per omicidio colposo plurimo del Vicepresidente della Protezione civile, reo di aver rassicurato la popolazione aquilana, sostenendo l’opportunità di non abbandonare le proprie abitazioni in caso di scosse sismiche, che a parere dello stesso, non avrebbero potuto cagionare un evento devastante, come quello in concreto verificatosi.

L’affidabilità riposta dagli aquilani nelle parole rassicuranti di un soggetto particolarmente qualificato è stata considerata tale da generare un condizionamento psichico nelle vittime del terremoto, indotte, infatti, a non abbandonare le proprie abitazioni per la notte.

Il caso in esame desta notevole interesse in quanto, l’operatività della causalità psichica viene riconosciuta anche rispetto a fattispecie colpose, elemento tipizzante delle quali è la regola cautelare di condotta la cui osservanza è volta a scongiurare il rischio di verificazione dell’evento che, in concreto, si verifica. Ebbene, i giudici di piazza Cavour hanno precisato che, ai fini della individuazione della regola cautelare di condotta alla stregua della quale valutare la condotta dell’agente non è sufficiente il riferimento a norme che attribuiscono compiti senza l’individuazione delle prescrizioni modali. È necessario ravvisare il modello comportamentale al quale l’agente deve uniformarsi per scongiurare la verificazione dell’evento. A tal fine, sarà necessaria un’integrazione della norma impositiva di obblighi, o attraverso il richiamo a leggi, regolamenti, ordini o discipline (causalità specifica), ovvero mediante regole esperienziali. Non è infatti da escludere il ricorso a generalizzazioni esperienziali per inferire la regolarità causale tra fenomeni, quand’anche il processo causale sia azionato da un condizionamento psichico, sprovvisto dei caratteri della materialità. Dunque, sulla base di consolidate e riscontrabili massime di esperienza è possibile selezionare ex ante le condotte condizionanti (socialmente o culturalmente tipizzabili), così da sottoporre le stesse all’accertamento causale ex post.


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