Cause interruttive della prescrizione e responsabilità ex d.lgs. 231/2001

Cause interruttive della prescrizione e responsabilità ex d.lgs. 231/2001

La questione sottoposta ai giudici di legittimità

Con la sentenza 12 luglio 2019 n. 30634, la IV Sezione Penale della Corte di Cassazione torna ad occuparsi degli effetti interruttivi della prescrizione in tema di responsabilità degli enti ai sensi del dlgs. 231/2001. La questione concerne l’interpretazione dell’art. 22 c. 2 del citato decreto legislativo, in merito alla definizione del momento in cui possono prodursi gli effetti degli atti interruttivi della prescrizione, determinando così una nuovo termine quinquennale nonché la sospensione della prescrizione sino al passaggio in giudicato della sentenza nel caso in cui l’atto interruttivo sia identificabile con la contestazione dell’illecito amministrativo.

Il quadro normativo di riferimento

Giova ricordare che l’art. 22 dlgs. 231/2001  dispone che “le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato” (comma 1). Il medesimo articolo sancisce altresì che “interrompono la prescrizione la richiesta di applicazione di misure cautelari interdettive e la contestazione dell’illecito amministrativo a norma dell’articolo 59” (comma 2). Per effetto dell’interruzione inizia a decorrere un nuovo periodo di prescrizione (comma 3) e, nel caso in cui l’interruzione sia avvenuta mediante contestazione dell’illecito amministrativo, il comma 4 dell’articolo in parola stabilisce che “la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio”. Il richiamato articolo 59 prevede che “quando non dispone l’archiviazione, il pubblico ministero contesta all’ente l’illecito amministrativo dipendente dal reato. La contestazione dell’illecito è contenuta in uno degli atti indicati dall’art. 405, comma 1, del codice di procedura penale”. A questo punto occorre evidenziare le fondamentali distinzioni tra la prescrizione per così dire “classica”, prevista dal codice di procedura penale per le persone fisiche, e la prescrizione prevista per la responsabilità da reato degli enti. Innanzitutto il dlgs. 231/2001, stabilendo un termine unico di prescrizione per tutti gli illeciti di cinque anni, non prevede un termine massimo di durata della prescrizione, a differenza dell’art. 161 c.p. Questo comporta che nel momento in cui si verificano cause di interruzione della prescrizione, inizia a decorrere un nuovo periodo di prescrizione senza tuttavia la presenza di un tetto massimo di sbarramento. Tale diversità ha creato come prevedibile tensioni a livello costituzionale, a causa dell’irragionevole disparità di trattamento tra persone fisiche e persone giuridiche, in virtù della rilevante dilatazione del tempo necessario per prescrivere l’illecito amministrativo (cfr. Cass. Sez. VI, 7 luglio 2016 n. 28299). In secondo luogo giova soffermarsi sulla natura giuridica della prescrizione prevista per la responsabilità degli enti, ampiamente mutuata non già dal codice penale bensì dagli artt. 2943 e ss. c.c. e dalla  L. 689/1981 in tema di illeciti amministrativi. Tale assunto è desumibile tanto dalla relazione ministeriale al decreto 231/2001, dove si segnala, tra l’altro, che “il rinvio ad una regolamentazione di stampo civilistico rischia di dilatare eccessivamente il tempo di prescrizione dell’illecito amministrativo dell’ente, potendo persino favorire deprecabili prassi dilatorie, specie nei casi in cui si proceda separatamente nei confronti dell’ente”, quanto dalla Legge Delega 29 settembre 2000 n. 300, a cui poi è seguito il dlgs. 231/2001, nella parte in cui si statuisce all’articolo 11 lettera r) che “l’interruzione della prescrizione [sia] regolata dalle norme del codice civile”.

Gli orientamenti in materia e la soluzione della Suprema Corte

Nell’ambito dell’interruzione della prescrizione ad opera della contestazione dell’illecito amministrativo (ipotesi maggiormente esplorata dalla prassi rispetto alla richiesta di applicazione delle misure cautelari interdittive), sono sorti due distinti orientamenti giurisprudenziali in merito alla definizione del momento in cui l’illecito amministrativo possa dirsi correttamente contestato.

Il primo propende per l’applicazione della disciplina civilistica dell’interruzione della prescrizione anche per quanto riguarda il momento produttivo dell’effetto interruttivo, alla luce della natura recettizia dell’atto di contestazione. Tale indirizzo si basa sul tenore letterale del citato articolo 11 lettera r) della Legge Delega 300/2000, che come visto poc’anzi fa espressamente riferimento alle norme del codice civile per quanto concerne la normazione dell’interruzione della prescrizione. Su tale assunto si è sostenuto che l’atto interruttivo della prescrizione, conformemente con quanto disposto dal codice civile all’articolo 2943, deve essere effettivamente conosciuto dal soggetto a cui è notificato, avendo pertanto natura recettizia (sul punto si veda Cass. Sez. II, 26 marzo 2014, n. 27978). La presente soluzione ermeneutica troverebbe riscontro anche nella disciplina prevista dalla legge 689/1981 in tema di illeciti amministrativi, ove la giurisprudenza di legittimità ritiene che la prescrizione possa essere interrotta solo nel caso in cui il processo venga intrapreso a seguito di un rapporto correttamente notificato all’interessato ex artt. 14 e 24 L. 689/1981 (Cass. Sez. IV, 5 marzo 2000, n. 9090).

Un secondo orientamento, invece, ricorrendo ai principi giurisprudenziali sviluppatisi in tema di prescrizione del reato nei confronti delle persone fisiche, sostiene che la mera emissione (anche invalida) dell’atto di impulso dell’azione penale da parte del pubblico ministero sia sufficiente per la produzione degli effetti interruttivi della prescrizione, in quanto manifestazione dell’interesse dello Stato all’accertamento del reato. A tale indirizzo aderisce anche la pronuncia in commento, per le motivazioni di seguito esposte. La Suprema Corte infatti ritiene inconferente il richiamo all’articolo 11 lettera r) della Legge Delega n. 300/2000, distinguendo tra interruzione della prescrizione e atti interruttivi della stessa. Solo per quanto riguarda l’interruzione della prescrizione può infatti applicarsi la disciplina civilistica, in ossequio a quanto disposto dalla Legge Delega, mentre per quanto concerne invece gli atti interruttivi occorre valorizzare il richiamo dell’art. 59 dlgs. 231/2001 all’art 405 comma 1 c.p.p. che individua tra gli atti di contestazione dell’illecito la richiesta di rinvio a giudizio, “atto la cui efficacia prescinde dalla notifica alle parti”. Alla luce di tali considerazioni la Corte di Cassazione ha sostenuto che anche nel caso di responsabilità da reato degli enti “l’interruzione della prescrizione è posta a presidio della tutela della pretesa punitiva dello Stato, sicché il regime non può che essere quello previsto per l’interruzione della prescrizione nei confronti dell’imputato e coincidere con l’emissione della richiesta di rinvio a giudizio, in modo del tutto indipendente dalla sua notificazione”. L’inevitabile conseguenza di tale assunto si traduce nell’applicazione della giurisprudenza elaborata in tema di efficacia interruttiva di atti nulli, ritenuti idonei ad interrompere il decorso della prescrizione (ex multis Cass. Sez. II, 20 giugno 2018, n. 41012). La sentenza in commento si conclude con una considerazione sul tema, precedentemente accennato, della differenza in punto di  disciplina tra l’interruzione della prescrizione per i reati commessi dalle persone fisiche e gli illeciti degli enti. La Corte prende posizione in merito alla scelta operata dal legislatore, ritenendola esente da critiche in punto di ragionevolezza e disparità di trattamento, in considerazione della necessità di bilanciare il limite costituzionale dell’interesse generale previsto dall’art. 41 della Costituzione con la libertà di iniziativa economica imprenditoriale.


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