Chiarimenti sullo speciale permesso di soggiorno per genitori di minori stranieri

Chiarimenti sullo speciale permesso di soggiorno per genitori di minori stranieri

Il dibattito contemporaneo, si occupa quotidianamente del tema dell’immigrazione, ovvero, secondo l’insegnamento tradizionale, dello spostamento temporaneo o definitivo di individui dal Paese di origine ad altra destinazione.

Negli ultimi anni, l’attenzione si è focalizzata sulla discussa tematica della protezione internazionale e sul correlativo status di rifugiato.

In proposito, giova delineare che il quadro normativo di riferimento, in materia di protezione internazionale, è costituito dalla direttiva 2011/95/UE (che ha sostituito la direttiva 2004/83/CE) e, sul piano interno, dal D.lgs. 19 novembre 2007 n. 251, così come innovato dal D.lgs. 21 febbraio 2014, n. 18. Ai fini della definizione di “rifugiato”, l’art. 2 del D.lgs. n. 251 del 2007, definisce così il “cittadino straniero il quale, per fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate non può o, a causa di tale timore, non vuole farvi ritorno […]”.

L’art. 7 del citato testo normativo esemplifica le forme che gli atti di persecuzione possono assumere, mentre il successivo art. 8, al fine del riconoscimento dello status di rifugiato, definisce quali motivi della persecuzione gli atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale; i provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o armati in modo discriminatorio; le azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; il rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria; le azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissione di crimini, reati o atti considerati crimini di guerra o contro l’umanità; gli atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia.

Per quanto concerne la protezione sussidiaria, che può essere riconosciuta al cittadino straniero che non possieda i requisiti per ottenere lo status di rifugiato, ma nei cui confronti sussistano fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine (o, in caso di apolide, nel Paese in cui aveva precedentemente la dimora abituale) incorrerebbe nel rischio effettivo di subire un grave danno, l’art. 14 predefinisce i danni gravi che il ricorrente potrebbe subire, e precisa che sono considerati danni gravi: la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine; la minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.[1]

Per completezza espositiva, va posto in evidenza che l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, impone agli Stati contraenti di “non espellere o respingere – in qualsiasi modo – un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”.[2]

Fatta tale premessa, che l’immigrazione costituisca uno dei temi maggiormente dibattuti nell’attuale evo è cosa risaputa. Nella cornice a latere tratteggiata, profili di maggiore criticità, si riscontrano in merito all’interpretazione dell’art. 31, comma 3 del D.lgs. 286/1998 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), così come modificato dalle novelle legislative che fino ad oggi hanno innovato l’originario testo normativo.

Orbene, l’art. 31, comma 3 D.lgs. 286/1998, prevede la possibilità per il Tribunale per i minorenni di autorizzare l’ingresso o la permanenza del o dei genitori del minore per “gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel territorio italiano.”

Tale possibilità è consentita per un periodo di tempo determinato ed anche in deroga alle generali disposizioni concernenti la condizione giuridica dello straniero.

Al di là dell’interpretazione estensiva o meno della littera legis, l’art. 31 del d.lgs. n. 286/1998 rischia di diventare strumento per evadere la normativa nazionale disciplinante le procedure relative all’ingresso e al soggiorno dello straniero sul territorio nazionale.

Ciò premesso, si tratta, in ogni caso, di una norma che, come più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, non offre spunti per interpretazioni difformi dal significato delle parole.[3]

Secondo l’orientamento prevalente, al fine di tutelare i minori da pregiudizi psicofisici legati all’allontanamento familiare, occorre accertare se da tale contingenza derivi un “danno effettivo, concreto, percepibile e obiettivamente grave.” [4]

In altri termini, il disagio dovuto al rimpatrio, deve basarsi sulla sussistenza di gravi motivi legati ad una situazione oggettiva attuale.[5]

Quindi, secondo i più recenti orientamenti della Suprema Corte di Cassazione, non potrebbe assolutamente contemplarsi un utilizzo snaturato di tale permesso quale strumento per scavalcare le ordinarie procedure. In questo senso è stata altresì superata la precedente giurisprudenza che nell’allegato 3 della sentenza n. 2647/2011, mediante un’interpretazione estensiva, aveva formulato il principio di diritto secondo il quale: “La temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, prevista dall’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998 in presenza di gravi motivi connessi al suo sviluppo psico-fisico, non postula necessariamente l’esistenza di situazioni di emergenza o di circostanze contingenti ed eccezionali strettamente collegate alla sua salute, potendo comprendere qualsiasi danno effettivo, concreto, percepibile ed obbiettivamente grave che in considerazione dell’età o delle condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio psico-fisico deriva o deriverà certamente al minore dall’allontanamento del familiare o dal suo definitivo sradicamento dall’ambiente in cui è cresciuto. Trattasi di situazioni di per sé non di lunga o indeterminabile durata, e non aventi tendenziale stabilità che pur non prestandosi ad essere preventivamente catalogate e standardizzate, si concretano in eventi traumatici e non prevedibili nella vita del fanciullo che necessariamente trascendono il normale e comprensibile disagio del rimpatrio suo o del suo familiare”.[6]


[1] http://www.interno.gov.it/it/temi/immigrazione-e-asilo/protezione-internazionale
[2] Tale principio di non respingimento è noto in ambito internazionale come principio di non-refoulement.
[3] In tal senso, Cass. Civ., n. 747/2007; Cass. Civ., n. 10135/2007.
[4] Cass. Civ. n. 17861/2017.
[5] Corte di cassazione, Sez. Unite, n. 15750/2019
[6] Corte Cassazione n. 2647/2011, Cass. n. 5856/2010

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