Colpa medica, vecchi problemi e nuove prospettive: l’art. 590-sexies c.p.

Colpa medica, vecchi problemi e nuove prospettive: l’art. 590-sexies c.p.

Nell’ambito della colpa, e dettagliatamente nel campo della colpa professionale, particolare attenzione è stata dedicata dalla dottrina e dalla giurisprudenza al tema della responsabilità penale dell’esercente una professione sanitaria. In particolare, come si dirà da qui a breve, la colpa medica – sintetizzabile come colpa derivante dalla violazione delle legis artis sanitarie – ha rappresentato terreno fertile per l’avvicendamento di normative e interpretazioni diverse che, di volta in volta,  ne hanno ampliato e ristretto l’ambito di punibilità. Tale riflessione ha subito nel corso degli ultimi anni una decisa accelerazione come effetto di due distinti fenomeni: la crescita del timore verso la pratica della medicina difensiva[1], tanto positiva, quanto negativa[2], e il mutato rapporto con la classe medica latu sensu intesa. Il paziente ad oggi, infatti, non si limita a porsi inconsapevolmente e fideisticamente nelle mani del sanitario, ma è soggetto critico al quale il medico deve necessariamente e costantemente richiedere il preventivo consenso informato[3]. A ciò si aggiunga che perfino il rapporto con la malattia nelle società moderne ha subito una profonda rinnovazione, diventando quest’ultima un’eventualità da debellare sempre e comunque, indipendentemente dallo stato scientifico; in tale contesto il soggetto chiamato a risolvere il problema della malattia ha visto quasi trasformarsi la sua prestazione: non più solo di mezzi ma anche di risultato. Il processo penale rappresenta la sede nella quale le tensioni derivanti dai citati fenomeni si sono manifestate nella loro veste più acuta. Senza pretese di esaustività, appare necessario ricostruire, seppur brevemente, l’iter normativo e dottrinale che ha contribuito al delinearsi della situazione odierna.

Tradizionalmente nel settore della responsabilità sanitaria la giurisprudenza era solita assumere un atteggiamento di particolare mitezza nei confronti della condotta del medico, ciò in ragione delle difficoltà obiettive derivanti dall’esercizio della sua professione e dalla necessità di non imporgli eccessive cautele che ne avrebbero inibito in maniera eccessiva l’operato[4]. Tale mitezza era concretamente perseguita dai giudici attraverso la distinzione tra la colpa derivante da negligenza o imprudenza e quella derivante dall’imperizia dovuta a errori diagnostici o all’erroneo adattamento delle linee guida[5]. Nei primi due casi la responsabilità del medico sarebbe stata accertata secondo l’ordinaria regola prevista dall’art. 43, c. 3, c.p., il quale non distingue per ciò che concerne l’an respondeatur tra i diversi gradi di colpa, con conseguente rilevanza anche della colpa lievissima in caso di negligenza del medico. L’imperizia, al contrario, sarebbe stata valutata attraverso il richiamo al parametro esterno contenuto nella disposizione dell’art. 2236 c.c. il quale stabilisce il principio in base al quale nel caso in cui la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera risponde di eventuali danni solo nel caso in cui versi in colpa grave[6]. La dottrina maggioritaria avallò tale impostazione sulla base di motivi diversi: da una parte le preoccupazioni derivanti dalla complessità e rischiosità della professione medica portarono alla considerazione che non gravarla di eccessivi vincoli avrebbe impedito la “fuga da responsabilità” rappresentata dalla medicina difensiva; dall’altra si sottolineò che il richiamo all’art. 2236 c.p. avrebbe permesso l’uniformazione della repressione civile e penale, impedendo un irragionevole distinguo che avrebbe portato la punibilità penale di condotte ritenute lecite dal diritto civile. Tale indirizzo fu poi sostanzialmente avallato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 166 del 1973, attraverso la quale il giudice delle leggi escluse che il richiamo all’art. 2236 c.c. nell’ambito della responsabilità penale medica potesse delimitare una sorta di irragionevole privilegio nei confronti della categoria medica: la necessità di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o inerzie del professionista stesso, portarono la Corte a definire come ragionevole e correttamente circoscritta la scelta effettuata dalla giurisprudenza di limitare ai casi di colpa grave la punibilità per responsabilità derivante dall’imperizia del medico. [7] Ciononostante tale orientamento giurisprudenziale non riuscì a imporsi: all’atteggiamento di mitezza[8] delle prime pronunce ne seguì uno più rigoroso e del tutto contrario all’applicabilità dell’art. 2236 c.c. nell’ordinamento penale[9]. Tale mutamento è stato spiegato da parte della dottrina come frutto di una rinnovata e cresciuta sensibilità giurisprudenziale per la tutela dei diritti e dei beni del paziente-vittima[10].

La necessità di ancorare a canoni certi il giudizio di responsabilità – distintamente evidenziata dal legislatore nell’esigenza di sottrarre alla discrezionalità giurisprudenziale i requisiti di punibilità delle condotte colpose effettuate in ambito sanitario – nonché la finalità di favorire la categoria medica e di sottrarla ad un’eccessiva minaccia di repressione penale, rappresentano i presupposti che nel novembre del 2012 portarono il legislatore, attraverso L. 189 (nota come legge Balduzzi), a introdurre una normativa differenziata in tema di responsabilità colposa medica, per effetto della quale non sarebbe stato perseguibile il medico che, nello svolgimento della professione, si fosse attenuto alle linee guide e ciononostante fosse incappato in un errore dovuto a colpa lieve. Il testo dell’art. 3 della legge Balduzzi, oggi abrogato, prevedeva infatti: “L’esercente professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate nella Comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”. Il pregio di aver voluto risolvere i dilemmi applicativi in ordine all’art. 2236 c.c. non celò le insidie della norma, la quale venne definita dalla dottrina come “laconica e poco chiara”.[11] Il primo elemento di interesse della disposizione è certamente da ricercarsi nell’utilizzo della gradazione della colpa con riferimento alla punibilità stessa della condotta e non esclusivamente al quantum di pena. Come si è avuto modo di vedere in precedenza, l’art. 43, c. 3, c.p., prevede che la colpa sia sempre punibile, indipendentemente dalla sua gravità, la scelta del legislatore attraverso la legge Balduzzi fu quella di creare, a fianco a tale regola generale, una esplicita eccezione, in base alla quale la responsabilità del professionista in ambito sanitario che si fosse attenuto alle linee guida e alle c.d. best practices, sarebbe stata affermabile solo per colpa grave. Il gap di chiarezza della norma venne colmato, parzialmente, solo dall’intervento della giurisprudenza di legittimità, la quale cercò di definirne l’ambito di applicabilità. Il primo elemento sul quale dottrina e giurisprudenza si interrogarono fu la corretta interpretazione delle linee guida: in particolare ci si domandò come potesse coniugarsi il sostanziale rispetto delle linee guida con la colpa del medico. Tale quesito portò all’elaborazione dei concetti di “errore nella scelta” e “errore nell’adattamento”[12] delle best practices. La giurisprudenza in virtù di tale distinzione ricondusse la causa di non punibilità introdotta dalla disposizione citata ai casi in cui il medico, pur essendosi orientato correttamente in ambito diagnostico, scegliendo le linee guida adeguate al caso concreto, nel concreto farsi del trattamento terapeutico fosse incappato in qualche errore pertinente all’adattamento delle suddette linee guida alle evenienze e alle peculiarità dello specifico caso clinico, in tale circostanza la condotta del professionista sarebbe stata perseguibile solo laddove l’errore fosse stato qualificabile come grave.[13] A tale evenienza, definita dalla dottrina come “adempimento imperfetto”[14], la giurisprudenza affiancò quella inerente i c.d. “adempimenti inopportuni”, rappresentati dal mancato riconoscimento da parte del professionista dell’esigenza di discostarsi dalle linee guida inizialmente correttamente individuate, in virtù delle peculiarità del caso specifico. Il secondo elemento di vaghezza della norma fu rappresentato dal concetto di colpa grave: come definirla in mancanza di puntuali definizioni legislative? Ancora una volta è stata la giurisprudenza di legittimità a sopperire al gap di chiarezza della disposizione. E’ stata la Suprema Corte, infatti, a delineare alcuni criteri per effettuare una corretta distinzione fra colpa grave e colpa lieve, chiarendo in particolare che fosse possibile parlare di colpa grave ai sensi dell’art. 3 della legge 189/2012 in tutti quei casi in cui vi fosse una “deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato, come definito dalle linee guida e dalle best practices, tenuto conto della necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia ed alle specifiche condizioni del paziente”[15] Diversamente, in caso di una situazione clinica particolarmente complessa, oscura o equivoca, maggiore sarebbe dovuta essere la propensione a considerare lieve l’addebito nei confronti del medico che uniformatosi alle linee guida, non abbia poi saputo correttamente adattare le stesse alle specificità del caso clinico. La parziale uniformità che la giurisprudenza dimostrò nell’analisi del ruolo delle linee guida e nella definizione del concetto di colpa grave, venne meno in riferimento all’ambito di applicazione della disciplina in relazione ai tre tipi di colpa generica: negligenza, imprudenza e imperizia. La Suprema Corte e la dottrina si interrogarono se la restrizione della punibilità per colpa lieve introdotta dalla legge Balduzzi fosse riferibile esclusivamente ai casi di imperizia o fosse estendibile anche alle ipotesi di errori connotati da profili diversi di colpa generica. Inizialmente la giurisprudenza di legittimità si espresse nel senso che la limitazione di responsabilità fosse applicabile solo nei casi di imperizia, rappresentante una tipologia di colpa a sé stante e non una declinazione professionale di negligenza e imprudenza[16], ciò sulla base di due diverse considerazioni: in primis venne valorizzato il filone giurisprudenziale precedentemente analizzato sviluppatosi in assenza della disciplina Balduzzi, in base al quale l’applicabilità dell’art. 2236 c.c. era limitata ai casi di imperizia[17]; in secundis, si affermò che le linee guida, baricentro della disciplina penale della L. Balduzzi, fossero riconducibili esclusivamente a profili di perizia. Il secondo orientamento formatosi in capo alla Suprema Corte[18], invece, accolse la soluzione opposta, in base alla quale, chiarita l’arbitrarietà dell’argomentazione volta a ricondurre necessariamente i precetti delle linee guida alla perizia, la limitazione di responsabilità, in assenza di un esplicito riferimento legislativo, fosse applicabile anche “nelle ipotesi di errori connotati da profili di colpa generica diversi dall’imperizia”.

Da quanto detto appare evidente che neppure la L. Balduzzi, nonostante le premesse iniziali, sia riuscita a chiarire con nettezza i confini delle responsabilità penale per gli esercenti una professione sanitaria. Il malcontento mostrato dagli esperti del settore e le critiche della dottrina alla mancata chiarezza della disciplina[19], rappresentano il retroterra applicativo sul quale viene ad operare la recente normativa introdotta dalla c.d. legge Gelli-Bianco (l. n. 24/2017), interamente sostitutiva dell’analizzata disciplina Balduzzi. Non stupisce, alla luce di quanto detto, che la nuova normativa in tema di responsabilità sanitaria sia intervenuta nuovamente nell’ambito della colpevolezza penale introducendo all’interno del codice penale l’art. 590-sexies, il quale sostituendo interamente il precedente art. 3 della L. Balduzzi, sancisce che: “se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene previste salvo quanto disposto dal secondo comma. Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”. In premessa all’analisi del dibattito giurisprudenziale e dottrinale sorto in seguito all’introduzione della norma appena citata, vale la pena sottolineare immediatamente le differenze che la distinguono dalla precedente disciplina poc’anzi analizzata: viene meno alcun riferimento alla gradazione della colpa[20]; vengono ignorati i moniti della Corte di legittimità attraverso l’inserimento espresso dell’imperizia nel testo di legge, con conseguente esclusione dell’applicabilità ai casi di negligenza e imprudenza; l’ambito di applicazione della causa di non punibilità viene inoltre circoscritto attraverso una espressa clausola di adeguatezza delle linee guida applicate, in precedenza assente. Come si anticipava, la mancanza di chiarezza del nuovo art. 590-sexies e i conseguenti dubbi in ordine alla sua corretta interpretazione e ai rapporti intertemporali fra la nuova disposizione e la precedente norma disciplinata dalla L. Balduzzi, hanno dato vita a differenti e contrapposte letture, che, a fronte di due sole sentenze[21], hanno reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite dopo appena un anno dall’entrata in vigore della norma. Vale la pena, seppur brevemente, riassumere i due orientamenti sorti in seno alla Corte di legittimità. La prima presa di posizione è quella effettuata dalla sentenza Tarabori[22] nell’aprile del 2017. In tale sentenza la Suprema Corte si è espressa in maniera particolarmente critica nei confronti della disposizione contenuta all’art. 590-sexies, la quale sarebbe formata da “tratti di ovvietà” accompagnati “da un’incompatibilità logica” e da alti dubbi interpretativi: l’interpretazione letterale, secondo la citata sentenza, porterebbe infatti a un’inammissibile esclusione di responsabilità per tutti quei medici che – pur avendo causato un evento lesivo per imperizia (anche grave, data l’assenza di riferimenti alla gradazione) -, abbiano in qualche momento della relazione terapeutica, applicato le linee guida qualificate. Una simile interpretazione è stata quindi respinta dalla Cassazione nella sentenza citata, anche sulla base dell’ “irreparabile vulnus” al diritto alla salute che ne sarebbe derivato. Ciò ha portato la Suprema Corte a elaborare una surrettizia interpretatio abrogans dell’art. 590-sexies, il quale alla luce di ciò non rappresenterebbe una causa di esclusione della punibilità, nonostante il dato letterale, quanto bensì una regola di parametrazione della colpa la quale si limita a riconoscere al medico la “sola pretesa di vedere giudicato il proprio comportamento alla stregua delle medesime direttive impostegli”. Ne conseguirebbe che la disciplina della L. Balduzzi sarebbe sempre più favorevole, in quanto espressamente limitativa della responsabilità ai soli casi di colpa grave. Questa prima impostazione è stata immediatamente seguita da una seconda sentenza della Suprema Corte, la  c.d. sentenza Cavazza[23], la quale ha radicalmente cambiato regime interpretativo, adottando una lettura della norma maggiormente vicina al dato letterale. Tale seconda sentenza, infatti, ha inteso esplicitamente ritenere che la nuova disposizione codicistica abbia inserito all’interno dell’ordinamento una nuova causa di esclusione della punibilità[24], la quale si applica ai soli casi di imperizia che si siano manifestati attraverso un adempimento imperfetto di linee guide correttamente individuate. La causa di non punibilità – quindi – troverebbe il proprio terreno applicativo nei c.d. errori di esecuzione dovuti a imperizia – indipendentemente – in virtù della mancanza di alcun riferimento legislativo in proposito, dal loro grado di colpa. Il contrasto appena riassunto ha determinato la necessità di un intervento delle Sezioni Unite, chiamate a determinare l’ambito di applicabilità, in tema di responsabilità colposa dell’esercente la professione sanitaria, della causa di “non punibilità” prevista dal nuovo art. 590-sexies. La Suprema Corte nella sua massima composizione, ha fornito una risposta dalla quale emerge con chiarezza il tentativo di mediare tra i due orientamenti giurisprudenziali appena descritti: il risultato è un’interpretazione del tutto nuova della disposizione che esplicitamente reintroduce la gradazione della colpa nella disposizione pur in assenza del dato letterale[25]. La prima presa di posizione riguarda la possibilità di distinguere distintamente in ambito sanitario l’imperizia dalle altre forme di colpa generica, queste ultime espressamente – secondo l’interpretazione della Corte – poste al di fuori dell’ambito di applicabilità della  nuova causa di non punibilità.[26] Il secondo elemento di analisi effettuato dalle Sezioni Unite riguarda il riferimento all’adeguatezza delle linee guida applicate: esso, infatti, richiama quanto già era stato elaborato dalla dottrina in riferimento alla L. Balduzzi in tema di “errori nella scelta” e “errori nell’attuazione”, solo questi ultimi sarebbero in grado di rendere operativa la clausola di esclusione della responsabilità penale. Circoscrivendo l’ambito di applicabilità  dell’art. 590-sexies agli errori esecutivi la Corte esclude espressamente che questi possa trovare applicazione in ordine ai casi di errore nella scelta della linea guida applicabile. Ad essere esentati da responsabilità non sarebbero però tutti gli errori di adattamento delle linee guida, bensì solo quelli che si siano manifestati in una minima divergenza dal miglior paradigma attuativo delle best practices: la soluzione alla quale perviene la Corte è quella, quindi, di “circoscrivere un ambito o, se si vuole, un grado della colpa che, per la sua limitata entità, si renda compatibile con la attestazione che il sanitario in tal modo colpevole è tributario della esenzione dalla pena per aver rispettato, nel complesso, le raccomandazioni derivanti da linee-guida adeguate al caso di specie”. Appare evidente, alla luce di ciò, che la Corte sia pervenuta a reintrodurre la graduazione della colpa che il legislatore aveva esplicitamente eliminato, ciò sulla base di due osservazioni: ritiene la Corte che permanga, all’interno dell’ordinamento penale in materia sanitaria, una residua valenza dell’art. 2236 c.c. quale principio di razionalità e regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia; ciò sarebbe confermato anche alla luce dei lavori parlamentari dai quali deriverebbe che “la colpa lieve è rimasta intrinseca alla formulazione del nuovo precetto, posto che la costruzione della esenzione da pena per il sanitario complessivamente rispettoso delle raccomandazioni accreditate in tanto si comprende in quanto tale rispetto non sia riuscito a eliminare la commissione di errore colpevole non grave, eppure causativo dell’evento. Alla luce, quindi, della richiamata interpretazione della causa di non punibilità disciplinata dall’art. 590-sexies effettuata dalle Sezioni Unite, la responsabilità penale colposa del sanitario sarebbe possibile:

– se l’evento di è verificato per colpa – anche lieve – da negligenza o imprudenza;

– se l’evento si è verificato per colpa – anche lieve – da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee guida o dalle buone pratiche clinico assistenziali;

– se l’evento si è verificato per colpa – anche lieve – da imperizia nell’individuazione e nelle scelte di linee guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto;

– se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee guida o buone pratiche adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico.

Nonostante l’evidente sforzo di chiarificazione effettuato dalla Corte di Cassazione nella sua massima composizione, molteplici sono i dubbi che permangono sulla corretta applicazione della norma citata che, contrariamente alle premesse che ne hanno portato all’introduzione, rischiano di rendere perfino più incerto l’ambito di punibilità delle condotte colpose in ambito sanitario, alimentando così quei fenomeni di medicina difensiva che la riforma mirava a diminuire. Soltanto la futura prassi potrà chiarire se la giurisprudenza sarà in grado di effettuare una corretta distinzione fra errori inerenti la selezione delle linee guida e il loro corretto adattamento. Non si può fare a meno di rilevare, in ogni caso, che desta per lo meno delle perplessità la scelta del legislatore di escludere dal regime di favore l’errore diagnostico il quale, in virtù delle difficoltà ad esso intrinseche, rappresenta spesso terreno fertile per gli errori, anche lievi, degli esercenti la professione sanitaria. Tale assunto potrebbe in futuro – secondo chi scrive – portare ad una rinnovata valorizzazione dell’art. 2236 c.c., limitatamente alla fase di selezione delle best practices.

 

 

 

 


[1] Cfr., tra gli altri: G. Forti – M. Catino – F. D’Alessandro – C. Mazzucato – G. Varrasso (a cura di),  Il problema della medicina difensiva. Una proposta di riforma in materia di responsabilità penale nell’ambito dell’attività sanitaria e gestione del contenzioso legato al rischio clinico, Pisa, 2010.
[2] V. Roiati, Medicina difensiva e c. professionale medica in dir. Pen., Milano, 2012.
[3] B. Romano (a cura di), La responsabilità penale degli esercenti una professione sanitaria, in Sanità-Diritto-Economia, diretta da G. Alpa – G. Garofalo – L. Di Donna – B. Romano, in fase di pubblicazione.
[4] Cfr. G. Fiandaca – E. Musco, Diritto Penale Parte Generale, Torino, pag. 572.
[5] V. Cass., 21 ottobre 1970, in RIDPP, pp. 259 ss., con nota di A. Crespi, La colpa grave nell’esercizio dell’attività medico-chirurgica.
[6] Sul concetto di colpa grave in ambito sanitario si v. infra.
[7] La sentenza è reperibile in www.cortecostituzionale.it; per una nota si v. G. Marinucci – E. Dolcini, Trattato di diritto penale – Parte Speciale, Padova, 2009, p. 324.
[8] Per la cui analisi si v. F. Giunta – D. Micheletti – P. Piras, Il diritto penale della medicina nella giurisprudenza di legittimità, Pisa, 2009.
[9] Cfr. D. Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009.
[10]Cfr. G. Fiandaca – E. Musco, Diritto Penale – Parte Generale, Torino, pag. 572.
[11] Cfr. G. Fiandaca – E. Musco, ibidem.
[12] M. Caputo, I nuovi limiti alla sanzione penale, in M. Lovo – L. Nocco (a cura di), La nuova responsabilità sanitaria, E-book del 13 febbraio 2017, pp. 21 e ss.
[13] V. Cass., Sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 16237, in Dirittopenalecontemporaneo.it, con nota di F. Viganò, Linee guida, sapere scientifico e responsabilità del medico in una importante sentenza della Cassazione.
[14] Per una completa analisi si V. G.M. Caletti – M.L. Mattheudakis, Una prima lettura della legge “Gelli-Bianco”, in Dir. Pen. Proc., 2017, 576.
[15] Cfr. Cass. 29 gennaio 2013, n. 16237, in Dir. Pen. Cont., 2013, con note di Pulitanò, Responsabilità medica: letture divergenti del novum legislativo, e di Roiati, Il ruolo del sapere scientifico e l’individuazione della colpa lieve nel cono d’ombra della prescrizione.
[16] In senso contrario a questa impostazione M. Gallo, Colpa penale (dir. Vig.), in Enc. Dir., VII, 1969, 641; G. Marinucci, La colpa per inossrvanza di leggi, Milano, 1965, 216; F. Sgubbi, Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1975, 159; F. Mantovani, Colpa in Dig. Disc. Pen., II, 1988, 308; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale – Parte genarele.
[17] V. supra.
[18] Cristallizzato nella c.d. sentenza “Denegri” Cass. Pen., Sez. IV, 11 maggio 2016, n. 23283, in Dir. Pen. Cont., 27 giugno 2016, con nota di C. Cupelli, La colpa lieve del medico tra imperizia, imprudenza e negligenza.
[19] Si v. Ad esempio F. Mantovani, Diritto Penale – Parte generale, 9° edizione, Milano, p. 346.
[20] Parte della dottrina, precedentemente all’intervento delle Sezioni Unite che ha surrettiziamente reinserito il riferimento del grado della colpa, ha aspramente criticato tale novum, sottolineando come esso spazzi “via dall’ordinamento quel già esiguo spazio di non punibilità creato dalla legge Balduzzi, che essendo quindi più favorevole sarà ancora applicabile ai fatti pregressi” P. Piras, Imperitia sine culpa non datur, cit.
[21] Entrambe pronunciate dalla Sez. IV.
[22] Cass. Pen., Sez. IV, 20 aprile 2017, n. 28187, in Dir. Pen. Cont., 13 giugno 2017 con nota di C. Cupelli, La Legge Gelli-Bianco e il primo vaglio della Cassazione: linee guida sì, ma con giudizio.
[23] Cass. Pen. Sez. IV, sent. 19 ottobre 2017, n. 50078, in Dir. Pen. Cont., 7 novembre 2017, con nota di C. Cupelli, Quale (non) punibilità per l’imperizia? La Cassazione torna sull’ambito applicativo della legge Gelli-Bianco ed emerge il contrasto: si avvicinano le Sezioni Unite.
[24] Per la contraria dottrina che qualifica la disposizione come una causa di esclusione della tipicità si v. F. D’Alessandro, La responsabilità penale del sanitario alla luce della riforma Gelli-Bianco, in Dir. Pen. Proc., 2017, 576.
[25] Cass., Sez. Unite, sent. 21 dicembre 2017, n. 8770, Mariotti. – con nota di C. Brusco, Responsabilità medica penale: le Sezioni Unite applicano le regole sulla responsabilità civile del prestatore d’opera, in Dir. Pen. Proc., 2018, 646 e ss.
[26] In senso critico rispetto a tale presa di posizione si v. R. Alagna, La controriforma della colpa penale nell’attività medica, in Resp. Civ. Prev., 2017,  1481 e ss: “privo di fondamento epistemiologico e di gittata euristica, al termine imperizia non si può attribuire alcun contenuto di senso che possa ontologicamente distinguerlo da quelli affidati ai termini negligenza e imprudenza”.

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Avvocato penalista full-time, docente part-time. Ho coniugato il mio amore per il diritto con la passione per le materie scientifiche specializzandomi nell'ambito della responsabilità degli operatori sanitari, della quale mi occupo nel duplice campo dell'attività forense e della ricerca. Collaboro con le cattedre di Diritto Penale II e Diritto Penale dell'Economia presso l'Università della Calabria in qualità di cultore della materia. Ricopro inoltre il ruolo di professore a contratto di Diritto Penale presso la S.S.M.L. Adriano Macagno. Partecipo ai corsi di preparazione agli esami di abilitazione da Operatore Socio Sanitario occupandomi del modulo relativo alla legislazione sanitaria. Nell'ambito della ricerca mi sono inoltre occupato della governance di internet approfondendo argomenti quali il D.N.S. e la Net Neutrality. Collaboro con riviste giuridiche quali Ratiojuris.it, Revista de direito da administração pública di Rio de Janeiro e Altalex.

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