Coltivazione di sostanze stupefacenti e principio di offensività: l’approdo delle Sezioni Unite

Coltivazione di sostanze stupefacenti e principio di offensività: l’approdo delle Sezioni Unite

Il reato di coltivazione di droga ha sollevato la questione relativa all’offensività o meno di determinate modalità di estrinsecazione di tale condotta, con conseguente proliferazione di numerose opzioni interpretative che hanno reso necessario l’intervento chiarificatore sia da parte della Corte di Cassazione che della stessa Corte costituzionale.

La disciplina in questione è principalmente quella oggi dettata dagli artt. 73, co. 1 e 2, 75 del d.P.R. 309/1990, quale risultante dalla sentenza n. 32/2914 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità delle principali innovazioni introdotte dal d.l. 272/2005, convertito con modificazioni in l. 49/2006.

Quanto alla delimitazione dei comportamenti incriminati, prima del referendum abrogativo del 1993, veniva adoperato un criterio oggettivo-quantitativo per discernere tra condotte penalmente o solo amministrativamente rilevanti: costituivano, infatti, mero illecito amministrativo l’acquisto, l’importazione e la detenzione per uso personale, nel limite del quantitativo corrispondente alla “dose media giornaliera”. Un tale limite operava pertanto come elemento negativo della fattispecie, questa identificandosi nella detenzione di sostanze contenenti un quantitativo di principio superiore al massimo consentito.

Col referendum abrogativo del 1993, sono state abrogate le norme che sanzionavano penalmente il procacciamento e la detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti ed in particolare dell’inciso, contenuto nel primo comma dell’art. 75, che escludeva la rilevanza penale della sola ricezione e detenzione di sostanza stupefacente in dose non superiore a quella media giornaliera. Ne consegue che l’acquisto per uso personale di stupefacente è comportamento illegale (perché vietato dal citato art. 75, che lo sanziona in via amministrativa) ma in ogni caso penalmente irrilevante; correlativamente, la norma incriminatrice contenuta nell’art. 73 del T.U. va interpretata nel senso che le condotte ivi descritte (limitatamente all’importazione, acquisto o illecita detenzione) sono riferite in via esclusiva all’ipotesi in cui emerga la destinazione ad uso di terzi, e non personale, delle sostanze stupefacenti detenute o acquistate.

Per le condotte di ricezione, acquisto e detenzione, l’odierna disciplina adotta quindi, quale indice di rilevanza penale, quello finalistico della destinazione della sostanza stupefacente.

Sennonché, la questione è sorta perché il referendum abrogativo del 1993 e il d.P.R. n. 171/1993 che vi ha dato attuazione non hanno riguardato, invece, la coltivazione delle piante indicate nell’art. 26 del d.P.R. 309, destinata così a conservare illiceità penale anche se non finalizzata allo spaccio.

Ed invero, il principio di offensività “in concreto” ha trovato una sua specifica declinazione nella materia degli stupefacenti a partire dalla sentenza n. 443/1994 attraverso cui la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale, relativa agli artt. 28, 72, 73 e 75 D.P.R. 309/1990, che era stata sollevata per la prospettata violazione dei principi di parità di trattamento e di ragionevolezza, nella parte in cui le disposizioni richiamate non escludevano l’illiceità penale delle condotte di coltivazione o fabbricazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all’uso personale: in tale occasione, la Corte ha stigmatizzato l’omessa verifica da parte del giudice remittente di un’interpretazione adeguatrice delle norme impugnate, precisando che lo stesso si sarebbe dovuto porre il problema di accertare se proprio la parziale depenalizzazione della condotta di mera detenzione fosse estensibile anche a quelle di coltivazione e fabbricazione laddove il prodotto finale fosse destinato al soddisfacimento di esigenze esclusivamente proprie.

Qualche anno più tardi, la questione è stata nuovamente sottoposta al vaglio della Corte costituzionale, tra l’altro per violazione del principio di offensività da parte dell’art. 26 del d.P.R. 309, nella parte in cui prevede l’illiceità penale della condotta indipendentemente dalla quantità di principio attivo contenuto nel prodotto della coltivazione.  In particolare, nel 1995, la Corte ha dichiarato infondata la questione, sull’assunto secondo cui l’accertamento circa l’assoluta inidoneità della coltivazione a mettere a repentaglio il bene protetto dalla norma spetta al giudice di merito.

Nella sentenza in questione, la Corte ha sostenuto altresì che l’illiceità penale delle condotte di coltivazione, anche se univocamente destinate all’uso personale, resiste anche alla verifica condotta alla stregua del principio di offensività nella sua dimensione di limite costituzionale alla discrezionalità del legislatore. Ciò che in sostanza veniva, in tal caso, ipotizzato dal remittente era da un lato la violazione del principio di uguaglianza laddove l’art. 75 T.U. non prevedeva la punibilità con sanzioni amministrative anche dell’attività di coltivazione di piante da cui erano estraibili sostanze stupefacenti per uso personale al pari delle condotte di importazione, acquisto e detenzione, e dall’altro la violazione da parte dell’art. 73 T.U. del principio di offensività nell’ipotesi in cui la coltivazione dia luogo a quantità (o qualità) di infiorescenze dalle quali non sia ricavabile il principio attivo in misura sufficiente a produrre l’effetto “drogante” potenzialmente lesivo nel caso di successiva assunzione.

In primo luogo, la Corte costituzionale esclude il contrasto della disciplina con l’art. 3 Cost., sul rilievo dell’insussistenza della dedotta disparità di trattamento riservato rispettivamente alle condotte di detenzione e di acquisto da un lato e della coltivazione dall’altro. A detta della Corte costituzionale, infatti, detenzione e acquisto – il cui rilievo penale era subordinato al riscontro della destinazione al terzo della sostanza stupefacente detenuta o acquistata – erano caratterizzate da quel nesso di immediatezza con l’uso personale che giustificava un minor rigore da parte del legislatore nei casi di contiguità tra condotta di acquisto e detenzione e consumo, dal momento che il quantitativo di stupefacente ben poteva essere certo e determinato; invece, nel caso della coltivazione – assoggettata a pena a prescindere da ogni accertamento in merito alla destinazione della sostanza estratta dalla pianta coltivata – non era apprezzabile a priori, con sufficiente grado di certezza, la quantità di prodotto ricavabile dal ciclo produttivo in atto, con la conseguenza che la valutazione circa la destinazione della sostanza ad uso personale piuttosto che allo spaccio si presentava piuttosto ipotetica.

Quanto alla dedotta violazione del principio di offensività, la Corte distingue l’accezione astratta di detto principio dall’accezione in concreto. Quanto all’offensività astratta che, rivolta al legislatore, gli impone di incriminare condotte lesive o pericolose di beni giuridici meritevoli di tutela, la Corte non manca di evidenziare come l’incriminazione della condotta di coltivazione risponda all’esigenza di presidiare beni meritevoli di tutela, in specie quello della salute, esposto a pericolo per effetto di condotte implicanti la produzione di nuove sostanze stupefacenti; in tale occasione, i giudizi costituzionali evidenziano anche che l’astratta pericolosità della condotta di coltivazione deriva anche dall’impossibilità di determinare a priori il prodotto stupefacente ricavabile e la sua potenzialità diffusiva.   La stessa Corte chiarisce poi che spetta al giudice di merito l’offensività in concreto, la quale gli impone di optare per interpretazioni della norma incriminatrice coerenti, per quanto possibile, con l’esigenza di assicurare la lesività o pericolosità della singola condotta, ossia la sua concreta inidoneità a mettere in pericolo il bene giuridico tutelato, dovendosi ritenere in tal caso, in mancanza appunto anche un grado minimo di offensività, la condotta non punibile.  La Corte costituzionale precisa che, in questi casi, il discrimine con l’illiceità penale non è costituito dalla destinazione ad uso di terzi ma – sempre che venga esclusa questa destinazione – dall’inesistenza dell’offensività in concreto: nell’esprimere tale concetto, i giudici costituzionali fanno l’esempio della coltivazione di una sola pianta da cui possa estrarsi un esiguo quantitativo di sostanza insufficiente a provocare un apprezzabile stato stupefacente.

Superata la questione di costituzionalità, nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale si è posta la questione relativa ai criteri di interpretazione della disciplina penale della condotta di coltivazione: si tratta, in particolare, di stabilire se il principio di offensività possa fungere da criterio di interpretazione della disposizione incriminatrice.

Gli orientamenti che si sono contrapposti possono essere sintetizzati nei termini che seguono.

Secondo una prima tesi, che valorizza la natura di tale reato quale fattispecie di pericolo astratto, poiché il legislatore, come invece ha fatto per altre condotte, non ha preso in considerazione la destinazione finale della sostanza prodotta attraverso la coltivazione, anche in presenza di un esiguo numero di piantine, deve sempre ritenersi integrato il delitto di cui all’art. 73 T.U., con conseguente irrilevanza, quindi, sia di fattori qualitativi (grado di tossicità) che quantitativi (numero di piantine coltivate).

Secondo un’altra tesi, che avvalora piuttosto la natura di reato di pericolo concreto della fattispecie in questione, è da escludere la configurabilità dello stesso nelle ipotesi di un dato quantitativo estremamente ridotto, legato ad esempio alla coltivazione di un solo esemplare di piantina proibita.

Un terzo orientamento, infine, dopo avere distinto tra coltivazione tecnico-agraria (caratterizzata da un elevato coefficiente tecnologico ed organizzativo) e coltivazione domestica (effettuata in via approssimativa e rudimentale), sostiene che deve essere esclusa la rilevanza penale solo di tale ultima tipologia di coltivazione finalizzata all’uso personale dello stupefacente, equiparando quindi sostanzialmente tale condotta a quella della mera detenzione.

Alla luce del menzionato contrasto giurisprudenziale, la questione relativa alla rilevanza penale della attività di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando la stessa sia realizzata per uso esclusivamente personale, è stata rimessa alle Sezioni Unite. Queste ultime, nel 2008 – richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 360/1995 – hanno evidenziato che la condotta di “coltivazione” non è stata richiamata nell’art. 73 del novellato d.P.R. n. 309/1990, sicché la stessa mantiene sempre e comunque la rilevanza penale, indipendentemente dalle caratteristiche della coltivazione e dal quantitativo del principio attivo ricavabile dalle piante da stupefacenti. A tale conclusione le Sezioni Unite sono giunte, da un lato, reputando arbitraria la distinzione tra coltivazione tecnico-agraria e quella domestica dal momento che non era legittimata dal dato letterale della norma, dall’altro lato, rilevando che la circostanza che gli artt. 27, 29 e 30, d.P.R. n. 309/1990 contengano norme particolari  per la concessione delle autorizzazioni alla coltivazione (quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti) non può essere interpretata nel senso che le attività di coltivazione che non abbiano siffatti requisiti non siano soggette ad autorizzazione, e quindi siano lecite, ma solo che l’autorizzazione, per usi di ricerca o didattici, può essere concessa esclusivamente in presenza di questi elementi, sicché mai potrebbe essere autorizzata una coltivazione domestica per uso personale.  Per tal via le Sezioni Unite hanno concluso per la rilevanza penale della coltivazione, ancorché ad uso personale.

Infine, le Sezioni Unite, attraverso la sentenza in esame, hanno valorizzato il principio di offensività che non solo opera in “astratto”, ossia in punto di costruzione da parte del legislatore di ogni singola fattispecie incriminatrice, ma anche in “concreto” quale criterio interpretativo affidato al giudice, che deve appunto verificare se la condotta di volta in volta contestata all’agente, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva, la quale si definisce tale solo se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo, sicché l’offensività non ricorre solo se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. Nonostante tale intervento chiarificatore del 2008, la stessa giurisprudenza di legittimità ha continuato successivamente ad essere divisa in punto di declinazione del concetto di “offensività in concreto”, assestandosi prevalentemente su due filoni interpretativi.

Secondo un primo indirizzo l’aspetto centrale consisteva nella verifica dell’efficacia drogante delle sostanze ricavabili dalle colture da parte della polizia giudiziaria all’atto dell’accertamento, che doveva incentrarsi altresì sull’attitudine della pianta conforme al tipo botanico vietato, anche in relazione alle modalità che connotano la coltivazione, a giungere a maturazione e produrre, all’esito di un fisiologico sviluppo, sostanze ad effetto stupefacente e psicotropo.  Nell’ambito di tale indirizzo è stato altresì precisato che ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l’offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l’assenza di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, se gli arbusti appunto sono verosimilmente in grado di rendere, all’esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, in quanto il “coltivare” è attività che si riferisce all’intero ciclo evolutivo dell’organismo biologico. Tale conclusione è stata in particolar modo desunta partendo dal dato letterale della norma incriminatrice che sancisce appunto la punibilità delle condotte di coltivazione, espressive dell’intero processo evolutivo dell’organismo vegetale; pertanto, la riduzione del precetto alle sole condotte del “portare a maturazione” implicherebbe tra l’altro lo svuotamento almeno parziale di altre fattispecie, compresa a ben guardare quella dell’illecita detenzione e il tipo legale verrebbe inoltre sfigurato, fino alla creazione di un “tentativo irrilevante”, eludendo quindi la previsione legale di un evento di rischio.  Pertanto, se il legislatore ha previsto espressamente la coltivazione quale autonoma condotta punibile, senza alcuna distinzione, intendendo, dunque, punire ogni attività che incrementi il rischio di diffusione delle sostanze stupefacenti, arretrando la soglia di tutela fino a colpire le fasi di produzione, purché le stesse siano ragionevolmente ed univocamente orientate verso la materializzazione delle sostanze di cui si discute, non sembra che possa ritenersi penalmente irrilevante la coltivazione ed il commercio di piantine sino alla fase di piena maturazione. Alla luce di tali premesse, secondo la giurisprudenza di legittimità sostenitrice dell’orientamento in esame, la rilevanza della condotta potrà dunque essere esclusa, a fronte di un ciclo vegetale già esaurito, solo laddove si riscontri l’assenza di efficacia stupefacente del prodotto; per le ipotesi, invece, di sviluppo in corso del vegetale, occorrerà valutare che – per la qualità e la quantità delle piante, o per qualunque altra ragione – il rischio nel caso concreto di incrementare la consistenza della droga circolante non avrebbe potuto attuarsi.

Un contrapposto e più recente orientamento, invece, criticando la posizione sopra illustrata in quanto finiva per sovrapporre indebitamente due piani, quello della tipicità e quello dell’offensività, che devono, invece, essere tenuti ben distinti, ha sostenuto che ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, non è sufficiente l’accertamento della loro conformità al tipo botanico vietato, dovendo essere invece riscontrata l’offensività in concreto della condotta, intesa come effettiva ed attuale capacità della sostanza ricavata o ricavabile a produrre un effetto drogante e come concreto pericolo di aumento di disponibilità dello stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso.

Rilevata la sussistenza di un nuovo contrasto interpretativo nell’ambito della giurisprudenza di legittimità in relazione alla nozione giuridica di coltivazione di piante da cui siano ricavabili sostanze stupefacenti la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha deciso di sottoporre la questione al vaglio delle Sezioni Unite nel 2019, evidenziando la necessità di definire paradigmi ricostruttivi validi in relazione alla c.d. coltivazione domestica di entità oggettivamente modesta. La risoluzione di tale quaestio iuris, a detta delle Sezioni Unite, inevitabilmente impone di chiarire la distinzione tra le categorie della tipicità e dell’offensività del reato e, a tale ultimo riguardo, l’ulteriore bipartizione tra offensività in astratto ed offensività in concreto. Sul piano della tipicità, ossia della riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta designata dal legislatore, viene ribadita la necessità della conformità del tipo botanico a quello vietato e della sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione ed a produrre sostanza stupefacente. Sempre sul piano della tipicità, è stata poi nuovamente affrontata la questione della correttezza circa la distinzione tra coltivazione “imprenditoriale” e coltivazione “domestica”. A tale riguardo, le Sezioni Unite, innanzitutto, hanno reputato condivisibile, in quanto conforme sia al dato letterale che a quello sistematico, l’equiparazione, che era stata già riconosciuta attraverso la sentenza del 2008, tra le due tipologie di condotte, stante l’autonomia concettuale tra la coltivazione non autorizzata e la mera detenzione (contrariamente a quanto, invece, era stato argomentato dalla giurisprudenza di legittimità che aveva avallato tale tesi), che non può quindi in alcun modo consentire la parificazione tra tali condotte ontologicamente distinte tra loro.  Ciò chiarito, le Sezioni Unite hanno però precisato, discostandosi sul punto dal loro stesso precedente risalente al 2008, che comunque può residuare uno spazio per la distinzione tra la coltivazione “tecnico-agraria” e quella “domestica” seppur nell’ambito di una ricostruzione sistematica diversa che non riconduca, per le ragioni sopra illustrate, l’irrilevanza penale della coltivazione domestica (se finalizzata al consumo personale) alla nozione di detenzione, occorrendo, invece, una precisa definizione dell’attività di coltivazione penalmente rilevante. In tal senso la Suprema Corte, mediante la pronuncia in esame, ha provveduto all’individuazione di una serie di parametri oggettivi sintomatici della rilevanza penale o meno della condotta di coltivazione, tra cui la prevedibilità della potenziale produttività, l’entità della coltivazione, le modalità di svolgimento (in forma domestica o industriale), la rudimentalità o meno delle tecniche utilizzate, il numero delle piante coltivate, l’oggettiva destinazione del prodotto. A tale ultimo riguardo, la Suprema Corte ha precisato a tale che, invece, la mera intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale da sola è insufficiente ad escludere la rispondenza del tipo legale penalmente sanzionato, essendo invece indispensabile la sussistenza di un nesso di immediatezza oggettiva con tale uso.

Quanto poi al versante dell’offensività, le Sezioni Unite, prima di procedere alla risoluzione delle questioni prospettate, hanno svolto una preliminare digressione sul principio di offensività nel sistema penale, rievocando alcuni principi sanciti dalla Corte costituzionale ed illustrando alcune delle pronunce più significative attraverso cui la Consulta aveva affermato dal un lato che il “diritto penale del fatto” non poteva non incentrarsi sulla necessaria offensività delle norme incriminatrici, precludendo ad esse di trovare il loro esclusivo fondamento sul “tipo” o sul “vissuto” dell’autore  e dall’altro aveva enucleato i due piani su cui si trova ad operare il principio di offensività in questione, ossia in astratto quale canone orientativo per il legislatore ed in concreto quale criterio  interpretativo – applicativo per il giudice.  Ciò premesso, tenuto conto della maggior pericolosità della condotta di coltivazione, destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi di stupefacente disponibili, le Sezioni Unite hanno poi reputato ampiamente giustificata e condivisibile la scelta legislativa volta ad anticipare la soglia della punibilità fino al pericolo presunto, potendo dunque essere ritenuta penalmente irrilevante, in linea con il principio di ragionevolezza, all’esito di un giudizio prognostico di potenziale aggressione del bene giuridico tutelato (ravvisato nella salute – individuale o collettiva – in quanto sempre a detta delle Sezioni Unite è l’unica ad avere un ancoraggio costituzionale diretto nell’art. 32), solo la condotta di coltivazione domestica, seppur tenendo conto dei parametri oggettivi sopra illustrati.

Ribadendo quindi l’inquadramento del reato in questione in termini di pericolo presunto, le Sezioni Unite hanno affermato altresì la necessità di affidare comunque al giudice di merito il compito di verificare se il fatto sottoposto alla sua cognizione abbia “in concreto” leso il bene giuridico tutelato con la inevitabile conseguenza che il reato non potrà ritenersi configurato laddove, all’esito di un accertamento ex post, emerga che la coltivazione ha prodotto effettivamente una sostanza inidonea a provocare un effetto stupefacente in concreto rilevabile. Tale accertamento, dunque, dovrà essere necessariamente diversificato a seconda che il ciclo delle piante sia completato o meno: infatti, nel primo caso occorrerà verificare l’esistenza di una quantità di principio attivo necessario a produrre un effetto drogante, nel secondo caso, invece, ossia con riferimento alle fasi pregresse, la previsione normativa della punibilità della coltivazione in quanto tale, consente di ritenere penalmente rilevante la stessa, a qualsiasi stadio della pianta che corrisponde al tipo botanico, purché si svolga in condizioni tali da potersene prefigurare il positivo sviluppo.  In tale ultimo caso, al fine di escludere la punibilità, potrà pertanto rilevare la non adeguata modalità di coltivazione verosimilmente inidonea a realizzare il risultato finale ovvero il prodotto della coltivazione non corrispondente al tipo botanico o con un contenuto di principio attivo troppo “povero” per la sua utile destinazione all’uso. Quindi, sul piano dell’offensività, le Sezioni Unite hanno affermato che il reato di coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti (condotta attinente all’attività svolta dall’agente in ogni fase dello sviluppo della pianta, dalla semina fino al raccolto) è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficiente la conformità della pianta al tipo botanico, la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e produrre sostanza stupefacente. Occorre, però, in ossequio ai principi di tipicità e di offensività, una graduazione della risposta punitiva rispetto all’attività di coltivazione, che viene quindi nella sentenza in esame così schematizzata: a) non costituiscono condotte penalmente rilevanti le coltivazioni domestiche al fine esclusivo di autoconsumo, in presenza però dei parametri oggettivi sopra illustrati; b) la detenzione di sostanza stupefacente esclusivamente destinata all’uso personale, anche se ottenuta attraverso la coltivazione domestica penalmente lecita, rimane soggetta al regime sanzionatorio di cui all’art. 75 d.P.R. 309/1990. Al contrario, in presenza, invece, di una coltivazione penalmente rilevante, la detenzione del “prodotto finale”, costituendo l’ultima fase della coltivazione stessa, potrà essere qualificato in termini di post factum non punibile; c) alla condotta di coltivazione penalmente illecita, in caso di sussistenza dei presupposti per ritenere la particolare tenuità della stessa o di minore gravità del fatto, sono comunque applicabili rispettivamente sia l’art. 131 bis c.p. che l’art. 73 co. 5 T.U.

Alla luce dell’approdo giurisprudenziale summenzionato, l’operazione rimessa al giudice di merito è comunque volta ad accertare, secondo le linee interpretative tracciate dalle Sezioni Unite, che la singola condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti, sottoposta alla sua valutazione, si presenti in concreto offensiva dei beni giuridici tutelati dal legislatore, e dunque consenta di integrare l’ipotesi di reato contestato, in pieno rispetto del principio di offensività, nei termini sopra illustrati.


Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.

Roberta Aleo

Nasce a Palermo nel 1991. Dopo la maturità classica si laurea nel 2017 in Giurisprudenza presentando una tesi sperimentale dal titolo "Le strutture investigative di contrasto alla criminalità organizzata". Nel 2019 consegue il diploma di specializzazione presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni legali presentando una tesi dal titolo "Rapporti tra carcere duro ed esigenze di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti". Tirocinante presso il Tribunale e la Procura della Repubblica ed abilitata all'esercizio della professione forense, collabora alla stesura di testi ed articoli giuridici con riviste scientifiche e studi legali.

Articoli inerenti