Coltivazione di sostanze stupefacenti ex d.P.R n. 309/1990 e principio di offensività: alcune recenti pronunce giurisprudenziali

Coltivazione di sostanze stupefacenti ex d.P.R n. 309/1990 e principio di offensività: alcune recenti pronunce giurisprudenziali

Il reato di coltivazione di sostanze stupefacenti viene contemplato dal Testo Unico in materia di stupefacenti, ovverossia il D.P.R n. 309/90, il quale, all’articolo 73 sanziona, accanto alle altre condotte espressamente previste, la coltivazione di sostanze stupefacenti o psicotrope.

La fattispecie delittuosa de qua, si atteggia a reato di pericolo presunto o astratto, volta ad anticipare sensibilmente la soglia di punibilità del fatto idoneo ad esporre a pericolo i beni giuridici tutelati anche in considerazione della loro rilevanza per l’ordinamento giuridico. Ciò trova giustificazione nel fatto che il bene giuridico protetto dalla norma non è esclusivamente la salute pubblica, ma esso si sostanzia anche nell’ordine pubblico e nella sicurezza delle future generazioni. Questi beni di rilievo per l’ordinamento possono essere esposti a pericolo e quindi potenzialmente lesi dalla condotta di coltivazione, sicché la fattispecie delittuosa de qua si atteggia a reato plurioffensivo.

Il reato di coltivazione di sostanze stupefacenti, siano esse di tipo leggero o pesante, ha posto non pochi problemi di compatibilità, proprio per la sua struttura di reato di pericolo astratto, coi principi di offensività in astratto ed in concreto, nonché con il principio di proporzionalità del trattamento sanzionatorio con riferimento alla dicotomia tra droghe leggere e droghe pesanti. Quanto a quest’ultimo aspetto, va precisato che la norma de qua è stata oggetto di una modificazione legislativa da parte della legge n. 49/2006, meglio nota come legge Fini-Giovanardi, la quale ha espunto in un primo momento dall’ordinamento la distinzione presente nelle tabelle ministeriali relativa alle droghe leggere ed a quelle pesanti. Successivamente, per effetto della pronuncia di illegittimità costituzionale della suddetta legge è stata ripristinata la distinzione tra droghe leggere e quelle pesanti: ciò in quanto appariva fortemente ingiustificato, alla luce del principio di proporzionalità delle pene, predisporre un medesimo trattamento sanzionatorio per fatti aventi una carica lesiva differente rispetto al bene protetto. Questo anche in considerazione del principio di offensività in astratto che caratterizza diversamente la condotta di coltivazione di droghe leggere rispetto a quelle pesanti, che non sono connotate dal medesimo disvalore sociale e dalla stessa pericolosità, sicché tale differenza deve permanere sia in ragione del principio di offensività che di proporzionalità. Quest’ultimo principio, infatti, deve ispirare il legislatore nella predisposizione della cornice edittale del trattamento sanzionatorio e ciò per consentire di bilanciare la funzione di difesa sociale cui la pena assolve con quella di rieducazione del reo costituzionalmente prevista ex articolo 27 comma 3 della Carta Costituzionale: infatti, affinché il reo possa reinserirsi nella società percependo il disvalore  sociale generato dalla propria condotta, è necessario che questi percepisca la pena come giusta e proporzionata al fatto commesso.

Pertanto,  il principio di proporzionalità della pena, sancito dall’articolo 7 CEDU e dell’articolo 49 della Carta di Nizza, deve conformare il regime sanzionatorio del reato di coltivazione di sostanze stupefacenti, mostrandosi fortemente connesso con il principio di offensività in astratto, ed altresì con quello di offensività in concreto: in particolare, ciò ha portato la giurisprudenza di legittimità ad interrogarsi sui requisiti necessari affinché  tale condotta sia idonea ad esporre a pericolo i beni giuridici tutelati, e dunque possa o meno configurarsi.

Un primo orientamento della giurisprudenza di legittimità, più conforme al principio di offensività in concreto, ha ritenuto che per il configurarsi della fattispecie delittuosa de qua fosse necessario un certo numero di piante conforme al tipo botanico vietato dal quale, una volta giunto a maturazione, potesse estrarsi un quantitativo di sostanze stupefacenti idoneo ad alimentare il mercato di spaccio e traffico di tali sostanze. Tale orientamento, è stato recentemente superato da quello ritenuto prevalente dalla giurisprudenza di legittimità, che si pone per altro in maniera più confacente al principio di offensività in astratto ed alla struttura del reato di pericolo presunto. Secondo tale orientamento, perché possa configurarsi il reato di coltivazione di sostanze stupefacenti ex art. 73 D.P.R. n. 309/90 è sufficiente il possesso di una pianta conforme al tipo botanico vietato che sia potenzialmente idonea a giungere a maturazione e dalla cui coltivazione sia in seguito ricavabile un quantitativo di prodotto idoneo a mettere in circolazione sostanze stupefacenti che possano attentare ai beni giuridici tutelati, in special modo alla salute pubblica. Quest’ultimo orientamento risulta, secondo autorevole dottrina, più conforme alla struttura del reato di pericolo astratto volto, in considerazione della rilevanza dei beni protetti, ad anticipare la tutela, accontentandosi di minor requisiti per la configurazione della condotta di coltivazione.

Queste considerazioni, hanno spinto di recente la giurisprudenza di legittimità ad interrogarsi sul reato di coltivazione domestica, sempre avendo riguardo alla portata offensiva di tale condotta. Orbene, la giurisprudenza di legittimità ha escluso la punibilità della coltivazione domestica ad uso personale, laddove essa avvenga coltivando una pianta che sia conforme al tipo botanico vietato, ma che per la coltivazione rudimentale e lo scarso numero di esemplari detenuti e l’esiguo prodotto estraibile, non sia idonea ad offendere i beni giuridici tutelati dalla norma, ovverossia la salute pubblica, l’ordine pubblico e la sicurezza delle future generazioni. Ancora una volta, la Corte di Cassazione, con tale ultimo arreso giurisprudenziale svela la ratio che è alla base della norma giuridica dell’articolo 73 del TSU, e cioè quella di reprimere il fatto di coltivazione di sostanze stupefacenti laddove esso, sulla base non soltanto di un giudizio di offensività in astratto, ma anche sulla base di una valutazione di offensività in concreto, possa arrecare danno ai beni giuridici tutelati. Alla base di questo orientamento vi sarebbe per altro la teoria già consolidatasi in dottrina del cosiddetto “mercantilismo”, volta a reprimere le condotte di coltivazione laddove esse siano in grado di mettere potenzialmente in circolazione nell’ambiente un quantitativo di sostanze stupefacenti con forte capacità drogante tra la popolazione, e pertanto in grado di attentare alla salute pubblica. Questa teoria era stata ripresa da un orientamento giurisprudenziale con l’intento di colmare la lacuna normativa ed interpretare e facilitare l’applicazione del parametro di “quantità ingenti” al fine di consentire l’applicazione dell’aggravante di cui all’articolo 80 del DPR n. 309/90 al reato di coltivazione di sostanze stupefacenti. Tuttavia, a più voci in dottrina, si è fatto rilevare come tale posizione giurisprudenziale vada respinta, atteso che ciò comporterebbe una lesione del principio di tassatività – determinatezza della fattispecie penale nonché rappresenterebbe un vulnus al principio di prevedibilità, generalmente riconosciuto. La questione, attinente alla indeterminatezza della fattispecie dell’articolo 80 del TSU, è ancora pendente dinanzi alla giurisprudenza comunitaria, e concerne l’indeterminatezza dell’aggravante laddove per la sua configurazione richiede il requisito “dell’ingente quantità” di stupefacenti. Ciò, in specie, ha posto la problematica della possibilità o meno per la giurisprudenza di colmare, con uno sforzo interpretativo, il vuoto lasciato dal legislatore nel silenzio della norma. Problematica questa che si intreccia con quella della prevedibilità delle risposte sanzionatorie del legislatore e che evidentemente si riconnette al principio di certezza del diritto e di legittimo affidamento: il soggetto, reo del fatto di coltivazione di sostanze stupefacenti deve essere posto in una condizione di prevedere le conseguenze della propria condotta, soltanto così potrà percepire come giusta una determinata pena ed accettarla, pentendosi di quanto commesso. L’incompletezza in materia di sostanze stupefacenti, derivante dalla formulazione dell’articolo 80 del D.P.R. n. 309/90, si accompagna alla ulteriore incertezza che la caratterizza per effetto della legge n. 242/2016 sulla liceità della commercializzazione o meno di sostanze stupefacenti quali l’hashish.

Tale recente intervento normativo nasce, secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza che la fonda su di un’interpretazione rigorosa dell’articolo 1 della stessa, al fine di sostenere e promuovere la coltivazione della filiera della cannabis Sativa L, con la precisazione che la presente legge si applica alla coltivazione della varietà di piante ammesse ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/UE del Consiglio, essendo peraltro ammessa la coltura della Canapa alle sole finalità di cui quelle del comma 3 dell’articolo 1.

Ebbene, sulla base di ciò, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità osserva, che se il legislatore avesse voluto introdurre la commercializzazione dei derivati della canapa, quale l’hashish, lo avrebbe fatto espressamente, e pertanto non figurando ciò nelle finalità della legge n. 242/2016 si deve ritenere che alla condotta di commercializzazione di hashish vada applicato il regime sanzionatorio di cui all’articolo 73 del D.P.P.R n, 309/90 relativo alla condotta riferibile a chiunque commercia sostanze stupefacenti, quale è l’hashish, che per sua natura è un derivato della cannabis ad elevata attitudine drogante, e dunque idoneo a minare la salute pubblica.  Si è così superato l’orientamento giurisprudenziale minoritario che riteneva ammessa la condotta di commercializzazione delle sostanze stupefacenti come finalità implicita a cui tende la condotta di coltivazione espressamente ammessa. Orientamento questo superato ormai dalla giurisprudenza di legittimità che respinge categoricamente l’ammissibilità della commercializzazione dell’hashish, che come derivato non figura tra quelli estraibili dalla Canapa ai sensi della Tabella ministeriale n 2 allegata al D.P.R. La giurisprudenza di legittimità si è pertanto espressa in maniera conforme alla ratio sottesa dal Testo Unico in materia di Stupefacenti, volto ad incriminare in via anticipata, secondo la tecnica redazionale dei delitti di pericolo astratto, le condotte, quali, quella di commercializzazione delle sostanze stupefacenti, che per loro natura  hanno una carica offensiva considerevole proprio perché idonee a diffondere nell’ambiente un quantitativo ingente di tali sostanze, attentando così ai beni protetti in forma anticipata dal legislatore, in special modo la salute pubblica e la sicurezza delle future generazioni.


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