Commento alla sentenza n. 186 del 9 luglio 2020 della Corte costituzionale italiana

Commento alla sentenza n. 186 del 9 luglio 2020 della Corte costituzionale italiana

Il difficile equilibrio tra politiche migratorie e tutela dell’ordine pubblico e sicurezza, nel rispetto dei diritti fondamentali

 

Abstract: l’articolo esamina la recentissima sentenza della Corte costituzionale n. 186/2020 con la quale sono state decise le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali di Milano, Ancona e Salerno sulla disposizione che preclude l’iscrizione anagrafica degli stranieri richiedenti asilo, introdotta con il primo “Decreto sicurezza” (d. l. n. 113 del 2018). La Consulta ha ritenuto che la predetta esclusione dei richiedenti asilo dall’iscrizione anagrafica, invece di aumentare il livello di sicurezza pubblica, finisce col limitare le capacità di controllo e di monitoraggio dell’autorità pubblica su persone che soggiornano regolarmente nel territorio statale, anche per lungo tempo, in attesa della decisione sulla loro richiesta di asilo. Inoltre, negare l’iscrizione all’anagrafe a chi dimora abitualmente in Italia significa trattare in modo differenziato e indubbiamente peggiorativo, senza una ragionevole giustificazione, una particolare categoria di stranieri. Pertanto, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, c. 1-bis, del d. lgs. 18 agosto 2015, n. 142, come introdotto dall’art. 13, c. 1, lettera a), numero 2), del d. l. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, rilevando la fondatezza del contrasto con l’art. 3 Cost. e non con l’art. 77 Cost. Dopo una analitica lettura dell’apparato argomentativo delle ordinanze dei Giudici rimettenti e delle motivazioni della Corte, si dà atto, in conclusione, del fatto che il legislatore ha già tenuto conto dell’intervenuta censura, prevedendone la ricezione nell’imminente modifica dei decreti sicurezza.

 

Sommario: 1. Premessa introduttiva – 2.  La disposizione normativa censurata – 3. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali di Milano, Ancona e Salerno: i giudizi principali e le fattispecie concrete – 4. I profili di contrasto individuati in riferimento ai parametri costituzionali e sovrannazionali evocati – 5. L’intervento della Consulta sull’art. 13 del d. l. n. 113/2018: la fondatezza dei vizi di legittimità denunciati in riferimento all’art. 3 Cost. – 6. Brevi considerazioni conclusive

 

1. Premessa introduttiva

Il 9 luglio 2020 la Corte costituzionale tramite il proprio ufficio stampa, che cura anche il profilo social Twitter “@Cortecost”, pubblicava il consueto comunicato con il quale si rende noto il dispositivo delle decisioni, in attesa del deposito delle sentenza. Per l’occasione il titolo della “velina” era: “Decreto sicurezza: irragionevole la norma che preclude l’iscrizione anagrafica ai richiedenti asilo”. Ciò lascia intendere chiaramente che la Corte si è occupata delle disposizioni del tanto dibattuto D. L. 4 ottobre 2018, n. 113[1], recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonchè misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”(G.U. Serie Generale n. 231 del 04-10-2018) entrato in vigore il 05/10/2018, anche conosciuto come il primo[2] “Decreto sicurezza”[3].

Or dunque, la Corte, il giorno prima (08.07.2020), è stata impegnata a dirimere dubbi di costituzionalità inerenti uno dei più discussi, sia a livello politico che sociale, provvedimenti del Governo Conte-I, censurando l’art. 13 (Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica), c. 1, lett. a), n. 2)[4], del citato decreto legge n. 113/2018, convertito, con modificazioni, nella legge 01 dicembre 2018, n. 132, laddove aggiunge il comma 1-bis all’art. 4 (Documentazione), del d. lgs. 142/2015[5], affrontando la problematica dell’esclusione dei richiedenti asilo dall’iscrizione anagrafica, in attesa della definizione della relativa domanda di protezione internazionale, ma non in rapporto all’art. 77, c. 2, della Costituzione circa i requisiti di necessità e di urgenza dei decreti legge, bensì sotto il più pregante profilo dell’incostituzionalità di tale previsione aggiuntiva per violazione dell’articolo 3 della Carta fondamentale (principio di uguaglianza), sotto un duplice e rilevante profilo: “per irrazionalità intrinseca, poiché la norma censurata non agevola il perseguimento delle finalità di controllo del territorio dichiarate dal decreto sicurezza; per irragionevole disparità di trattamento, perché rende ingiustificatamente più difficile ai richiedenti asilo l’accesso ai servizi che siano anche ad essi garantiti”.

Una pronuncia che, anche prima facie, si presenta particolarmente argomentata e che azzera una criticità segnalata da tempo da più parti: addetti agli uffici anagrafe, avvocati, sindaci, sindacati, giuristi ed esponenti di associazioni per la tutela dei diritti umani ed anche di altra natura come, ad esempio, l’ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione), con un riverbero positivo sull’aspetto del relativo, sempre più crescente, contenzioso, ma più di ogni altra, si è provveduti ad eliminare una vera e propria ipotesi di disparità di trattamento, fuor di dubbio palesemente differenziata e peggiorativa per una specifica categoria di stranieri, tra le persone che dimorano abitualmente ed a vario titolo nel nostro Paese, senza un’apparente ed in particolar modo ragionevole giustificazione, ristabilendo, tra costoro, la giusta e “pari dignità sociale”.

2. La disposizione normativa censurata

L’art. 13, del già citato decreto legge n. 113/2018, è una norma che si innesta in un provvedimento di più ampio respiro, fortemente voluto dal Ministro dell’Interno pro tempore, nell’ambito di un’articolata e complessa azione riorganizzativa, concernente il sistema di riconoscimento della protezione internazionale e le forme di tutela complementare, alla cui base vi è una modifica sostanziale delle policy riguardanti l’intero sistema di accoglienza e le regole sulla cittadinanza, che ha avuto un impatto significativo su tutto il flusso migratorio verso l’Italia: dall’identificazione all’accoglienza, dalle procedure per la protezione internazionale all’integrazione[6].

Le misure più rilevanti, senza addentrarci troppo nell’analisi delle rispettive norme, attengono al restringimento delle condizioni del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), allungamento del periodo di reclusione nei centri permanenti per il rimpatrio (CpR) e di quello di trattenimento negli hotspot, si abroga l’istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari[7], anche se mantiene, ed in parte ridefinisce, alcuni permessi di soggiorno speciali[8] (per vittime di violenza o di grave sfruttamento, condizioni di salute di eccezionale gravità, situazioni contingenti di calamità naturale nel Paese di origine), la revoca della cittadinanza nel caso di condanna per reati legati al terrorismo, nuovi limiti per la concessione della protezione internazionale e il decadimento dallo status di rifugiato per chi viene condannato in primo grado per alcuni reati.

Questi interventi appaiono riconducibili principalmente alle seguenti finalità di fondo: da un lato quella di intervenire sulla disciplina della protezione internazionale, di rafforzare i dispositivi della sicurezza pubblica, con particolare, ma non esclusivo, riferimento alla minaccia del terrorismo e alla criminalità di tipo mafioso, dall’altro mirano ad una gestione più efficiente ed efficace gestione del fenomeno migratorio nonché ad introdurre misure di contrasto alla possibile richiesta strumentale e conseguente ampia accettazione, della domanda di protezione internazionale.

Ebbene, l’articolo 13 del decreto legge in parola, rubricato “Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica”, prevede – come già detto – che il permesso di soggiorno per richiesta asilo non consenta l’iscrizione all’anagrafe dei residenti, fermo restando che esso costituisce documento di riconoscimento.

L’articolo de quo va a modificare le disposizioni dettate dal D. Lgs. n. 142 del 2015 in materia di domiciliazione e iscrizione anagrafica del richiedente asilo[9]. In particolare, la lettera a) modifica l’articolo 4 che disciplina il rilascio del permesso di soggiorno per richiesta asilo, inserendo contestualmente due nuove disposizioni.

Quindi, se da un lato si esplicita che il permesso di soggiorno per richiesta asilo costituisce documento di riconoscimento ai sensi del T. U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, adottato con D.P.R. n. 445/2000[10], dall’altro si stabilisce che il medesimo permesso di soggiorno non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del regolamento anagrafico[11] (D.P.R. n. 223/1989) e dell’art. 6, c. 7 del T. U. delle disposizioni in materia di immigrazione (D. Lgs. n. 286 del 1998). Pertanto, la disposizione in esame ha un suo punto di evidenza nel quadro delle misure introdotte con il decreto legge n. 113/2018, in quanto deroga al principio espresso nel già citato T. U. sull’immigrazione (D. lgs. n. 286/1998), per i titolari di un permesso di soggiorno per richiesta asilo[12].

Secondo i redattori del testo normativo in esame, che sarà successivamente molto chiacchierato e poi tacciato di incostituzionalità, l’esclusione dall’iscrizione anagrafica si giustificava per la precarietà del permesso di soggiorno per richiesta asilo e rispondeva alla necessità di definire in via preventiva la condizione giuridica del richiedente (come sostiene in giudizio l’Avvocatura dello Stato nei propri scritti e, ancora prima, il Governo in occasione della conversione in legge del D. L., come si legge nella relazione illustrativa al D. L. 4 ottobre 2018, n. 113 – Atto Senato n. 840 – XVIII Legislatura).

Riguardo alla restante parte della disposizione in esame, sia pur in somma sintesi, alla lettera b) del comma 1 dell’articolo 13 (non censurata) si riscrive interamente il comma 3 dell’articolo 5 (Domicilio) del D. Lgs. n. 142/2015, apportando modifiche di coordinamento rispetto a quanto previsto dalla lettera precedente, stabilendo che l’accesso ai servizi previsto dal decreto medesimo e a quelli erogati comunque ai sensi delle norme vigenti, è assicurato nel luogo di domicilio come individuato ai sensi dei commi 1 e 2 del medesimo articolo[13]. Il testo previgente stabiliva che il centro o la struttura di accoglienza per il richiedente titolare del permesso di soggiorno costituisse il luogo di dimora abituale per l’iscrizione anagrafica ai sensi del citato art. 6, co. 7 del T.U. sull’immigrazione. Viene inoltre modificato il comma 4 dell’articolo 5, nel senso di riconoscere in capo al Prefetto competente, in base al luogo di presentazione della domanda ovvero alla sede della struttura di accoglienza, il potere di stabilire un luogo di domicilio (e non più di residenza) o un’area geografica ove il richiedente può circolare[14].

Infine, alla lettera c) del comma 1 dell’articolo 13 (anch’essa non censurata), viene abrogato l’articolo 5-bis (Iscrizione anagrafica) del d. lgs. n. 142 del 2015 (introdotto dall’art. 8, co. 1, lett. a-bis del D. L. n. 13/2017), il quale prevede l’iscrizione obbligatoria nell’anagrafe della popolazione residente del richiedente protezione internazionale ospitato nei centri di accoglienza, che non vi risulti già iscritto individualmente.

Anche queste due ultime lettere dell’art. 13 esaminato, saranno poi travolte, dalla pronuncia di incostituzionalità n. 186/2020, in via consequenziale ed ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale).

Appare il caso di sottolineare che la rilevanza delle modifiche previste dalla norma in parola, è dovuta al fatto che all’iscrizione anagrafica è connesso l’esercizio di alcuni diritti sociali.

In particolare, l’iscrizione anagrafica è il necessario presupposto, ad esempio, per: l’accesso all’assistenza sociale e la concessione di eventuali sussidi o agevolazioni previste da ogni comune, ad esempio quelle basate sulle condizioni di reddito, verificate mediante l’indicatore ISEE, erogati dalla pubblica amministrazione o da soggetti dalla stessa delegati; l’accesso ad altri diritti sociali, tra i quali la partecipazione a bandi per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, i sussidi per i canoni di locazione o l’acquisto della prima casa od anche il diritto al reddito di cittadinanza; diritti di partecipazione popolare all’amministrazione locale, previsti dagli statuti comunali; la facoltà di presentare determinate dichiarazioni da rendersi davanti all’Ufficiale di Stato civile in materia di cittadinanza; per il rilascio della carta di identità e delle certificazioni anagrafiche; per chiedere e ottenere il conseguimento della patente di guida italiana o la conversione della patente di guida estera (art. 118-bis codice della strada) [15]; altre prestazioni relative al Servizio sanitario nazionale, diversi dalle cure urgenti ed essenziali, ancorché continuative (art. 35 TU immigrazione) ed all’accesso all’istruzione universitaria ed ai relativi interventi per il diritto allo studio.

3. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali di Milano, Ancona e Salerno: i giudizi principali e le fattispecie concrete

In data 8 luglio 2020 la Corte Costituzionale ha esaminato le questioni di costituzionalità sottoposte alla stessa per il tramite di quattro distinte ordinanze dei Tribunali di Milano, Ancona e Salerno (rispettivamente, ai nn. 145, 153, 158 e 159 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nelle G. U. della Repubblica, nn. 39, 40 e 41, I serie speciale, dell’anno 2019), che hanno dato la stura al giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, ponendo appunto la questione di legittimità relativamente alla norma impugnata (art. 4, c. 1° bis, del decreto legislativo 18/08/2015, n. 142, come introdotto dall’art. 13, c. 1°, lett. a), n. 2, del decreto-legge 04/10/2018, n. 113, convertito, con modificazioni, nella legge 01/12/2018, n. 132), al fine di dichiarare l’illegittimità del rifiuto degli Enti locali interessati da richieste di iscrizione all’anagrafe dei residenti da parte di soggetti stranieri richiedenti asilo. Tale condotta, al disopra di tutto, si configurerebbe discriminatoria per violazione del principio di parità di trattamento tra cittadini italiani e stranieri in riferimento ad una pluralità di parametri costituzionali, nonché in relazione a fonti sovrannazionali, che di seguito vedremo.

La questione sottoposta in questi termini al vaglio della Corte delle leggi è stata decisa in data 9 luglio 2020 con la sentenza n. 186 del 2020, Presidente, dott.ssa Marta Cartabia e redattore, dott.ssa Daria de Pretis, le cui motivazioni sono state depositate il 31 luglio successivo (pubblicata in G. U. il 05/08/2020), ritenendo fondate le censure sollevate da tutti i Giudici rimettenti, in riferimento all’art. 3 Cost.

Ma vediamo in dettaglio le vicende dei giudizi principali nell’ambito dei quali sono state sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 77, c. 2, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 2, paragrafo 1, Prot. n. 4 CEDU[16], nonché in relazione agli artt. 14 CEDU[17] e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici[18], le questioni di legittimità costituzionale relativamente alla norma suindicata, introducendo il relativo giudizio di legittimità costituzionale delle leggi in via incidentale (ex art. 23 della L. 11 marzo 1953, n. 87).

Davanti alle Autorità giudiziarie di merito, pendevano ricorsi[19] instaurati da soggetti stranieri titolari di un permesso di soggiorno per richiesta di asilo, nei confronti dei Comuni di Milano, Ancona e Salerno e del competente Ministero dell’interno e, per essi, dei Sindaci interessati, anche nella loro qualità di ufficiali del Governo per l’esercizio delle funzioni di ufficiale dell’anagrafe, ed aventi ad oggetto l’impugnazione del rifiuto espresso dai citati Enti locali alla loro iscrizione all’anagrafe dei residenti.

Nello specifico delle fattispecie, i ricorrenti si sono rivolti ai suindicati Tribunali al fine di ottenere «la dichiarazione di illegittimità e l’accertamento del carattere discriminatorio del rifiuto opposto dai suddetti Enti comunali alla loro iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente», ciò ai sensi dell’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 e dell’art. 15 del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 recante “Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286”, nonché per violazione del «principio paritario, sotto il profilo della nazionalità» (ai sensi dell’art. 3 Cost., dell’art. 14 CEDU e dell’art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998), chiedendo, conseguentemente, di ordinare ai Sindaci l’immediata iscrizione dei soggetti richiedenti nel registro anagrafico della popolazione residente.

Nelle richiamate ordinanze di rimessione, ogni Giudice a quo, dopo aver  argomentato circa la presenza, nei casi di specie, dei presupposti per l’esercizio dell’azione antidiscriminatoria ed i relativi nocumenti cagionati in capo ai richiedenti per la mancata iscrizione anagrafica “laddove esclude a priori il computo del periodo trascorso come richiedente asilo […] ai fini dell’esercizio di tutti quei diritti che sono collegati alla durata della residenza» (tra cui quelli all’acquisizione della cittadinanza, all’accesso all’edilizia popolare e al cosiddetto reddito di cittadinanza)”, passa a discettare della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale ai fini della definizione del  giudizio de quo, sottolineando, in tal senso, che “sia l’Amministrazione comunale sia il Ministero abbiano riconosciuto che la disposizione censurata (e le successive circolari del Ministero dell’interno) «non lasci[a] alcun margine di discrezionalità al Sindaco, in qualità di Ufficiale dell’anagrafe». Dunque, il diniego dell’iscrizione anagrafica discenderebbe dall’applicazione della norma censurata, come, tra l’altro, risulta dalla motivazione del provvedimento”.

Si conclude, dunque, tale aspetto della questione affermando che non vi sarebbero dubbi sulla riconducibilità del caso di specie alla fattispecie prevista dalla disposizione censurata. Inoltre, l’eventuale caducazione di quest’ultima, pur non comportando la reintroduzione della disciplina di favore prevista dall’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015, consentirebbe ai richiedenti asilo di procedere all’iscrizione anagrafica alle stesse condizioni degli altri stranieri regolari e dei cittadini italiani”, ciò in quanto i rigetti opposti ai ricorrenti trovano la loro ragion d’essere proprio nella motivazione addotta dagli Ufficiali delegati che si basa esclusivamente sul disposto di cui al citato art. 4, c. 1-bis del d. lgs. n. 142/15, che era, dunque, una norma di per sé chiara e dirimente, nei casi in esame.

Nel merito di quanto rappresentato dai ricorrenti, i Giudici interpellati, in generale, ritengono  che non vi sia dubbio che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo costituisce non solo un documento di riconoscimento ma anche l’attestazione della permanenza sul territorio nazionale del migrante a qualsiasi fine.

In punto di non manifesta infondatezza, i titolari dei giudizi sospesi, hanno ritenuto che la disposizione non vada esente da censure di incostituzionalità e che, d’altro canto, non sussistevano margini di una possibile interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata conforme a Costituzione[20]. Così, in tali circostanze, i Giudici a quibus hanno rimesso le questioni di legittimità costituzionale della disciplina applicabile, illustrando nel dettaglio le ragioni dell’asserita violazione della norma censurata rispetto alle norme costituzionali, al cospetto delle quali si lamenta un esiziale contrasto di legittimità, foriero di significativi pregiudizi per i ricorrenti[21].

4. I profili di contrasto individuati in riferimento ai parametri costituzionali e sovrannazionali evocati

I Giudici rimettenti, ritenuta la rilevanza della questione di legittimità delineatasi nel corso dei distinti giudizi a quibus e valutata la non manifesta infondatezza della stessa, hanno enucleato i dedotti profili di contrasto con diversi precetti costituzionali, ognuno nella propria ordinanza di rimessione, ai quali si è cercato di dare una complessiva lettura e, di seguito, raggruppare in un’unitaria  sintesi argomentativa.

In primo luogo, viene in rilievo l’art. 2 della Costituzione, in relazione alla violazione di diritti umani fondamentali ivi tutelati. Ciò in quanto, si rappresenta, dall’impossibilità di esercitare taluni diritti della persona ne discende un ostacolo al libero esplicarsi della personalità e delle capacità del soggetto, sia come singolo, sia nel tessuto socio-economico ove prova a radicarsi. Difatti, la disposizione sottoposta a scrutinio della Corte delle Leggi, impedisce al richiedente asilo l’accesso ad una moltitudine di servizi assistenziali e sociali (ai quali si è accennato sopra), necessari per il godimento del tempo che egli trascorre sul territorio italiano, per l’integrazione nel tessuto sociale[22].

Ma i rimettenti vanno anche oltre e sottolineano, inoltre, «la centralità della persona» come nota caratterizzante l’art. 2 Cost., il quale «non fa solo riferimento all’individuo in quanto partecipe di una determinata comunità politica, ma in quanto essere umano», titolare della relativa dignità. Quest’ultima da valutare, dunque, nella sua dimensione individuale e sociale, diventando «presupposto dell’identificazione di se stessi anche e soprattutto mediante lo sviluppo di un senso di appartenenza con la comunità locale presso cui si decide di fissare la propria stabile dimora». A questi fini, la maturazione del senso di appartenenza sarebbe prodromica rispetto all’inserimento dell’individuo nella società, al cui interno potrà svolgersi la sua personalità (come sancito dall’art. 2 Cost.). In tale prospettiva, infatti, l’iscrizione anagrafica costituirebbe «un passo essenziale di quel processo di integrazione a cui sono chiamati tanto lo straniero quanto la società presso cui egli si stabilisce».

Diversamente, il diniego opposto ai richiedenti l’iscrizione anagrafica equivarrebbe a lasciare gli stessi al margine della collettività, confinandolo in un “non luogo” giuridico e sociale», che costituisce un limite alla libera e dignitosa crescita della sua personalità e che appare incompatibile con la sua partecipazione alla vita economica, sociale e culturale del Paese in cui vive.

Ma vi è di più, la dignità umana e, quindi, i diritti necessari alla sua garanzia che non spettano solo ai cittadini, trova inconfutabile conferma nei principi di eguaglianza e di parità sociale contenuti nel successivo art. 3 Cost.». Infatti, la rappresentata violazione dell’art. 2 Cost. viene valutata anche  in relazione al successivo articolo 3, in riferimento al quale, i rimettenti fanno leva, in particolare, sul comma 2, che impone una tutela effettiva concessa dallo Stato ed un trattamento differenziato ammissibile solo se riconducibile ad analoghi principi ispiratori.

Si sostiene, in primis e riguardo all’eccepita “precarietà del permesso di soggiorno per richiedenti asilo”, che in concreto “non parrebbe integrare un’idonea giustificazione di tali trattamenti differenziati, posto che il nostro ordinamento possiede tutti i meccanismi atti a consentire, nel caso di rigetto della domanda tendente ad ottenerne la protezione internazionale, la cancellazione dalle liste anagrafiche con revoca della residenza, senza che ciò debba necessariamente compromettere medio tempore il godimento dei diritti e l’accesso ai servizi atti a condurre una vita dignitosa”.  

A tal proposito, viene richiamato l’orientamento della stessa Corte Costituzionale secondo il quale “il principio di eguaglianza nell’ambito dei diritti inviolabili dell’uomo riguarda anche il rapporto tra  stranieri, per i quali dovrebbe essere uguale per tutti, salvo trattamenti in melius per taluni di essi” (Sent. n. 54/1979) e non il contrario.

Or dunque, l’art. 4, c. 1-bis del D. lgs. 142/2015 (come introdotto dall’art. 13 comma 1, lett. a), n. 2, del D. L. 113/2018) che difatti costituirebbe una deroga alla disciplina generale di cui all’art. 6, comma 7, del d. lgs. n. 286 del 1998 (non modificato) che attribuisce anche allo straniero regolarmente soggiornante in Italia – al pari del cittadino italianol’iscrivibilità all’anagrafe della popolazione residente[23], sembra porsi proprio in contrasto con il principio di uguaglianza inteso sia nella sua accezione formale, che in quella sostanziale, in quanto introduce differenziazioni tra situazioni, generando un discrimine privo però dei «requisiti di razionalità e ragionevolezza che costituiscono i parametri tradizionalmente adottati dalla Corte per svolgere il giudizio costituzionale di eguaglianza», non solo tra cittadini italiani e cittadini stranieri, ma anche tra stranieri stessi: quelli titolari di un permesso di soggiorno per richiesta di asilo e quelli titolari di un permesso di soggiorno rilasciato per altri motivi[24].

D’altro canto, per i Giudici rimettenti, parrebbe evidente l’irrazionalità legislativa di una norma, quale quella che introduce la disposizione censurata, che, da una parte, qualifica espressamente il permesso di soggiorno come documento di riconoscimento (art. 13, comma 1, lettera a, numero 1, del d. l. n. 113 del 2018) e, dall’altra, nega che questo possa servire per l’identificazione dello straniero nella procedura di iscrizione anagrafica (art. 13, comma 1, lettera a, numero 2, del d. l. n. 113 del 2018).

Ciò, a fortiori, quando si escludono, senza un ragionevole motivo, per il tramite della preclusione all’iscrizione anagrafica, proprio soggetti particolarmente bisognosi del sistema di fruizione pubblica volta alla ricerca dell’occupazione (art. 22 del d. lgs. n. 142/2015) e alle politiche attive del lavoro di cui all’art. 11 del d. lgs. n. 150/2015, riservate expressis verbis ai residenti sul territorio italiano (lett. c) del c. 1, dell’art. 11 d. lgs. n. 150/2015)[25].

Oltre a quanto riportato sin qui, come anticipato, la questione di legittimità viene poi sollevata con riferimento agli artt. 10 e 77, c. 2, Cost.

La violazione del dettato del primo dei due articoli, consisterebbe nell’escludere una particolare tipologia di permesso di soggiorno dall’essere documento utile per la formalizzazione della domanda di residenza, dando vita «ad un trattamento diversificato soltanto nei confronti di una categoria di stranieri regolarmente soggiornanti, ossia proprio quelli che hanno esercitato il diritto di asilo ex art. 10, comma 3, Cost.». Mentre proprio questi ultimi, si rileva, sarebbero titolari di un diritto soggettivo perfetto al soggiorno, essendo legittimati all’ingresso e alla permanenza nel territorio dello Stato in attesa che venga definita la loro domanda di protezione internazionale.

Invece, riguardo alle ragioni dell’asserita violazione del secondo comma dell’art. 77 Cost. (questione sollevata, nello specifico, dal Tribunale di Milano), attenderebbero, nel caso di specie, alla mancanza di «una motivazione circa la necessità e urgenza di introdurre il divieto di iscrizione all’anagrafe» per i richiedenti asilo.

A tal riguardo, i rimettenti esaminano anche sul punto le ragioni addotte dalla compagine governativa, consistenti nell’esigenza di assicurare: l’effettività dei provvedimenti di rimpatrio di coloro che non hanno titolo a soggiornare nel territorio nazionale; un accurato esame delle (sempre più numerose) istanze di riconoscimento e di concessione della cittadinanza; la massima accuratezza dell’istruttoria avviata; adeguate politiche di prevenzione della minaccia terroristica, ma valutandole di scarso pregio. Infatti, i Giudici a quibus precisano che a voler ritenere le rappresentate esigenze come meritevoli di tutela per il tramite della decretazione d’urgenza, esse non rileverebbero nel caso in esame, stante la mancata incidenza della norma censurata sulla sicurezza nazionale, sull’efficacia dei provvedimenti di rimpatrio o sulla necessità di svolgere un’accurata istruttoria. Anzi, a contrario, la corretta registrazione all’anagrafe di chi effettivamente ed abitualmente dimora in un determinato Comune finirebbe con il facilitare l’azione dell’Ente territoriale stesso e di tutti gli organi di sicurezza interessati a vari livelli[26].

Inoltre, nel contestare lo strumento legislativo adottato, si sostiene che la delicatezza delle «scelte di natura politica e giuridica», adottate con il d. l. n. 113 del 2018, «avrebbe richiesto un adeguato dibattito parlamentare», compresso sia dall’adozione di un decreto-legge sia con l’uso della “tecnica” del maxiemendamento governativo sul quale lo stesso Governo ha proceduto con l’apposizione della questione di fiducia, in entrambi i rami del Parlamento (al Senato: voto del 7 novembre 2018; alla Camera: voto del 28 novembre 2018), in occasione della sua conversione in legge.

Da ultimo, sotto altro profilo, la norma in oggetto è stata anche censurata per contrasto con l’art. 117, c. 1,  Cost., in punto di compatibilità della norma attenzionata con la Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (CEDU)[27], ed in particolare in relazione all’art. 2 (Libertà di circolazione), c. 1, Prot. n. 4 CEDU, all’art. 14 (Divieto di discriminazione) CEDU e all’art. 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (1966)[28].

In merito a tale aspetto, si rileva, sia pur in somma sintesi, che la violazione relativa ai citati riferimenti normativi sovrannazionali muoverebbe dall’intendere l’iscrizione all’anagrafe quale «essenza stessa del fissare la residenza in un comune dello Stato» e, pertanto, il diniego dell’iscrizione implicherebbe una lesione del diritto a scegliere liberamente la propria residenza (sancito, appunto, dal citato art. 2[29]). Così come la previsione di una compressione del diritto di stabilire liberamente la residenza per una particolare categoria di stranieri, in linea con quanto sin qui detto, oltre che irragionevole nell’ottica dell’art. 3 Cost., sarebbe dettata da ragioni discriminatorie, che comporterebbero la palese violazione dell’art. 14[30] CEDU nonchè dell’art. 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici [31].

Sulla base dei propri assunti e della ritenuta rilevanza e non manifesta infondatezza degli stessi, a supporto dei quali, va detto, i Giudici rimettenti hanno puntualmente richiamato varie precedenti pronunce della stessa Corte: n. 62 del 1994, n. 490 del 1988, n. 54 del 1979, n. 244 e n. 177 del 1974, n. 144 del 1970, n. 11 del 1968 e n. 120 del 1967; anche di senso contrario: sentenza n. 104 del 1969[32], della questione è stata investita la Corte Costituzionale.

5. L’intervento della Consulta sull’art. 13 del d. l. n. 113/2018: la fondatezza dei vizi di legittimità denunciati in riferimento all’art. 3 Cost.

Dunque la Consulta, investita dell’interessante e dibattuta questione di legittimità sopra illustrata, dopo una succinta ma puntuale ricostruzione dei fatti di causa, procede in rito con la riunione dei giudizi instaurati con le richiamate quattro distinte ordinanze di rimessione in ragione dell’identità del petitum e le medesime disposizioni segnalate al sindacato della Corte, valutando percorribile l’opportunità della loro trattazione congiunta e risoluzione con un’unica pronuncia.

Si procede ad una preliminare ricostruzione del quadro normativo nel quale si innesta la norma denunciata, anche al fine di darne una lettura testuale nonchè sistematica e chiarirne il significato. A tal fine, i Giudici si soffermano in un passaggio ermeneutico, dando inizialmente conto delle due opposte interpretazioni di cui è stato oggetto l’art. 13 del d. l. n. 113 del 2018 ovvero la lettera a) che modifica l’art. 4 del d. lgs. n. 142 del 2015: “A fronte dell’interpretazione fatta propria dagli odierni rimettenti che sostengono – almeno in via principale (così il Tribunale di Milano) – l’effetto preclusivo dell’iscrizione anagrafica… si registra una diversa opzione interpretativa (sostenuta, tra i primi, da: Tribunale di Firenze, Bologna Genova… ) che, facendo leva sull’asserita ambiguità del dato letterale (e in particolare sulla formula «non costituisce titolo»), esclude che l’art. 13 del d. l. n. 113 del 2018 impedisca l’iscrizione anagrafica, dovendosi piuttosto ritenere che esso si limiti a precisare che il possesso del solo permesso di soggiorno per richiesta di asilo non è sufficiente per ottenere l’iscrizione all’anagrafe”.

Ebbene, la Corte, anche a tal proposito, ritiene meritevole di apprezzamento la prima interpretazione data alla norma in esame e cioè che “la disposizione censurata precluda l’iscrizione anagrafica degli stranieri richiedenti asilo”, illustrandone le motivate ragioni[33].

Dopo questa fase preliminare, la Corte delle Leggi procede all’esame delle singole censure prospettate, di cui si darà conto in sintesi appresso.

Si precisa,  in primis, che per motivi di ordine logico e sulla scorta di quanto già fatto in casi simili (sentenze n. 288 e n. 247 del 2019, n. 189 del 2018 e n. 169 del 2017) si esamina per prima la questione sollevata dal Tribunale ordinario di Milano, I sez. civ., con riferimento all’art. 77, c. II, Cost., in quanto attiene ai presupposti del corretto esercizio della funzione legislativa, in merito alla quale così ci si esprime: “si deve ritenere che con riferimento ad essa non sia riscontrabile un’evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza. L’art. 13 si inserisce in modo omogeneo nel capo contenente le norme in materia di protezione internazionale, riguardando un aspetto dello status dei richiedenti asilo”[34]. Ciò in quanto, si è ritenuto, in buona sostanza, che la scelta politica-normativa operata dal Governo di modificare con decreto-legge il sistema di riconoscimento della protezione internazionale, alla luce di un sempre più crescente ed impegnativo (per gli uffici territoriali) afflusso dei richiedenti asilo e ai complessi problemi inerenti la gestione del fenomeno migratorio nel suo insieme che si mira, in tal modo, a rendere più efficiente ed efficace nonché ad introdurre misure di contrasto al possibile ricorso strumentale alla domanda di protezione internazionale, «non si può considerare manifestamente arbitraria[35]».

Pertanto, la norma censurata sotto il profilo dell’esistenza dei presupposti del decreto-legge ed, in particolare, della rappresenta mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza, ha superato indenne il vaglio di costituzionalità.

Così, rigettata la suindicata questione, si passa ad esaminare la disposizione incriminata di incostituzionalità, in riferimento all’altro parametro costituzionale indicato, da tutti i Giudici rimettenti, nell’art. 3, ciò sotto molteplici profili, ma sostanzialmente perché introdurrebbe una deroga, priva dei «requisiti di razionalità e ragionevolezza», alla disciplina più volte richiamata dell’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998.

Tale questione (rectius: questioni) di legittimità costituzionale così come prospettata dai Tribunali rimettenti, è stata, infatti, ritenuta fondata, dichiarando assorbite tutte le altre.

La Corte si sofferma, ritenendole dirimenti, sulle argomentazioni circa l’irrazionalità intrinseca della norma in discussione, cogliendo proprio il profilo dell’incoerenza della stessa con le finalità dichiarate e perseguite dal D. L. n. 113/2018. Ciò che fa propendere i Giudici di Palazzo Consulta per siffatta conclusione, come gli stessi ben argomentano, è la discordanza tra le ragioni specifiche sottese alla modifica normativa, che consisterebbe nel voler “liberare le amministrazioni comunali, sul cui territorio sono situati i centri di accoglienza degli stranieri richiedenti asilo, dall’onere di far fronte agli adempimenti in materia di iscrizione anagrafica degli stessi, una maggiore attenzione e massima accuratezza delle istruttorie avviate”, attraverso l’esclusione di determinati soggetti dall’iscrizione anagrafica, con la ratio legis complessiva del provvedimento normativo nel quale la norma denunciata si colloca. Quest’ultima, si ricorderà, è precipuamente il voler aumentare il livello di sicurezza sul territorio nazionale[36].

Ma a ben vedere, viene sottolineato che non si vede come l’impedire l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, possa essere un viatico per tale finalità e che, contrariamente a quanto dichiarato, ciò determina un’oggettiva limitazione delle prerogative di controllo e monitoraggio dell’Autorità pubblica preposta sulla popolazione che effettivamente ed in determinato periodo storico, residente sul suo territorio interessato, incidendo negativamente sulla funzionalità delle stesse, perché impedisce di basare la loro azione su una rappresentazione veritiera nei registri anagrafici della situazione concreta della popolazione effettivamente residente sul loro territorio.

Or dunque, si aggiunge, pur volendo riconoscere meritevole di considerazione il carico di lavoro che grava sugli uffici comunali interessati da un forte addensamento migratorio (e dai relativi  centri di accoglienza) consistente nel dover sbrigare un alto numero di pratiche relative alla registrazione anagrafica dei richiedenti asilo, purtroppo questa condizione reale non «può giustificare la “sottrazione” di una categoria di soggetti alla “presa d’atto” formale della presenza (qualificata in termini di dimora abituale) di una persona; “presa d’atto” nella quale si sostanzia l’iscrizione anagrafica» e che rappresenta senza dubbio il «presupposto necessario per l’adeguato esercizio di tutte le funzioni affidate alla P. A., da quelle di sicurezza e ordine pubblico, sanitarie[37], a quelle di regolazione e controllo degli insediamenti abitativi e di erogazione di servizi pubblici … ».

Una tale prospettata situazione, conseguente alla vigenza della norma censurata, «accresce, anziché ridurre, i problemi connessi al monitoraggio» e la conseguente gestione «degli stranieri che soggiornano regolarmente nel territorio statale anche per lungo tempo[38], in attesa della decisione sulla loro richiesta di asilo, finendo per questo verso col rendere problematica, anziché semplificare, la loro stessa individuazione a tutti i fini, compresi quelli che attengono alle vicende connesse alla procedura di asilo».

Affrontato questo aspetto della questione di legittimità costituzionale, si passa a considerare e condividere e, pertanto, accogliere de plano, le eccezioni mosse dai rimettenti in merito all’altro profilo sul quale sono state fondate le censure a supporto della medesima questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. e, nello specifico, per l’irragionevole disparità di trattamento tra stranieri richiedenti asilo e altre categorie di stranieri legalmente soggiornanti nel territorio statale.

A tal proposito, superato l’apparente ostacolo frapposto dal dato letterale dell’art. 3 Cost., che si riferisce espressamente ai soli “cittadini”, ma è superfluo dire che il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando trattasi di rispettare diritti fondamentali (sentenza n. 120 del 1967). Ma, d’altronde, è già stato chiarito dalla Consulta che è facoltà del legislatore di introdurre regimi differenziati circa il trattamento da riservare ai singoli consociati ma solo «in presenza di una “causa” normativa non palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria» (sentenza n. 432 del 2005). Infatti, se da un lato il legislatore può apprezzare e regolare, nella sua discrezionalità, situazioni soggettive nel campo della titolarità dei diritti di libertà, dall’altro il sindacato giurisdizionale si insinua laddove si travalica proprio il limite unico della razionalità del suo apprezzamento (sentenza n. 104 del 1969).

In altri termini: se è vero che possono presentarsi nelle «situazioni concrete» delle particolarità che giustifichino un diverso trattamento tra differenti categorie di stranieri legalmente soggiornanti sul territorio, in ragione del motivo e della durata del loro soggiorno[39], è vero anche che la diversità di trattamento deve trovare un solido fondamento, una specifica, trasparente e razionale “causa giustificatrice”, idonea a “spiegare”, sul piano costituzionale, le “ragioni” poste a base della deroga» (sentenza n. 432 del 2005)», il che non è stato riscontrato nella norma esaminata.

Ebbene, se la regola generale – come sopra illustrato – in tema di iscrizioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante è contenuta nell’art. 6, comma 7, del d. lgs. n. 286 del 1998[40], al quale la norma censurata deroga (negando l’iscrizione anagrafica a stranieri che hanno la dimora abituale nel territorio italiano ma che sono anche richiedenti asilo), ponendo in una condizione differenziata ed indubbiamente peggiorativa una particolare categoria di stranieri, ciò avviene senza alcuna idonea e men che meno ragionevole motivazione.

La Corte conclude sul punto con la constatazione che se «la registrazione anagrafica è semplicemente la conseguenza del fatto oggettivo della legittima dimora abituale in un determinato luogo, la circostanza che si tratti di un cittadino o di uno straniero, o di uno straniero richiedente asilo, comunque regolarmente insediato, non può presentare alcun rilievo ai suoi fini».

Infine, la Corte evidenzia anche l’aspetto sociale di una siffatta ingiusta ed immotivata esclusione operata con il dettato normativo oggetto del giudizio, la cui portata lesiva va al di là della stessa violazione del principio di eguaglianza, concretizzandosi nella lesione irrazionale della connessa «pari  dignità sociale», riconosciuta dall’art. 3 Cost. alla persona in quanto tale, a prescindere dal suo status e dal grado di stabilità della sua permanenza regolare nel territorio italiano. Ciò in quando, se è lecito valorizzare le differenze tra cittadini e stranieri, certamente non si può porre una specifica categoria di stranieri (i richiedenti asilo) in una svantaggiosa condizione di “minorazione” sociale senza idonea giustificazione, ciò in quanto lo status di straniero non può essere di per sé considerato «come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi», scaturenti, a tacer d’altro, dalle concrete difficoltà di ordine pratico e burocratico connesse alle modalità di accesso ai servizi che fanno quasi sempre riferimento alla residenza e alla sua certificazione a mezzo dell’anagrafe nonché per la stessa difficoltà di individuare il luogo di domicilio, a fronte della certezza offerta, invece, dal dato formale della residenza anagrafica.

6. Brevi considerazioni conclusive

È notorio che le scelte di un Governo di indirizzare l’azione legislativa secondo certe direttive, piuttosto che altre, nel caso di specie restrittive e di chiusura, circa l’organizzazione e la gestione delle politiche in materia di immigrazione ed asilo (materia palesemente complessa e controversa), ne delineano l’approccio che le forze politiche di maggioranza hanno rispetto a tale tematica, cruciale per la vita di un Paese. Spesso le policy messe in campo dall’esecutivo in tale materia sono il riflesso delle promesse fatte in campagna elettorale ad ampi settori di consociati circa, appunto, problemi quali l’immigrazione irregolare, l’impatto sociale della stessa nonché il connesso incremento tasso di criminalità, che genera insicurezza, paura ecc[41]. Ed infatti, l’argomento immigrazione, vista come fonte di allerta sotto il profilo della sicurezza ed ordine pubblico, in una prospettiva politico-elettorale che suggestiona ampie fasce dell’elettorato, finisce per diventare non più un fattore di uguaglianza, inclusione ed integrazione, bensì un elemento giuridico di disuguaglianza e di discriminazione[42].

Detto ciò, è altrettanto facile ricordare che recenti compagini governative (Governo cd. giallo-verde perché composto da una colazione di M5S e Lega) hanno dato una considerevole salienza alla gestione delle politiche migratorie verso il nostro Paese[43], proprio in chiave elettorale, per cui i cd. “Pacchetti sicurezza”, voluti fortemente dall’allora Ministro dell’interno e segretario della Lega, Matteo Salvini, non sono altro che lo specchio della nuova impronta che si volle dare alle visioni politiche delle migrazioni e dell’asilo, della modalità di affrontare questi complessi temi, cercando dialoghi intergovernativi, rimodulando l’equilibrio tra difesa dei confini nazionali ed interessi interni, valori umanitari e le norme di protezione internazionale poste a salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali dei più deboli[44].

Orbene, ciò premesso ed al netto delle tecniche redazionali e di coordinamento degli interventi legislativi adottati con il restante quadro normativo di riferimento nonché delle esaurienti prospettazioni presentate dai Giudici rimettenti e le chiari osservazioni giuridiche –normative sviscerate dalla Consulta, alle quali nulla va sicuramente aggiunto, ciò che si ritiene di evidenziare è che la vera ratio della norma censurata risiede nel voler dare un forte, forse atteso, segnale di discontinuità con la precedente politica di accoglienza, ritenuta troppo permissiva, dispendiosa oltre che dannosa[45].

A tal proposito, va rilevato come siffatto aspetto non è sfuggito nemmeno alla Corte la quale si sofferma anche sul valore “simbolico” da attribuire all’esclusione dall’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, sottolineando la portata e le conseguenze, anche in termini di stigma sociale, operata dalla norma de qua, concretizzatasi materialmente nell’impossibilità di ottenere la carta d’identità, incidendo in tal modo sulla dignità personale e sociale dell’individuo (art. 3 Cost.).

In linea con tale lettura vi è anche una considerazione della difesa delle parti costituite, che tramuta, sic et simpliciter, la disposizione censurata «nel suo valore di “messaggio” implicito: lo Stato italiano dice che “non gradisce” i richiedenti asilo».

Si comprende, dunque, ancor più la delicatezza del tema affrontato, correlato alle dinamiche di governance multilivello delle problematiche legate alla ricezione dei richiedenti asilo e rifugiati, alla cittadinanza attiva e alle politiche di integrazione rivolte agli stranieri[46], quasi sempre in un’ottica meramente emergenziale[47] ovvero in chiave elettorale, però altresì praticabili in un orizzonte di uguaglianza sociale, assenza di discriminazioni e di pari opportunità[48].

A tal riguardo, si ricorda che i cd. “Decreti sicurezza” hanno avuto molta risonanza politica e sono stati strumentali al consolidamento del consenso interno di una parte della coalizione del Governo Conte-I (cd. giallo-verde), la Lega.

Si evidenzia, infine, che tali provvedimenti sono stati molto criticati e che, in particolare, il “Decreto sicurezza bis” (decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53), che intervenne, a breve distanza di tempo, su ambiti normativi già oggetto di modifiche da parte del Decreto legge n. 113 dell’ottobre 2018 (cd. Primo decreto sicurezza), all’atto della promulgazione della legge 8 agosto 2019, n. 77 di conversione, con modificazioni, del citato decreto n. 113/2018, da parte del Presidente della Repubblica, è stato  oggetto di parziali e mirati rilievi[49], «rimettendosi  alla valutazione del Parlamento e del Governo per l’individuazione dei modi e dei tempi di un intervento normativo sulla disciplina in questione».

Tale valutazione, a più di un anno dalla formale ed autorevole richiesta, per quanto è dato sapere al riguardo, sta per giungere da parte del Governo Conte-II (cd. giallo-rosso), con un testo di revisione dei due decreti sicurezza sul quale le attuali forze di maggioranza (M5S-PD) hanno trovato la quadra, per poi sottoporlo all’attenzione delle autonomie locali, per poi successivamente, si presume nel prossimo mese di settembre 2020, essere oggetto di approvazione in Consiglio dei ministri.

Ebbene, si apprende, dagli organi di stampa ben informati, che dovrebbero essere cancellate le ingenti multe alle navi umanitarie utilizzate per il salvataggio dei migranti in mare, ma resterebbe comunque un sistema di sanzioni sul codice della navigazione, cioè per quelle Ong che violano la normativa nelle operazioni SAR (ricerca e soccorso). Verrebbe, inoltre, allargata la possibilità di accedere alla protezione umanitaria, di fatto negata dal primo decreto sicurezza che aboliva questa forma di aiuto, una delle tre possibili per i richiedenti asilo insieme all’asilo politico e alla protezione sussidiaria, sostituendola con una serie di “permessi speciali” della durata di un anno e allo stesso modo sarebbero ampliati i permessi speciali per chi rischia di subire “trattamenti inumani e degradanti” nel Paese di origine.

Prevista anche una revisione del sistema di accoglienza SIPROIMI[50] e, recependo la censura operata sul punto dalla Corte Costituzionale, la possibilità, per i richiedenti asilo, di iscriversi all’anagrafe comunale.

 

 


[1] Decreto Legge convertito con modificazioni dalla L. 1 dicembre 2018, n. 132, pubbl. in G.U. del 03/12/2018, n. 281.
[2] Per distinguerlo dal successivo, cd. “Decreto sicurezza bis”, D. L. 14 giugno 2019, n. 53 recante “Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica”, pubblicato in G.U. Serie Generale n. 138 del 14-06-2019 ed entrato in vigore il 15/06/2019. Decreto Legge convertito con modificazioni dalla L. 8 agosto 2019, n. 77 (in G.U. 9/08/2019, n. 186).
[3] Per ogni approfondimento: A. CONZ & L. LEVITA, “Il decreto Salvini su immigrazione e sicurezza. Commento organico al D. l. 4 ottobre 2018, n. 113, come convertito dalla L. 1 dicembre 2018, n. 132”, Dike Giuridica Editrice, 2018.
[4] Segue il testo integrale: “Art. 13 – Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica – 1. Al decreto legislativo 18 agosto:
2) dopo il comma 1, è inserito il seguente:  «1 -bis . Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286»”.
[5] Recante “Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale”.
[6] Per ogni approfondimento: C. VIRGA, “Migrazioni, Diritto d’asilo e sistema d’accoglienza. Una riflessione sul concetto d’integrazione e sulle conseguenze della Legge 132/2018”, Editore Spring, 2020.
[7] Fino all’autunno del 2018 l’Italia poteva riconoscere tre diversi tipi di protezione a chi ne facesse richieste: status di rifugiato, protezione sussidiaria e umanitaria. In breve: Lo status di rifugiato in un paese straniero è riconosciuto a chi dimostra un fondato timore di subire nel proprio paese una persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, secondo la definizione della Convenzione di Ginevra del 1951; Protezione riconosciuta a persone che, pur non possedendo i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, sono protette in quanto a rischio di subire un danno grave (ovvero condanna a morte, tortura, minaccia alla vita in caso di guerra interna o internazionale) al rientro nel loro Paese d’origine; La protezione umanitaria può essere rilasciata dal Questore qualora ricorressero “seri motivi di carattere umanitario o  risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato  italiano”, anche in caso di diniego alla richiesta di asilo. La durata variava dai 6 mesi ai 2 anni. Si trattava di un tipo di permesso di soggiorno introdotto in Italia nel 1998 all’interno del D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 recante “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, in aggiunta alle altre due tipologie di tutela.
[8] Introduce, inoltre, un nuovo permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile.
[9] Fa d’uopo ricordare che, al momento della richiesta di protezione internazionale viene lasciata una ricevuta attestante la presentazione della domanda di protezione internazionale che costituisce permesso di soggiorno provvisorio. Successivamente, il richiedente ottiene un permesso di soggiorno per richiesta asilo della durata di sei mesi (equivalente al termine entro cui la procedura per il riconoscimento o il diniego della protezione internazionale, da parte della Commissione territoriale, dovrebbe concludersi), ferma restando la rinnovabilità del permesso di soggiorno per richiesta asilo, fino alla decisione sulla domanda di protezione o sull’impugnazione del suo diniego (art. 4, D.lgs. n. 142/2015).
[10] In particolare, ai sensi dell’art. 1, co. 1, lett. c) del citato DPR n. 445 del 2000 per documento di riconoscimento si intende ogni documento munito di fotografia del titolare e rilasciato, su supporto cartaceo, magnetico o informatico, da una pubblica amministrazione italiana o di altri Stati, che consenta l’identificazione personale del titolare.
[11] Per anagrafe della popolazione residente si intende la raccolta sistematica dell’insieme delle posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze che hanno fissato nel comune la residenza, nonché delle posizioni relative alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel comune il proprio domicilio (art. 1, regolamento anagrafico). Il regolamento si conforma all’art. 1 della legge 1228/1954 (cd. legge anagrafica) ai sensi del quale: “In ogni Comune deve essere tenuta l’anagrafe della popolazione residente. Nell’anagrafe della popolazione residente sono registrate le posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze, che hanno fissato nel Comune la residenza, nonché le posizioni relative alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel Comune il proprio domicilio, in conformità del regolamento per l’esecuzione della presente legge”.
[12] Fa d’uopo richiamare, l’art. 6, c. 7 del T.U. immigrazione, in base al quale “le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione. In ogni caso la dimora dello straniero si considera abituale anche in caso di documentata ospitalità da più di tre mesi presso un centro di accoglienza. Dell’avvenuta iscrizione o variazione l’ufficio dà comunicazione alla questura territorialmente competente”.
[13] Il richiamato comma 1 prevede che il richiedente protezione internazionale comunichi il proprio domicilio o residenza tramite dichiarazione da riportare nella domanda di protezione internazionale. Ogni eventuale successivo mutamento del domicilio o residenza è comunicato dal richiedente alla medesima questura e alla questura competente per il nuovo domicilio o residenza. Il comma 2 definisce luogo di domicilio, per i richiedenti lì trattenuti, l’indirizzo del centro di permanenza temporanea (ex CIE di cui all’articolo 6 del decreto legislativo n. 142), o del centro
governativo di prima accoglienza (di cui all’articolo 9) o delle strutture temporanee di cui all’articolo 11 o della struttura del sistema SPRAR di cui all’articolo 14.
[14] In base al vigente quadro normativo (art. 5, D. Lgs. 142 del 2015), il richiedente ha l’obbligo di comunicare alla Questura il proprio domicilio o residenza, così come ogni successivo mutamento. Tale obbligo si intende assolto tramite dichiarazione del richiedente da riportare nella domanda di protezione internazionale. L’indirizzo del centro o della struttura di accoglienza, per il richiedente che vi si trovi, costituisce il domicilio agli effetti del procedimento di riconoscimento della protezione internazionale e del trattenimento.
[15] Fonte: Linee guida sul diritto alla residenza dei richiedenti e beneficiari di protezione internazionale, a cura del Servizio Centrale del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR). Il Quaderno è stato curato: per il Servizio Centrale dello SPRAR da Lucia Iuzzolini e Cristina Passacantando per UNHCR da Andrea De Bonis e Costantino Giordano da ASGI – Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione per ANUSCA da Romano Minardi e finito di stampare in dicembre 2014. Il testo integrale al seguente link: https://www.unhcr.it/wp-content/uploads/2016/01/Il_diritto_alla_residenza_di_richiedenti_e_beneficiari_di_protezione_internazionale___Linee_guida.pdf
[16] L’art. art. 2, paragrafo 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 16 settembre 1963 e reso esecutivo con il d.P.R. 14 aprile 1982, n. 217, che riconosce taluni diritti e libertà diversi da quelli che figurano già nella convenzione e nel suo primo protocollo addizionale.
[17] Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
[18] Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881.
[19] I giudizi davanti ai Tribunali di Ancona e di Salerno sono procedimenti cautelari ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ. promossi sul presupposto del pregiudizio grave e irreparabile che potrebbe derivare al ricorrente dal diniego di iscrizione anagrafica (conseguente all’applicazione della norma censurata), in attesa della decisione di merito. In questi giudizi i rimettenti hanno concesso la misura cautelare «con riserva di confermare il provvedimento o caducarlo, ordinando quindi la cancellazione dell’iscrizione, all’esito del giudizio di costituzionalità» (in questi termini, il Tribunale di Ancona).
Mentre il giudizio davanti al Tribunale di Milano è un procedimento sommario di cognizione promosso con ricorso ex art. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), ed ex art. 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nonché ex art. 702-bis cod. proc. civ.
[20] Va anche rilevato che la difesa dei due ricorrenti costituitisi nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale  ha escluso che il diniego di iscrizione anagrafica possa essere giustificato in ragione della precarietà e della temporaneità del permesso di soggiorno per richiesta di asilo, in quanto né l’una né l’altra di queste caratteristiche è impeditiva della fissazione di una dimora abituale nel territorio italiano. Ciò, indubbiamente, incide fortemente su un diritto fondamentale della persona, quello ad avere la residenza nel luogo di dimora abituale che, invece, dovrebbe spettare di per sé, indipendentemente dai servizi territoriali cui lo straniero può essere ammesso.
[21] I signori A. H. e A. S., rispettivamente ricorrenti nei giudizi innanzi al Tribunale di Milano e di Ancona, si sono anche costituiti nel giudizio incidentale di legittimità innanzi alla Corte Costituzionale, unitamente agli atti di intervento in giudizio ad adiuvandum, ai sensi dell’art. 4 delle “Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale” del 16 marzo 1956 e successive modificazioni, a sostegno delle ragioni delle parti ricorrenti delle associazioni ASGI-Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione ed Avvocati per Niente Onlus.
Per le amministrazioni convenute nel giudizio a quo, si sono costituiti il Comune di Milano, chiedendo che le questioni sollevate siano ritenute ammissibili e fondate nonché il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, invece, che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate.
[22] L’iscrizione anagrafica registra la volontà delle persone, italiane o straniere, che, avendo una dimora, hanno fissato in un determinato Comune la propria residenza oppure, non avendo una dimora, hanno stabilito nello stesso Comune il proprio domicilio.
[23] Il cittadino italiano e lo straniero, ai fini dell’iscrizione anagrafica, sono sullo stesso piano, dovendo dimostrare l’elemento oggettivo (stabile permanenza in un luogo) e quello soggettivo (volontà di rimanervi). Lo straniero, in aggiunta a questi elementi, dovrà solo dimostrare di essere regolarmente soggiornante in Italia.
[24] Per ogni approfondimento: P. MOROZZO DELLA ROCCA,“Immigrazione, asilo e cittadinanza”, Maggioli Editore, 2019.
[25] Oltre all’accesso ad una serie di altri servizi sociali, già richiamati, rispetto ai quali diventerebbe «irrilevante il fatto che l’accesso agli stessi sia comunque garantito in base al domicilio (come sostiene nei suoi scritti l’Avvocatura dello Stato) poiché il divieto di iscrizione anagrafica lederebbe pur sempre «un diritto autonomo e presupposto rispetto a questi ulteriori diritti sociali».
[26] Per ogni approfondimento: M. R. Carillo, “Flussi migratori e capitale umano. Una prospettiva regionale”, Carocci, 2012.
[27] Convenzione EDU firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
[28] Adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966. Entrata in vigore internazionale: 23 marzo 1976.
Stati Parti al 1° gennaio 2009: 163. Autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzione in Italia dati con legge n. 881 del 25 ottobre 1977 (Gazzetta Ufficiale n 333 del 7 dicembre 1977).
[29] Al comma 1 prevede che “Chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di fissarvi liberamente la sua residenza”.
[30] Che prevede: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.
[31] Che dispone: “Tutti gli individui sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. A questo riguardo, la legge deve proibire qualsiasi discriminazione e garantire a tutti gli individui una tutela eguale ed effettiva contro ogni discriminazione, sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale o sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione”.
[32] Con questa importante sentenza si sottolineava che «tra cittadino e straniero, benché uguali nella titolarità di certi diritti di libertà, esistano differenze di fatto che possano giustificare un loro diverso trattamento nel godimento di quegli stessi diritti».  Da tale concetto ne deriverebbe «l’esigenza di distinguere tra titolarità – estesa a tutti – e godimento – differentemente modulabile – di un diritto inviolabile». Di conseguenza, vi sarebbe un «nucleo irriducibile» dei diritti inviolabili, che deve essere riconosciuto a tutti, mentre «[l]’accesso e il godimento di quella porzione di diritto inviolabile che eccede questo “nucleo” […] ricadono nel margine di discrezionalità spettante al legislatore». In questo caso, la differenza di trattamento tra cittadino e straniero non deve sconfinare nell’irragionevolezza.
[33] Ci si rifà, in buona sostanza, ai contenuti della relazione illustrativa del decreto-legge e a quella illustrativa del disegno di legge di sua conversione in cui si legge esplicitamente di “esclusione dall’iscrizione anagrafica”, alla relazione fatta dal direttore dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) in merito all’effetto che “il cambiamento normativo comporterà comunque un’interruzione nella serie storica della popolazione residente”, nonché agli scritti del Ministro dell’interno che ha individuato nella «precarietà della loro permanenza sul territorio» la ragione dell’esclusione dell’iscrizione anagrafica. Sono richiamate anche alcune circolari diramate dal Ministero dell’interno dopo l’entrata in vigore del d. l. n. 113 del 2018, tra le quali quella del 18 ottobre 2018, recante «D.L. 4 ottobre 2018, n. 113 (G.U. n. 231 del 4/10/2018), coerenti con questa lettura data alla disposizione. Si sottolinea come anche la lettura sistematica della disposizione censurata conferma questa interpretazione: il riferimento, in essa contenuto, all’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 deve ritenersi operato al fine di dare atto della deroga così introdotta alla previsione della disposizione richiamata. Analogamente, le disposizioni di cui all’art. 13, comma 1, lettera b), numeri 1) e 2), del d. l. n. 113 del 2018, sostituendo il «luogo di residenza» con quello di domicilio come luogo di erogazione dei servizi, confermano l’intento del legislatore di escludere i richiedenti asilo dal riconoscimento giuridico della dimora abituale operato per il tramite dell’iscrizione anagrafica.
[34] D’altronde la Corte, nella sentenza n. 194 del 2019, ha già ricondotto la norma sul divieto di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo alle materie del «diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione
europea», oltre che delle «anagrafi» (art. 117, secondo comma, lettere a e i, Cost.).
[35] Appare in caso di evidenziare  che il sindacato della Corte Costituzionale sulla legittimità dell’adozione, da parte del Governo, di un decreto-legge va limitato ai casi di evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost., o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione (cfr. sentenza n. 97 del 2019; in senso simile, sentenze n. 288 e n. 33 del 2019 e n. 137, n. 99 e n. 5 del 2018): ciò al fine di evitare la sovrapposizione tra la valutazione politica del Governo e delle Camere (in sede di conversione) e il controllo di legittimità costituzionale della Corte.
[36] Per ogni approfondimento: M. BARBAGLI, “Immigrazione e criminalità in Italia”, Il Mulino, 2008.
[37] Circa tale aspetto, la Corte non dimentica, nel prosieguo delle motivazione, di sottolinearne la particolare importanza, considerato che è proprio in base all’anagrafe dei residenti che «il Comune può avere contezza delle effettive presenze sul suo territorio ed essere in condizione di esercitare in maniera adeguata le funzioni attribuite al sindaco dall’art. 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), soprattutto in caso di emergenze sanitarie circoscritte al territorio comunale».
[38] Proprio a tal riguardo, la Corte delle Leggi, riprendendo le argomentazioni avanzate dall’Avvocatura dello Stato e dal Governo circa la precarietà della permanenza legale sul territorio dei richiedenti asilo, replica ricordando che «il permesso di soggiorno di cui si discute ha durata di sei mesi ed è rinnovabile «fino alla decisione della domanda o comunque per il tempo in cui il suo destinatario è autorizzato a rimanere nel territorio nazionale» (art. 4 del d.lgs. n. 142 del 2015), che, nella stragrande maggioranza dei casi, il periodo complessivo di permanenza dei richiedenti asilo nel nostro Paese risulta essere di almeno un anno e mezzo (come messo in evidenza da tutti i soggetti intervenuti o costituiti nel presente giudizio), soprattutto a causa dei tempi di decisione sulle domande». Per poi concludere sul punto, che «La descritta durata, legale e fattuale, del soggiorno dello straniero richiedente asilo rappresenta, già da sola, un dato espressivo di una permanenza protratta per un arco temporale rilevante e appare inoltre particolarmente significativa.
[39] Così come accade, precisano i Supremi Giudici, per esempio, «nel caso della normativa che limita ai cosiddetti soggiornanti di lungo periodo il riconoscimento di determinati diritti».
[40] Fa d’uopo ricordare la regola generale ex art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998: “Le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione”.
[41] Per ogni approfondimento: C. DAMBONE  & L. MONTELEONE, “La paura dello straniero. La percezione del fenomeno migratorio tra pregiudizi e stereotipi”, Franco Angeli, Milano, 2019; E. LEVI, R. DASI MARIANI & M. MONGIARDO, “L’ ostilità verso l’immigrazione. La percezione del fenomeno migratorio: i fallimenti della politica, il framing mediatico e la socialdemocrazia europea”, Rubbettino, 2019.
[42] Per ogni approfondimento: V. LANNUTTI, “Politiche migratorie. Tra strumenti regolativi, autonomie operative, condizionamenti culturali”, Ceris, 2014.
[43] Per ogni approfondimento: M. COLUCCI, “Storia dell’immigrazione straniera in Italia. Dal 1945 ai giorni nostri”, Carocci, 2018.
[44] Per ogni approfondimento: P. BENVENUTI, “Flussi migratori e fruizione dei diritti fondamentali”, Il Sirente, 2008.
[45] Per ogni approfondimento: G. AVALLONE, “Il sistema di accoglienza in Italia. Esperienze, resistenze, segregazione”, Orthotes, 2018.
[46] Per ogni approfondimento: M. PELLERONE & V. SCHIMMENTI, “Percorsi migratori e cambiamenti identitari nella sfida all’integrazione”, Franco Angeli, Milano, 2019.
[47] Per ogni approfondimento: A. SCOTTO, “Emergenza permanente. L’Italia e le politiche per l’immigrazione”, Epoké (Novi Ligure), 2018.
[48] Per ogni approfondimento: A. POGLIANO, “Media, politica e migrazioni in Europa. Una prospettiva sociologica”, Carocci, 2020.
[49] Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, inviò contestualmente una lettera ai Presidenti del Senato della Repubblica, Maria Elisabetta Alberti Casellati, della Camera dei Deputati, Roberto Fico, e al Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, segnalando due profili che suscitavano rilevanti perplessità. Si punta l’attenzione sull’irragionevolezza delle sanzioni amministrative pecuniarie nel caso di violazione del divieto di ingresso nelle acque territoriali – per motivi di ordine e sicurezza pubblica o per violazione alle norme sull’immigrazione, auspicando «proporzionalità tra sanzioni e comportamenti», inoltre, Mattarella ricorda che, come correttamente indicato all’articolo 1 del decreto convertito, la limitazione o il divieto di ingresso può essere disposto “nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia”, così come ai sensi dell’art. 2 “il comandante della nave è tenuto ad osservare la normativa internazionale”. Nell’ambito di questa la Convenzione di Montego Bay, richiamata dallo stesso articolo 1 del decreto, prescrive che “ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio e i passeggeri, presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo”. Il testo integrale, disponibile al seguente link: https://www.quirinale.it/elementi/32099
[50] Acronimo del nuovo “Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati”, che ha sostituito gli SPRAR “Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati”, con il decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113.

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