Contratti a termine PA: risarcimento automatico ma no alla conversione

Contratti a termine PA: risarcimento automatico ma no alla conversione

Cass. Civ., Sez. Un., 15 marzo 2016, n. 5072

a cura di Paolo Ferone

Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abusivo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una P.A., il dipendente, esclusa la possibilità di conversione del rapporto, ha diritto al risarcimento del danno per l’illegittima precarizzazione nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010.

Il lavoratore non può vedersi riconoscere esclusivamente il danno da perdita di chance, poiché renderebbe privo di effettività la tutela riconosciuta al lavoratore.

 Il valore dell’indennizzo può oscillare da un minimo di 2,5 a un massimo di 12 mensilità a seconda dell’anzianità di servizio, del comportamento delle parti e degli altri criteri fissati dalle regole sul rapporto di lavoro. Una tale tutela è sufficiente a rispettare gli obblighi imposti a livello europeo che impongono alle leggi dei singoli stati membri di contrastare l’abuso del contratto a termine, utilizzato anche nel pubblico impiego, senza imporre la stabilizzazione del rapporto di lavoro, il quale secondo l’ordinamento italiano contrasta con il principio dell’accesso alla Pubblica amministrazione per il solo strumento del concorso pubblico.

Le Sezioni unite della Cassazione risolvono così, con la sentenza in commento, l’annosa questione delle tutele riconoscibili nel pubblico impiego contro l’abuso dei contratti a termine. L’interpretazione dei Giudici della Suprema Corte si spinge su un filone di armonizzazione delle norme italiane, che bloccano di fatto la stabilizzazione tipica del privato, vigendo nel nostro ordinamento il principio costituzionale secondo cui per accedere nella Pubblica Amministrazione occorre un concorso pubblico; tuttavia tale principio deve essere letto in chiave Europea. Quest’ ultima, ha raccolto nell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, che impone di prevenire gli abusi di contratti a tempo determinato, in termini di rinnovi senza «ragioni obiettive» oppure di sforamento della durata massima o del numero massimo delle proroghe.

Le norme italiane che trattano di pubblico impiego, secondo la Corte, rischierebbero di non reggere la prova dell’Unione Europea, e quindi potrebbero rivelarsi illegittime sul piano della Costituzione che impone di adeguare la disciplina «ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» (articolo 117, comma 1). Invero, a colui che è titolare di contratti a termine ritenuti illegittimi è riconosciuto il risarcimento del danno, che non è rappresentato dalla mancata stabilizzazione ma prima di tutto dalla perdita di chance prodotta dalle altre occasioni di lavoro stabile di cui l’interessato non ha potuto approfittare, in quanto impegnato nel rapporto di lavoro con la PA. Tuttavia, l’onere di provare questo danno è integralmente a carico del lavoratore, e questo renderebbe la tutela effettiva riconosciutagli, troppo debole per rispettare i dettami stabiliti nella direttiva Ue.

Per superare l’empasse, senza coinvolgere la Corte costituzionale, le Sezioni unite individuano una disciplina adeguabile nelle regole sancite nella legge 183/2010; Infatti, quest’ultima, all’articolo 32, comma 5, prevede l’indennità tra 2,5 e 12 mensilità «dell’ultima retribuzione globale di fatto» per indennizzare chi è incappato nei contratti a termine illegittimi. Nel settore privato la regola serve a limitare i risarcimenti, mentre secondo la Cassazione, la sua estensione alla PA va interpretata “in chiave agevolativa” per risolvere il problema dell’onere della prova causato dalla perdita di chance. A decidere di volta in volta l’ammontare effettivo del risarcimento, dovranno essere i parametri stabiliti dalla legge 604/1966, che fissano tra il minimo di 2,5 mensilità e il massimo di 12, modulando l’indennizzo in base all’anzianità di servizio, alle condizioni concrete del caso e alla dimensione dell’organizzazione coinvolta.

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