Controllo difensivo occulto: il punto di vista della Corte di Cassazione

Controllo difensivo occulto: il punto di vista della Corte di Cassazione

Il testo vigente dell’art. 4 comma 1) della Legge n. 300 del 20.5.1970 (Statuto dei Lavoratori) – così modificato per effetto delle riforme poste in essere prima dall’art. 23 comma 1) del D.Lgs. n. 151 del 14.9.2016, e poi dall’art. 5 comma 2) del D.Lgs. n. 185 del 24.9.2016 – dispone espressamente che: “Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi[1].

Nello specifico, tale disposizione normativa – pur non trovando più una espressa sanzione penale nell’art. 38 della medesima Legge n. 300/1970, a seguito della soppressione del riferimento, al suo interno, all’art. 4 da parte del D.Lgs. n. 196/2003 (Codice Privacy), il quale, tuttavia, ha colmato tale lacuna mediante il combinato disposto dei suoi artt. 114[2] e 171[3], che confermano quanto statuito dall’art. 4, e rinviano alle sanzioni penali contemplate nell’art. 38 dello Statuto dei Lavoratori – regolamenta un reato di pericolo, dato che è diretta a salvaguardare le possibili lesioni della riservatezza dei lavoratori, con la conseguenza che, per la sua integrazione, è sufficiente la mera predisposizione di apparecchiature idonee a controllare, a distanza, l’attività dei lavoratori, anche se le stesse non sono in funzione ovvero concretamente utilizzate (cfr. ex multis: Corte di Cassazione n. 4331 del 30.1.2014, n. 4331 del 12.11.2013)[4].

Tanto premesso, con sentenza n. 3255 del 27.1.2021 la Suprema Corte ha, di recente, provveduto ad esaminare la questione se sia (o meno) configurabile il reato di violazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, laddove l’impianto audiovisivo, installato sul luogo di lavoro in difetto della necessaria autorizzazione sindacale o amministrativa, persegua il cd. controllo difensivo (occulto), ovverosia quell’attività di controllo che il datore di lavoro pone in essere al fine di accertare il compimento di eventuali condotte illecite ad opera di un proprio lavoratore.

A tal riguardo, i giudici di legittimità hanno affermato che, alla luce della (anche) recente giurisprudenza civile nomofilattica, esulano dal campo di applicazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (e, dunque, non richiedono l’osservanza delle garanzie ivi previste) i controlli difensivi da parte del datore di lavoro se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale, tanto più quando sono effettuati ex post, ossia dopo l’attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa (cfr. Corte di Cassazione n. 13226/2018, n. 10636/2017 e n. 22662/2016).

La ratio di tale principio risiede nel presupposto che “l’interpretazione della disposizione (L. n. 300 del 1970, art. 4) va ispirata ad un equo e ragionevole bilanciamento fra le disposizioni costituzionali che garantiscono il diritto alla dignità e libertà del lavoratore nell’esercizio delle sue prestazioni oltre al diritto del cittadino al rispetto della propria persona (artt. 1, 3, 35 e 38 Cost.), ed il libero esercizio dell’attività imprenditoriale (art. 41 Cost.), con l’ulteriore considerazione che non risponderebbe ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore – in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con la sanzione espulsiva – una tutela alla sua “persona” maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei all’impresa” (così testualmente, in motivazione, Corte di Cassazione n. 10636/2017)[5].

In ragione di ciò, la Corte di Cassazione ha concluso sancendo espressamente che “deve escludersi la configurabilità del reato concernente la violazione della disciplina di cui alla L. 20 maggio 1970 n. 300, art. 4, quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre, però, che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti, o debba restare necessariamente “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi[6].

 

 

 

 


[1] Sembra ragionevole ritenere che la successione di discipline normative non abbia apportato variazioni significative alla fattispecie incriminatrice. In effetti, la condotta vietata consisteva (e consiste) nell’installazione degli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro. Le modifiche legislative, piuttosto, sono relative all’individuazione dei soggetti cui compete il potere di concordare o autorizzare l’installazione degli impianti.
[2] Art. 114 del Codice Privacy: “Resta fermo quanto disposto dall’articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300”.
[3] Art. 171 del Codice Privacy: “La violazione delle disposizioni di cui agli articoli 4, comma 1, e 8 della legge 20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui all’articolo 38 della medesima legge”.
[4] Come affermato in precedenti arresti della Corte di Cassazione, l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori “fa parte di quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore sul presupposto – espressamente precisato nella Relazione ministeriale – che la vigilanza sul lavoro, ancorché necessaria all’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione umana, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di incertezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro” (cfr. Corte di Cassazione n. 2722/2012 e n. 10955/2015).
[5] Tale soluzione ermeneutica risulta peraltro coerente con i principi dettati dall’art. 8 della CEDU, in base al quale nell’uso degli strumenti di controllo deve individuarsi un giusto equilibrio fra i contrapposti diritti sulla base dei principi della “ragionevolezza” e della “proporzionalità” (cfr. CEDU del 17.10.2019 “causa Lopez Ribaldi e altri c. Spagna”; CEDU del 12.1.2016 “causa Barbulescu c. Romania”).
[6] In altri termini, le principali cautele da tenere in considerazione in un’ottica di massimo rispetto del principio di proporzionalità in questione sono, senz’altro, la limitazione dell’angolo visuale oggetto di videosorveglianza, e la limitazione, sotto il profilo temporale, della ripresa a quanto strettamente necessario in rapporto alle finalità (eccezionali) perseguite dal datore di lavoro.

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