Conversazioni “WhatsApp”: utilizzabili solo mediante l’esame diretto del supporto

Conversazioni “WhatsApp”: utilizzabili solo mediante l’esame diretto del supporto

Nota a sentenza Cass. Penale, V Sez., n. 49016 del 19 giugno-25 ottobre 2017

Nella recente pronuncia in esame, la Corte di Cassazione si occupa dell’utilizzabilità delle conversazioni a mezzo “WhatsApp” ai fini probatori, in particolare nel procedimento penale.

Con ricorso per Cassazione avverso la sentenza di condanna della Corte di Appello di Caltanissetta, il difensore dell’imputato per il delitto di atti persecutori (stalking), commesso in danno dell’ex fidanzata minorenne, articolava tre ragioni di censura.

Per quanto qui di interesse, con il primo motivo di impugnazione l’avvocato dell’imputato lamentava che il giudice di appello avesse “omesso di rispondere alle specifiche censure difensive che attingevano la scarsa credibilità della persona offesa, la quale era tutt’altro che vittima della persecuzione dell’imputato, posto che con questo aveva continuato ad intrattenere rapporti affettuosi anche dopo averlo denunciato, come dimostrato dalla trascrizione delle conversazioni svoltesi sul canale informatico denominato ‘WhatsApp’, erroneamente non acquisite agli atti del processo”.

Ad avviso della difesa, per vero, tale acquisizione avrebbe consentito alla Corte di Appello di riqualificare i fatti contestati all’imputato nei meno gravi delitti di ingiuria (reato peraltro depenalizzato) e di diffamazione.

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ritiene infondato il motivo di censura proposto con riferimento alla mancata acquisizione delle conversazioni “WhatsApp”, ribadendo che il controllo del giudice di legittimità sulla motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito è limitato ad «una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale “esistenza” della motivazione e sulla “resistenza” logica del ragionamento del giudice alle censure formulate contro di essi» ed evidenziando, invece, come nel caso di specie la doglianza proposta dal difensore mirasse a sollecitare una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione – operazione, questa, non solo in assoluto non consentita alla Corte di legittimità, ma, nel caso scrutinato, ritenuta del tutto fuor di luogo.

Tuttavia la Suprema Corte – pur rimarcando l’ineccepibilità della decisione della Corte di Appello di non acquisire la trascrizione delle conversazioni telefoniche intercorse tra l’imputato e la persona offesa – non manca di soffermarsi sull’utilizzabilità delle conversazioni “WhatsApp” ai fini probatori.

Osserva infatti la Corte di Cassazione che, «per quanto la registrazione di tali conversazioni, operata da uno degli interlocutori, costituisca una forma di memorizzazione di un fatto storico, della quale si può certamente disporre legittimamente ai fini probatori, trattandosi di una prova documentale, atteso che l’art. 234, comma 1, cod. proc. pen. prevede espressamente la possibilità di acquisire documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo, l’utilizzabilità della stessa è, tuttavia, condizionata dall’acquisizione del supporto – telematico o figurativo – contenente la menzionata registrazione, svolgendo la relativa trascrizione una funzione meramente riproduttiva del contenuto della principale prova documentale: tanto perché occorre controllare l’affidabilità della prova medesima mediante l’esame diretto del supporto onde verificare con certezza sia la paternità delle registrazioni sia l’attendibilità di quanto da esse documentato».

Avv. Simona Aduasio


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Avvocato penalista del Foro di Trani, Specializzata in Professioni Legali, Cultrice della materia in Diritto penale presso l'Università "Aldo Moro" di Bari, Docente di Legislazione dello spettacolo presso il Conservatorio di musica "Claudio Monteverdi" di Bolzano.

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