Coronavirus, la Fase 2 porta l’Italia al federalismo d’emergenza

Coronavirus, la Fase 2 porta l’Italia al federalismo d’emergenza

La nuova fase dell’emergenza legata alla pandemia da coronavirus in Italia è partita. Dopo cinquantaquattro giorni di restrizioni ferree, il Governo dà il via libera alle prime, consistenti, riaperture: si rimette in moto l’industria manifatturiera, il commercio all’ingrosso, fabbriche di nuovo aperte, ma con protocolli dettagliati per la prevenzione al contagio. Ma anche via libera ad un nuovo concetto di trasporto pubblico, di spazi verdi e di spostamenti personali.

Da alcuni giorni in molte Regioni sono riprese anche le attività di ristorazione, ma rigorosamente con consegna a domicilio, oppure con servizio da asporto. Vietato, infatti, consumare cibi e bevande all’interno dei locali o nelle loro vicinanze (solo a casa o in ufficio, per chi può). Ecco, già da giorni molte amministrazioni regionali hanno di fatto anticipato le misure che il Premier Giuseppe Conte ha previsto su tutto il territorio nazionale solo a partire dal fatidico 4 maggio. È il primo sintomo di come, d’ora in avanti, verrà gestita l’emergenza Covid-19 in tutta Italia.

Se nella prima metà di marzo il Presidente del Consiglio aveva parlato di “un’Italia unità, un’Italia intera zona protetta”, dopo circa due mesi il quadro sui rapporti istituzionali legato al coronavirus è destinato a mutare: l’iniziativa di molti governatori, da nord a sud, confortati dal dato sull’andamento del contagio in decrescita pressoché ovunque (salvo preoccupanti eccezioni specialmente nel nordovest del Paese) ha obbligato Palazzo Chigi a rivedere il suo progetto di gestione unitaria della crisi pandemica. La situazione in Piemonte, per esempio, non può assolutamente paragonarsi a quella pugliese, dove il numero dei contagi scende con una parallela diminuzione degli ospedalizzati ed incremento dei guariti. Tale contingenza ha portato molte Regioni a spingere sull’acceleratore (il tempo ci dirà se con lungimiranza o con pressapochismo).

Ciò è il frutto anche di una mancanza di coordinamento a livello centrale che – avvenuta in altri Stati – tra Governo ed enti regionali: un coordinamento auspicato anche dalla Presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia (con l’avallo del Capo dello Stato e delle autonomie locali), ma che però non è andato oltre a sporadici tavoli virtuali tra Presidente del Consiglio e rappresentati di Regioni e Comuni. Quel che è certo, però, è che la tendenza è ormai chiara: l’ultimo DPCM (quello del 26 aprile scorso) ha tracciato una linea netta sulla gestione dell’emergenza. Gli spostamenti personali – sebbene sempre accompagnati dalla famosa autocertificazione, ormai mero capriccio – si moltiplicano: non solo lavoro e spesa al supermercato, ma anche per ragioni di carattere medico (non più solo urgente) e visita ai “congiunti”.

Difficile prevedere come si svolgeranno ora i posti di blocco per le strade, ma quello che appare chiaro è che il Decreto sulla Fase 2 “responsabilizza” gli enti locali. Ne è prova, ad esempio, l’omessa indicazione specifica del divieto di spostarsi da un comune diverso a quello di residenza, anche per l’attività fisica (il luogo prescelto per correre ed allenarsi – si legge nelle FAQ – può essere raggiunto anche su mezzi di trasporto pubblici o privati, purché non si oltrepassi il confine regionale) e che dà il senso di come la nuova fase sia davvero diversa dalla prima.

Di fatto le strade torneranno a popolarsi e nelle prossime due settimane Regioni e Comuni saranno chiamati a vigilare quotidianamente su alcuni indici che dettano i tempi della crisi sanitaria (l’andamento del rapporto R0, su tutti): se confermati o in miglioramento, bene; altrimenti tutti dovranno fare un nuovo passo indietro. Ma non allo stesso ritmo. Il Governo, quindi, lascia ampi spazi di manovra che possono essere modificati (secondo il Ministro Boccia solo ristretti, ma la questione è aperta) dalle singole autonomie locali: una Regione, cioè, può imporre divieti più dettagliati che la legge statale non prevede (più).

Una sorta di responsabilizzazione, anche e soprattutto politica, in capo alle amministrazioni regionali, o, se vogliamo, un passo, inatteso senza dubbio, verso un federalismo dell’emergenza.

“Mascherina sì – mascherina no”, “turisti sì – turisti no”, “tamponi sì – test sierologici no”, “bar con tavolini all’aperto sì – consumazione sul loco no”. Tante dicotomie, almeno quante sono le Regioni. Dal 4 al 18 maggio tale situazione verrà monitorata, ma molti dicono che tra quindici giorni il “federalismo d’emergenza” sarà realtà consacrata. Molti altri, invece, scommettono sull’ennesimo braccio di ferro tra Governo e Regioni che porterà, nuovamente, a rimettere mano al Titolo V della Costituzione che conta ancora nodi non sciolti.

Quindi la domanda è: quante e quali Regioni seguiranno pedissequamente l’ultimo dettato governativo? Poche, molto poche. Il sistema previsto dal Consiglio dei Ministri è stato minato ancora prima del suo battesimo e la tendenza intrapresa è quella di accentuare tale schema.

La crisi, da oggi, verrà gestita in 21 modi differenti, uno per ogni Regione, secondo una logica che, inevitabilmente, sarà dettata dalla curva del contagio: più scende, più si apre. Il prezzo da pagare per Palazzo Chigi potrebbe essere caro sul piano della credibilità. D’altra parte per le Regioni, soprattutto per quelle del Mezzogiorno, sarà un banco di prova delicatissimo tra analisi dei contagiati, ordinanze con cadenza semigiornaliera e schizofrenie da parte dei sindaci.

La pandemia mondiale sta per diventare pandemia regionale e sarà il primo vero esperimento di federalismo in salsa italiana.


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Giulio Serafino

Avvocato e Giornalista pubblicista con laurea conseguita presso l'Università del Salento con tesi in Diritto Amministrativo dal titolo "Demanio marittimo e idrico e procedimenti concessori tra Diritto nazionale ed europeo". Collaboratore dello Studio Legale Associato "Pietro Quinto" di Lecce e consulente legale di Amministrazioni locali.

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