Datio in solutum. La garanzia di solvibilità del cedente nelle ipotesi di incontrovertibilità dell’assegno circolare per tardivo incasso

Datio in solutum. La garanzia di solvibilità del cedente nelle ipotesi di incontrovertibilità dell’assegno circolare per tardivo incasso

Sommario1. Introduzione – 2. Profili generali della “Datio in solutum” – 3. La cessione del credito in luogo dell’adempimento – 3.1 La regola di cui al co. 1 dell’art. 1198: automatica assunzione della garanzia di solvibilità del debitore ceduto e presunzione legale di estinzione dell’obbligazione originaria – 3.2 Il richiamo all’art. 1267, co. 2 cod. civ.. Fatto estintivo dell’obbligazione originaria o fatto estintivo della garanzia di solvibilità? – 4. La dazione dell’assegno circolare in luogo della prestazione pecuniaria – 5. Conclusioni. L’applicazione dell’art. 1267, co. 2 cod. civ. nelle ipotesi di incontrovertibilità del titolo.

1. Introduzione

In oggetto del presente contributo è l’istituto della datio in solutum, articolato, mutatis mutandis, nelle due fattispecie, contigue, della “prestazione in luogo dell’adempimento”, di cui all’art. 1197 cod. civ., e della “cessione del credito in luogo dell’adempimento”, si cui all’art. 1198 cod. civ..

Dopo una breve analisi della disciplina generale, saranno messe in risalto le peculiarità applicative della fattispecie di cui all’art. 1198 cod. civ., nell’ipotesi di dazione dell’assegno circolare in luogo della prestazione pecuniaria al fine di stabilire l’ambito di applicazione dell’art. 1267, co. 2 cod. civ. in ipotesi di incontrovertibilità del titolo per tardivo incasso.

2. Profili generali della “Datio in solutum

La tesi dottrinaria maggioritaria concepisce la datio in solutum quale contratto solutorio (MICCIO), o ad effetti liberatori (GRASSETTI), tramite cui due soggetti compongono gli interessi sostanti al loro rapporto obbligatorio, con l’evidente e precipua volontà di estinguerlo tramite un adempimento o un atto che sia agli effetti equiparato.

Sulla natura reale o obbligatoria del contratto della datio in solutum si riscontra il letteratura un fervido dibattito. La tesi più risalente, e probabilmente prevalente, ritiene che l’art. 1197 cod. civ. disciplini un contratto ad effetti reali che si conclude nel momento della dazione in luogo dell’adempimento della prestazione originaria.

A sostegno di tale tesi militano ragioni di ordine testuale e sistematico. Anzitutto viene posto in risalto il dettato codicistico, ed in particolare il co. 1 dell’art. 1197 cod. civ. ove espressamente è previsto che “l’obbligazione si estingue quando la diversa prestazione è eseguita”.

In secondo luogo, sul piano sistematico, la stessa collocazione topografica della norma nella parte del codice che disciplina l’adempimento (v. Libro IV, Capo II, Sez. I cod. civ.) renderebbe evidente la funzione solutoria, dovendosi, per ciò, allocare tale fattispecie negoziale nella nota, benché discussa, categoria dei negozi giuridici di attuazione.

A parere dello scrivente, come argomentato anche da notoria dottrina, l’argomento testuale non risulta convincente potendosi ben desumere dall’interpretazione del comma 1° dell’art. 1197 cod. civ. l’allocazione della traditio non già tra i requisiti di validità del negozio, ma sul piano degli effetti, nel senso di intendere l’adempimento dell’obbligazione in oggetto alla datio in solutum, tramite la consegna materiale della res, quale mero fatto estintivo dell’obbligazione originaria.

Il secondo argomento, di contro, appare più difficile da superare non potendosi negare l’allocazione della norma nella sezione dedicata all’adempimento delle obbligazioni.

In vero, a parere dello scrivente, a sostegno della tesi consensualistica, ed indipendentemente dall’individuazione di argomenti tesi a confutare l’argomento che fa leva sulla sistematica del codice, è possibile addurre alcuni argomenti decisivi.

Anzitutto va evidenziato che il principio generale in tema di conclusione dei contratti è quello consensualistico di cui all’art. 1376 cod. civ. in virtù del quale “la proprietà o il diritto si acquisiscono con il consenso delle parti legittimamente manifestato”, con la conseguenza che la categoria stessa dei contratti reali deve ritenersi eccezionale, essendo, pertanto, concepibile solo in presenza di una precisa ed univoca disposizione di legge.

In vero la questione appare mal posta, atteso che, come correttamente osservato in dottrina (BARBA), per stabilire se se la datio in solutum è un contratto reale oppure consensuale non occorre desumerlo dalla complessiva disciplina, occorrendo, per converso, stabilire se dalla norma in esame possa desumersi univocamente l’allocazione della traditio tra i requisiti di validità del negozio.

A parere dello scrivente, non solo la legge non prevedere testualmente la traditio tra gli essentialia negoti del contratto di datio in solutum, ma, in più, tale allocazione viene effettuata sulla base di un argomento sistematico del codice e corroborato dal richiamo ad una controversa categoria generale del diritto contrattuale – quella dei cd. negozi di attuazione; trattasi, cioè, di un percorso argomentativo connotato da un’interpretazione estensiva inconciliabile con le regole di stretta interpretazione che le norme eccezionali esigono (art. 14 disp. sulla legge in generale).

Per altro, qualificare il contratto di datio in solutum quale negozio consensuale ha il pregio di rendere giustificabile quello che, altrimenti, sarebbe un inspiegabile revirement della prestazione originaria che il creditore ha diritto di pretendere, alternativamente, in presenza di vizi della res tradita o qualora questa sia soggetta ad evizione.

E’ evidente che la tesi che identifica il contratto di datio in solutum quale contratto solutorio e reale che si perfezione nel momento della consegna della res tradita con automatica estinzione dell’obbligazione originaria difficilmente, in presenza di vizi della res tradita, potrà giustificare l’esigibilità della prestazione originaria, prevista all’art. 1197, co. 2 cod. civ., che verrebbe a costituire un miracoloso revirement dell’obbligazione originaria.

Di contro, concepire la datio in solutum quale negozio consensuale ad effetti obbligatori (ZACCARIA), fonte di un nuovo rapporto giuridico caratterizzato per l’identità sotto il profilo soggettivo e la parziale modifica, sul versante oggettivo, tramite la sostituzione della prestazione originariamente dovuta dal debitore, ha il pregio di rendere sostenibile, per tramite della spiegazione degli effetti del contratto, la facoltà per il creditore di chiedere, in luogo della garanzia per evizione o per vizi della cosa venduta, l’adempimento della prestazione originaria.

Del resto è in ciò che la datio in solutum va distinta dalla novazione oggettiva: il rapporto obbligatorio originario rimane quiescente e la prestazione inesigibile sicché non sia eseguita correttamente la nuova prestazione.

Orbene l’effettiva consegna della res in oggetto alla datio in solutum integra gli estremi dell’adempimento, e cioè di un atto giuridico in senso stretto, all’interno del rapporto obbligatorio in cui matura, a cui la legge attribuisce la qualifica di fatto estintivo dell’obbligazione originaria.

Ne segue che l’effetto liberatorio del debitore, anche dalla prestazione originaria, non segue tanto alla traditio, come ritengono i fautori della tesi del negozio reale, bensì all’esatto adempimento della prestazione dedotta in oggetto al contratto di datio in solutum – esattezza, evidentemente, non rinvenibile laddove il creditore subisca l’evizione da parte di terzi, ovvero la res tradita sia affetta da vizi che ne alterano la funzionalità all’uso destinato.

Conseguentemente il debitore che ha eseguito una prestazione non conforme a quella convenuta in luogo dell’adempimento originario, non può dirsi liberato né dall’obbligazione assunta con il contratto di datio in solutum, né dall’obbligazione originaria – la quale diviene esigibile nel momento patologico dell’inesatto adempimento (o dell’inadempimento, in presenza di mancata consegna della res) – rimettendosi al creditore la scelta di azionare la garanzia “per evizione o per vizi della cosa secondo le norme della vendita” ovvero, alternativamente, “esigere la prestazione originaria ed il risarcimento del danno”.

3. La cessione del credito in luogo dell’adempimento

L’art. 1198 cod. civ. disciplina la fattispecie della cessione di credito in luogo dell’adempimento. Trattasi, seconda la più condivisibile impostazione dottrinaria, di una speciale tipologia di datio in solutum, sussistente, in rapporto di specialità rispetto alla fattispecie di cui al precedente art. 1197 cod. civ..

Quanto alla natura giuridica, rinviando al par. precedente, vale la pena ribadire che il prevalente orientamento dottrinario concepisce la struttura dell’istituto della cessione del credito in luogo dell’adempimento quale un contratto consensuale avente in oggetto la sostituzione della prestazione originaria, in genere un obbligazione pecuniaria, con la dazione del titolo di credito.

Gli effetti della conclusione del predetto accordo si riverberano sul versante oggettivo del rapporto originario producendo la modifica della prestazione in oggetto al contratto e, dall’altro, sul versante soggettivo del rapporto creditizio, determinando la sostituzione del creditore originario con il cessionario.

Dato il tenore testuale dell’art. 1198, co. 1 cod. civ., e coerentemente con quanto precedentemente detto, la prevalente impostazione dottrinaria[1] ritiene che la cessione del credito in luogo dell’adempimento non determina l’automatica liberazione del cedente dalla prestazione originaria salvo che tale effetto non costituisca parimenti oggetto del contratto stipulato.

Ne segue che, come ribadito con orientamento granitico dalla giurisprudenza della Suprema Corte, la dazione di titolo di credito in luogo dell’adempimento è effettuata sempre pro solvendo salvo non sia convenuto diversamente all’atto di cessione del titolo.[2]

Se ne deduce che il debitore non è liberato automaticamente dalla prestazione originaria sicché il creditore non abbia provveduto ad escutere positivamente il debitore ceduto, ricadendo ope legis, e salvo accordo contrario, sul cedente la garanzia di solvibilità del ceduto.

Tale impostazione che, come vedremo più avanti, appare pacificamente radicata nel diritto vivente, pone il precipuo problema di coordinare la disciplina della cessione del credito in luogo dell’adempimento con la generale disciplina della cessione del credito – atteso il richiamo che l’art. 1198, co. 2 cod. civ. fa al co. 2 dell’art. 1267 cod. civ. – ove, come si ricorderà, vige il principio opposto secondo cui la cessione del credito si considera sempre pro soluto “salvo che [il cedente] ne abbia assunto la garanzia [di solvibilità del ceduto]”.

3.1 La regola di cui al co. 1 dell’art. 1198: automatica assunzione della garanzia di solvibilità del debitore ceduto e presunzione legale di estinzione dell’obbligazione originaria.

L’art. 1198 co. 1 cod. civ. dispone testualmente che, in presenza di una cessione di credito in luogo dell’adempimento di una diversa prestazione, la liberazione del debitore-cedente avviene solo in seguito alla fruttuosa escussione del debitore-ceduto da parte del creditore-cessionario.

La tesi interpretativa prevalente in dottrina ritiene logico corollario della predetta disposizione la regola dell’automatica assunzione della garanzia di solvibilità del debitore ceduto da parte del cessionario, in deroga alla disciplina generale della cessione del credito a titolo oneroso la quale prevede che il cedente sia tenuto sempre a garantire l’esistenza del credito al momento della cessione (art. 1266, co. 1 cod. civ.) ed eventualmente la solvibilità del debitore ceduto qualora “ne abbia assunto la garanzia” (art. 1267, co. 1 cod. civ.).

Secondo un’impostazione minoritaria, tuttavia, l’automatica assunzione della garanzia di solvibilità da parte del cessionario non avrebbe ragion d’essere nell’attuale panorama normativo ove la regola di cui all’art. 1198 co. 1 cod. civ. servirebbe ad individuare il fatto estintivo dell’obbligazione originaria non già nella dazione del titolo, ma nella positiva escussione del debitore ceduto.

In tale impostazione determinante è l’interpretazione della regola contenuta all’art. 1198, co. 1 cod. civ. quale presunzione legale assoluta la cui operatività sarebbe limitata dalla circostanza che l’individuazione del fatto estintivo dell’obbligazione “risulti” dal complessivo tenore della volontà delle parti.

Ne discende che, salvo non risulti dal titolo o non sia diversamente desumibile dal complessivo tenore degli atti che compongono la manifestazione della volontà delle parti, l’estinzione dell’obbligazione originaria segue ipso iure la fruttifera riscossione del credito da parte del cessionario.

Conseguentemente la possibilità che il cessionario si rivalga nei confronti del cedente in caso di insolvibilità del ceduto non deriverebbe dall’operatività automatica della garanzia di solvibilità ex art. 1267, co. 1 cod. civ. bensì dalla circostanza che la legge individua quale fatto estintivo dell’obbligazione originaria la riscossione del credito.

Ne seguirebbe, di tal guisa, che tale effetto non deriva dall’operatività di una generica garanzia di solvibilità a carico del cedente “bensì dalla mancata realizzazione della causa solvendi cui la cessione è preordinata[3]

Tale impostazione sarebbe, per altro, maggiormente conforme nell’ottica del favor creditoris costituente ratio dell’istituto atteso che ciò consentirebbe, in linea con la teorica che vede nell’istituto una sub species di datio in solutum, l’applicazione analogica dell’art. 1197, co. 2 cod. civ. il quale assoggetta l’operatività della garanzia per l’evizione e per i vizi della cosa alla volontà del creditore, ben potendo questi “esigere la prestazione originaria ed i risarcimento danni”.

A parere dello scrivente è condivisibile l’assunto secondo cui l’art. 1198 co. 1 cod. civ. individui uno speciale fatto estintivo dell’obbligazione originaria.

Viceversa non pare condivisibile dubitare dell’operatività automatica della garanzia di solvibilità del creditore in ragione della paventata applicazione dell’art. 1197, co. 2 cod. civ. atteso che le due norme sussistono in rapporto di specialità.

In tal senso alla cessione del credito in luogo dell’adempimento non può certamente applicarsi la parte della disposizione che richiama la garanzia per evizione e per vizi della cosa.

Ne vale focalizzare l’attenzione sul dato testuale della norma invocata al fine di ritenere che nella locuzione “altro diritto” siano riconducibili anche i diritti di credito, in quanto la norma richiama esplicitamente la garanzia per evizione la quale è dovuta nei casi in cui un terzo faccia valere i propri diritti sull’oggetto (proprietà o altro diritto reale) del contratto; garanzia, questa, che non pare condividere alcun profilo di similarità con le ragioni sottese alla garanzia di solvibilità del ceduto, operante in ragione dell’inadempimento dello stesso.

Ciò pertanto l’art. 1197, co. 2 cod. civ. non risulta applicabile alla fattispecie in esame laddove richiama la garanzia per evizione o per vizi della cosa, in quanto derogata dall’applicazione automatica della garanzia di solvibilità; di contro certamente è applicabile la seconda parte dell’art. 1197, co. 2 cod. civ. laddove prevede che il creditore può optare, in luogo della garanzia, per l’adempimento della prestazione originaria, atteso che ciò non è diversamente previsto, in via di specialità, delle norme che disciplinano la cessione del credito in luogo dell’adempimento.

Tale tesi appare aderente all’impostazione che la giurisprudenza ha assunto in tema di efficacia della cessione del credito in luogo dell’adempimento, nella misura in cui ritiene sussistente una presunzione legale assoluta di individuazione del fatto estintivo dell’obbligazione nella riscossione del credito ceduto.

Per altro, a sostegno dell’automatica operatività della garanzia di solvibilità, depone anche il dato testuale del codice ove ricavare dalla clausola di riserva di cui al co. 2 dell’articolo in analisi, che la regola contenuta al co. 1 costituisce deroga alla disciplina generale di cui all’art. 1267, co. 1 cod. civ.. La norma, infatti, nel prevedere testualmente che “E’ fatto salvo quanto disposto al secondo comma dell’art. 1267”, lascia intendere che tale disposizione si applica nonostante non trovi applicazione il comma precedente secondo cui “il cedente non risponde della solvenza del debitore salvo che ne abbia assunto la garanzia

La cessione del credito in luogo dell’adempimento, infatti, comporta “l’affiancamento del credito originario di quello ceduto, con la funzione di consentire al creditore di soddisfarsi mediante la realizzazione di quest’ultimo credito; all’interno di questa situazione di compresenza, il credito originario entra in fase di quiescenza, e rimane inesigibile per tutto il tempo in cui rimane la possibilità della fruttuosa escussione del debitore ceduto, in quanto solo quando il medesimo risulta insolvente il creditore può rivolgersi al debitore originario. Ne consegue che finché non è esigibile il credito ceduto pro solvendo, tale non è nemmeno il credito originario; mentre quando quest’ultimo diviene esigibile non per ciò stesso lo diviene anche il credito originario, atteso l’onere della preventiva escussione del debitore ceduto” (così Cass. Civ., sent. 15 febbraio 2007, n. 3469).

Conseguentemente, senza pretendere l’applicazione, ultra-estensiva, dell’art. 1197, co. 2 cod. civ. alle ipotesi di insolvenza del debitore ceduto ex art. 1198 cod. civ., è possibile affermare che poiché la cessione del credito in luogo dell’adempimento non comportando una novazione oggettiva del rapporto obbligatorio, non estingue l’obbligazione originaria che, per ciò, rimane quiescente sicché non sia intervenuta l’escussione del debitore ceduto – e cioè sicché non si sia realizzato il fatto estintivo previsto dalla norma.

L’escussione del debitore ceduto può realizzare, quindi, tanto l’estinzione dell’obbligazione originaria qualora sia fruttifera, quanto, per converso, l’intervenuta esigibilità in ragione dell’infruttifera escussione del debitore ceduto.

Solo la riscossione del credito dato in luogo della prestazione costituisce, ipso iure, e salvo contrario accordo, fatto estintivo dell’obbligazione originaria, con la conseguenza che il creditore potrà rivalersi verso il debitore originario in ragione dell’automatica operatività garanzia di solvibilità di cui all’art. 2967, co. 1 cod. civ., chiedendo di adempiere in luogo del ceduto “nei limiti di quanto ricevuto”, unitamente agli interessi, alle spese per la cessione ed al risarcimento del danno, ovvero, alternativamente, pretendere l’adempimento della prestazione originaria (qualora non trattasi di obbligazione pecuniaria), in applicazione dalla co. 2 dell’art. 1197 cod. civ..

3.2 Il richiamo all’art. 1267, co. 2 cod. civ.. Fatto estintivo dell’obbligazione originaria o fatto estintivo della garanzia di solvibilità?

Come anticipato nel par. precedente, il comma 2 dell’art. 1198 cod. civ. prevede testualmente l’applicazione dell’art. 1267, co. 2 cod. civ. all’istituto della cessione del credito in luogo dell’adempimento.

Secondo i sostenitori della tesi minoritaria suesposta, la disposizione in analisi introdurrebbe una deroga alla presunzione legale sancita al comma precedente, individuando nell’insolvibilità del debitore-ceduto determinata da negligenza del cessionario nell’intrapresa o proseguimento delle istanze avverso lo stesso un ulteriore fatto estintivo dell’obbligazione originaria.

Tale assunto non è condivisibile per le ragioni ampiamente spiegate nel paragrafo che precede. A parere dello scrivente la presunzione legale di cui al co. 1 dell’art. 1198 cod. civ. determina l’inversione strutturale del meccanismo di assunzione della garanzia di solvibilità del cedente ex art. 1267 co. 1 cod. civ., nel senso di ritenere, in via presuntiva, “pro solvendo” la dazione del titolo di credito in luogo della prestazione originaria.

Trattasi di una presunzione legale assoluta la cui operatività può essere impedita esclusivamente dalla prova dell’intervenuto accordo in senso contrario, ricadendo ex adverso sul cessionario il rischio dell’insolvibilità del debitore ceduto.

Tuttavia la garanzia di solvibilità, come da generale disciplina, cessa qualora l’insolvenza del debitore originario sia dovuta, in senso causalistico, alla negligente condotta del cessionario nell’esperimento delle azioni finalizzate alla riscossione del credito.

A parere dello scrivente, vista la casistica giurisprudenziale, il creditore-cessionario che richiede l’operatività della garanzia deve provare di aver tentato, infruttuosamente, la riscossione del credito (in tal senso v. Cass. Civ., sent. 23/6/2010, n. 15223), dando così piena operatività alla presunzione di esigibilità della prestazione originaria, temporaneamente quiescente, e rimettendo, al debitore ceduto, la prova dell’esistenza di una causa di cessazione della garanzia o di un fatto estintivo della prestazione originaria.

Visto il tenore letterale dell’art. 1267, co. 2 cod. civ., lo scrivente ritiene che eccepita la cessazione della garanzia di solvibilità, il debitore-cedente dovrà allegare e provare la negligenza del cessionario, individuando le azioni che lo stesso avrebbe potuto compiere per riscuotere fruttuosamente il credito e dimostrare che l’insolvenza del debitore-ceduto, con danno del debitore-cedente, sia da ricondurre, in senso causalistico, alla condotta del cessionario.

Di contro, al creditore-cessionario sarà concessa la prova che anche il compimento delle attività potenzialmente in grado di determinare la riscossione del credito, nel caso sub iudice, non avrebbero comunque condotto a positivi riscontri.

Per la frequente casistica e la peculiarità della disciplina appare doveroso soffermarsi sulla peculiare datio in solutum avente in oggetto la dazione dell’assegno circolare in luogo della prestazione pecuniaria originaria.

4. La dazione dell’assegno circolare in luogo della prestazione pecuniaria

In via preliminare appare doveroso ripercorrere, brevemente, la disciplina dell’assegno circolare, onde individuare quegli elementi che connotano le peculiarità applicative della fattispecie.

L’assegno circolare è il titolo di credito ritenuto maggiormente affidabile e fortemente in uso nelle consuetudini commerciali. Si tratta, in buona sostanza, dell’ordine effettuato da un soggetto privato ad un istituto bancario, di pagare a vista, al possessore che lo porti ad incasso, le somme in oggetto a tale titolo.

La maggiore affidabilità dell’assegno circolare rispetto a quello bancario deriva dal fatto che, mentre quest’ultimo attinge alle provviste di un conto corrente, della cui esistenza non v’è certezza all’atto di ricevimento del titolo, l’emissione di un assegno circolare avviene solo tramite la consegna materiale, all’istituto emittente, di somme equivalenti a quelle in oggetto al titolo ordinato (art. 82, co. 1 R.D. n. 1736/1933).

Il Regio Decreto n. 1736/1933, cd. Legge sull’assegno bancario, individua termini perentori per l’incasso del titolo da parte del possessore, e segnatamente giorni otto, qualora il titolo venga portato ad incasso nell’ambito del medesimo Comune, ovvero entro giorni quindici, se portato ad incasso in Comune differente da quello ove il titolo è stato emesso, a decorrere dalla data di emissione o dalla data della girata.

Spirati tali termini per il tempestivo incasso si verifica una sovra-esposizione al rischio di incontrovertibilità del titolo atteso che l’istituto bancario potrebbe revocare l’ordine di pagamento.

In caso di revoca dell’ordine del pagamento il possessore può, comunque, esperire l’azione di regresso per recuperare le somme in oggetto al titolo revocato, nel rispetto del termine decadenziale di giorni trenta (art. 84, co. 1 R.D. cit.), fermo restando che l’azione diretta verso l’istituto bancario si prescrive nel termine di tre anni.

Ai sensi dell’art. 1, comma 345-ter della L. 23 dicembre 2005, entro il 31 maggio dell’anno successivo al decorso del suindicato termine di decadenza, l’intermediario bancario ha l’obbligo di effettuare la comunicazione al Ministero dell’Economia e delle Finanze, e di versare le somme portate dai titoli non incassati presso fondo costituito ai sensi dell’art. 1, comma 343 della L. 23 dicembre 2005, destinato ad indennizzare i consumatori vittime di frodi finanziari.

Le somme trasmesse presso tale fondo, tuttavia, possono essere recuperate con istanza del soggetto ordinante l’emissione del titolo di credito entro lo spirare del termine di prescrizione decennale del titolo di credito stesso.

L’affidabilità dell’assegno circolare quale strumento di pagamento, unitamente alla legiferazione in tema di controllo e divieto di pagamenti tramite contante, ha contribuito al consolidamento, in seno alla giurisprudenza di legittimità, della regola, corollario del principio della buona fede oggettiva, della non rifiutabilità della dazione dell’assegno circolare in funzione di pagamento[4], a cui corrisponde, nel senso opposto, il principio secondo cui la dazione dell’assegno circolare avviene sempre pro solvendo, ricadendo sul debitore il rischio di incontrovertibilità del titolo.[5]

In tal senso è possibile affermare che il debitore può scegliere unilateralmente di adempiere alla prestazione pecuniaria – il cui importo sia inferiore a 12.500 euro o per le quali non sia imposta per legge una diversa modalità di pagamento – corrispondendo al creditore l’esatta quantità di moneta avente corso legale nello Stato ovvero consegnando di assegno circolare, con la conseguenza che l’estinzione dell’obbligazione con l’effetto liberatorio del debitore si verificherà nel primo caso con la consegna della moneta, in ragione dell’esatto adempimento e, nel secondo, quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di denaro, ai sensi dell’art. 1198, co. 1 cod. civ.[6]

5. Conclusioni. L’applicazione dell’art. 1267, co. 2 cod. civ. nelle ipotesi di incontrovertibilità del titolo.

Alla luce dei predetti argomenti occorre di stabilire quale sia l’ambito applicativo del co. 2 dell’art. 1198 cod. civ., ed in particolare se la decadenza del portatore dall’esercizio dell’azione di regresso integri gli estremi della negligenza idonea a determinare la cessazione della garanzia di solvibilità ai sensi dell’art. 1267, co. 2 cod. civ.

A parere dello scrivente a tale quesito deve rispondersi negativamente in quanto la decadenza dall’azione di regresso ex art. 84 cit. non implica l’insolvenza del debitore ceduto ma la decadenza del possessore dalla possibilità di escutere fruttuosamente il ceduto.

Di contro il soggetto che ha ordinato, costituendone provvista, il titolo, potrà esercitare il regresso verso l’istituto di credito nel termine di tre anni dall’emissione dell’assegno; mentre, in caso della maturazione della prescrizione ex art. 84 R.D. cit., l’ordinante potrà esperire l’azione di rimborso presso il fondo di cui all’art. 1, comma 343 della L. 23 dicembre 2005.

A parere dello scrivente, quindi, in tema di dazione dell’assegno circolare in luogo della prestazione pecuniaria, la cessazione della garanzia di solvibilità, ai sensi del comb. disp di cui agli artt. 1298, co. 2 e 1267, co. 2 cod. civ., interviene solo nei casi in cui, decaduto ai sensi dell’art. 84 cit., il possessore-giratario (creditore-cessionario secondo lo schema ex art. 1198 cod. civ.) trattenga presso se il titolo impedendo all’ordinante la fruttifera escussione del ceduto tramite l’esercizio dell’azione di regresso, ove il titolo sia portato ad incasso entro i tre anni dall’emissione, ovvero presso la Consap s.p.a., ove è istituito il fondo vittime delle frodi del consumo, nei casi in venga portato ad incasso dopo tre anni dalla sua emissione.[7]

In tutti gli altri casi ove l’attivazione della garanzia sia avvenuta entro il termine di prescrizione decennale del titolo, fermo restando l’obbligo del prenditore di restituire l’assegno, il debitore sarà tenuto ad effettuare la prestazione originaria ovvero a garantire la solvibilità del debitore-ceduto.

Profili di responsabilità dell’ordinante, a parere di chi scrive, sono rinvenibili in tutti quei casi in cui, benché prescritto anche il titolo di credito, venga dimostrato, ad onere del creditore, che l’ordinante era a conoscenza della dormienza delle somme.

Ciò è tecnicamente possibile ove si consideri che l’art. 3 del D.P.R. 116/2007 ha stabilito l’obbligo dell’intermediario di inviare al titolare del rapporto, e cioè all’ordinante, mediante lettera raccomanda con avviso di ricevimento indirizzata all’ultimo indirizzo comunicato o comunque conosciuto, l’invito ad impartire disposizioni entro il termine di 180 giorni dalla data di ricezione, con espresso avviso che, decorso tale termine, il rapporto verrà estinto e le somme ed i valori relativi a ciascun rapporto devoluti al fondo secondo le modalità indicate dalla legge.

Non v’è dubbio alcuno, infatti, che il debitore-cedente non è liberato dall’obbligazione originaria sicché il creditore non abbia riscosso le somme, con la conseguenza che, informato della dormienza dell’assegno circolare, questi ha l’obbligo di attivarsi per garantire le ragioni della controparte.

Indubbiamente il debitore che riceve la comunicazione di cui all’art. 3 cit. ha l’onere nel rispetto del principio di cui all’art. 1375 cod. civ., anche ai fini di cui all’art. 1267, co. 1 cod. civ., di costituire in mora il creditore invitandolo a restituire il titolo.

In tali circostanze, a parere dello scrivente, la condotta omissiva dell’ordinante integra una violazione della buona fede in senso oggettivo la cui efficacia causale rispetto all’intervenuta prescrizione dello stesso impedirebbe ipso facto la cessazione della garanzia di solvibilità.

Quanto agli oneri probatori, l’attivazione della garanzia presuppone che il creditore dia prova di aver ricevuto il titolo e di non averlo incassato; come affermato dalla giurisprudenza tale onere non si risolve nella probatio diabolica in quanto al creditore sarà sufficiente allegare agli atti il titolo non riscosso.[8]

Al debitore, di contro, l’onere di eccepire la cessazione della garanzia, allegando e provando la negligenza (e cioè indicando quali azioni il creditore avrebbe dovuto compiere per escutere fruttuosamente il debitore ed il nesso di causalità con l’intervenuta insolvenza. Al creditore è concessa la prova contraria che l’eventuale compimento delle azioni indicate dal debitore non avrebbero comunque realizzato la fruttifera escussione del ceduto, ovvero della presenza di fattori causali dotati di efficacia esclusiva ed imputabile alla sfera soggettiva del debitore.


[1] Cfr. Commentario del codice civile, diretto da Enrico Gabrieli, a cura di Vincenzo Cuffaro, “Delle obbligazioni”, pp. 600 ss.
[2] C fr. Cass. Civ. sez. Un., sent. 15 febbraio 2007, n. 3469.
[3] Cfr. Commentario del codice civile, diretto da Enrico Gabrieli, a cura di Vincenzo Cuffaro, “Delle obbligazioni”, p. 610.
[4] Così in un obiter dictum Cass. Civ., sez. Un., sent. 18 dicembre 2007, n. 26617.
[5] In tal senso v. Cass. Civ., Sez. Un., sent. 18 dicembre 2007, n. 26617.
[6] Cfr. Cass. Civ., sez. Un., sent. 18 dicembre 2007, n. 26617 secondo cui “nelle obbligazioni pecuniarie, il cui importo sia inferiore a 12.500 euro o per le quali non sia imposta per legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare; nel primo caso il creditore non può rifiutare il pagamento, come, invece, può nel secondo solo per giustificato motivo da valutare secondo la regola della correttezza e della buona fede oggettiva; l’estinzione dell’obbligazione con l’effetto liberatorio del debitore si verifica nel primo caso con la consegna della moneta e nel secondo quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell’inconvertibilità dell’assegno”
[7] In questo senso la Suprema Corte ha affermato che“allorquando la caparra venga costituita mediante consegna di un assegno bancario, il comportamento del prenditore del titolo che, dopo averne accettato la consegna, ometta poi di porlo all’incasso, trattenendo comunque l’assegno e non restituendolo all’acquirente, e’ contrario a correttezza e buona fede e comporta a carico del prenditore l’insorgenza degli obblighi propri della caparra, nel senso che ove risulti inadempiente all’obbligazione cui si riferisce la caparra, egli sarà  tenuto al pagamento di una somma pari al doppio di quella indicata nell’assegno” Cass. Civ., sent. 9 agosto 2011, n. 17127.
[8] “in caso di pagamento effettuato mediante assegni di conto corrente, l’effetto liberatorio si verifica con la riscossione della somma portata dal titolo, in quanto la consegna del titolo deve considerarsi effettuata, salva diversa volontà delle parti, pro’ solvendo; tuttavia, poiche’ l’assegno, in quanto titolo pagabile a vista, si perfeziona, quale mezzo di pagamento, quando passa dalla disponibilita’ del traente a quella del prenditore, ai fini della prova del pagamento, quale fatto estintivo dell’obbligazione, è sufficiente che il debitore dimostri l’avvenuta emissione e la consegna del titolo, incombendo invece al creditore la prova del mancato incasso, la quale, pur costituendo una prova negativa, non si risolve in una probatio diabolica, in quanto, avuto riguardo alla legge di circolazione del titolo, il possesso dello stesso da parte del creditore che lo ha ricevuto implica il mancato pagamento” Cass. Civ., sent. n. 17749 del 2009.

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Salvatore Tartaro

Salvatore Tartaro, dott. Mag. in Giurisprudenza, abilitato all'esercizio della professione forense ex art. 41, co. 11 l. 247/2012. Laureato con 105/110 con una Tesi multidisciplinare in tema di Danno da Radiazioni Ionizzanti. Collabora con Studio Legale Di Giorgi.

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