Delitto tentato: presupposti di cui all’art. 56 c.p.

Delitto tentato: presupposti di cui all’art. 56 c.p.

Sommario: 1. Introduzione – 2. Tentativo: l’azione non si compie/l’evento non si realizza – 3. Atti idonei a commettere il delitto – 4. Atti diretti in modo non equivoco alla commissione del reato – 5. Desistenza volontaria: l’azione non è compiuta per volontà del soggetto agente – 6. Recesso attivo (pentimento operoso): l’evento volontariamente impedito

 

1. Introduzione

Per comprendere appieno il modo in cui si atteggia il tentativo di reato nel nostro ordinamento, occorre muovere da alcune premesse. La prima è certamente quella per cui, in ossequio al principio di legalità, lo Stato non può condannare taluno ad una pena ove quello non abbia commesso un fatto già previsto dalla legge come reato (art. 1 c.p.). Ed è per questo motivo che il legislatore, per mezzo delle cd norme incriminatrici, incrimina dei fatti, nel senso che stabilisce che al verificarsi degli stessi debba esser corrisposta l’applicazione di una sanzione afflittiva, quale la pena. È chiaro che, nello stabilire quali siano quei fatti che, dunque, abbisognino di una risposta punitiva da parte dello Stato, occorre che il legislatore si attenga a dei principi e, in particolare, al principio di offensività: la norma incriminatrice dovrà prendere in considerazione dei fatti che siano effettivamente offensivi di beni giuridici che l’ordinamento riconosce come tali. In questo senso, possono costituire reato solo fatti che, cioè, ledono od espongono a pericolo quei beni giuridici (l’omicidio offende la vita, il furto offende il patrimonio ecc.) così come indicato dall’art. 40 c.p. per cui “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione“.

Occorre prestare attenzione, dunque, al concetto di offensività, nella sua duplice accezione di lesività e di messa in pericolo. Se il concetto di lesione è facilmente intuibile (Tizio colpisce Caio, ledendo il bene dell’integrità fisica) alcune osservazioni vanno compiute con riferimento a quello di esposizione al pericolo. E, quindi, in che senso un bene giuridico viene esposto a pericolo? Nel senso che l’azione non danneggia quel bene ma crea le condizioni perché ciò possa avvenire. Crea una condizione di pericolo. E questo pericolo può costituire tanto il risultato di una certa azione, già prevista dalla legge come reato (come nel caso dei reati di pericolo concreto. Si pensi al delitto di incendio di cosa propria ex art. 423, comma 2 c.p., che punisce quanti mettono fuoco a cose proprie solo ove da dette azioni derivi un pericolo per la pubblica incolumità), quanto il risultato di un’azione che taluno abbia posto in essere al fine di realizzare un fatto che la legge prevede come reato, senza che il reato si sia potuto perfezionare.

Ed ecco che, mentre nel primo caso, si diceva, si avranno reati di pericolo in concreto, nel secondo verrà in rilievo, al ricorrere di determinati presupposti (di cui si dirà), il cd tentativo di reato. Si pensi a colui che intende cagionare la morte di un uomo e che quindi, al fine di attendere al proprio obiettivo, decida di aggredire fisicamente la vittima. È chiaro che, ove per le più svariate cause (si pensi all’ipotesi in cui la vittima viene salvata, nonostante le gravi lesioni riportate) l’evento voluto dal soggetto agente non si sia potuto realizzare, avremo comunque un bene giuridico (la vita) esposto a pericolo. Sotto il profilo giuridico si tratta di stabilire, dunque, quali sono le coordinate in presenza delle quali può essere affermata la configurazione del tentativo di reato. La risposta è fornita dall’art. 56 c.p., in forza del quale “chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”. Sono due le condizioni fissate dalla norma: che sia accertato che sono stati posti in essere atti idonei a commettere il delitto, nonché la direzione (univoca) degli stessi a quel fine .

2. Tentativo: l’azione non si compie/l’evento non si realizza

Ma prima ancora di analizzare detti elementi, preme tener conto della parte dell’art. 56 c.p. in cui si dice che il tentativo viene in rilievo allorquando “l’azione non si compie o l’evento non si verifica”. Ed è chiaro che il riferimento è alla distinzione tra reati di mera condotta e reati di evento. Quando si suole parlare di reati di condotta ci si riferisce a tutte quelle fattispecie penali che puniscono condotte che, di per sé, non determinano la produzione di un evento. Nel caso dei reati di evento, invece, viene punita la condotta che determina il prodursi di un ulteriore fatto (l’evento, appunto). Ma la distinzione non è ancora chiara. Infatti ogni condotta determina, per vero, il verificarsi di un qualche evento. Così, anche il furto, che è considerato reato di condotta, determina un mutamento dello stato delle cose e, quindi, la sottrazione della res dalla sfera di dominio del proprietario. Si potrebbe sostenere, dunque, che la distinzione tra le due categorie di reati attiene al grado di autonomia che l’evento presenta rispetto alla condotta: quando la modificazione della situazione di fatto determinata dalla condotta è percepibile nella sua unicità, è certamente un reato di evento, mentre ove detta modificazione sia così intimamente legata alla condotta, di modo che non appaia ictu oculi come conseguenza della stessa, è un reato di condotta. Ed ecco che, ove taluno intenda realizzare un reato di condotta, senza che i suoi atti possano integrare quella condotta (come nel furto, nel caso in cui il ladro non riesce a portare via la refurtiva) e, dunque, senza che l’azione si compia, potremo avere tentativo (sempre che ricorrano gli altri elementi di cui all’art. 56 c.p.). Diversamente, nel caso di reato di evento, potremo avere tentativo tanto nel caso in cui risultino compiuti atti tali da non integrare la condotta presa in considerazione dalla norma incriminatrice, quanto nel caso in cui la condotta sia integrata ma alla stessa non segua l’evento preso in considerazione dalla fattispecie penale astratta (infatti, l’art. 56 c.p. stabilisce che si ha tentativo ove “l’evento non si verifica”).

3. Atti idonei a commettere il delitto

È poi necessario, perché si abbia tentativo, che siano posti in essere degli “atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto”.  Ma come si fa a stabilire se gli atti posti in essere sono “idonei” a commettere un delitto? Per operare una simile valutazione occorre, inevitabilmente, analizzare il fattore che ha impedito la realizzazione del fatto che il soggetto agente intendeva realizzare con la propria condotta criminosa e stabilire se, in assenza di quel fattore, l’evento si sarebbe verificato ugualmente oppure no. Pertanto è chiaro che, ove fosse possibile ritenere che, in assenza di quel fatto che in concreto si è verificato, l’evento si sarebbe prodotto, si potrà pervenire al giudizio secondo cui gli atti compiuti siano idonei a commettere il reato. Un esempio potrà chiarire la questione. Tizio intende uccidere Caio e, a tal fine, gli esplode contro un colpo di pistola. Tizio non riesce a colpire Caio per via del movimento repentino di quello. Siamo in presenza di un atto idoneo a commettere il delitto? Eliminiamo mentalmente il fattore che ha impedito l’uccisione di Caio e, cioè, il movimento repentino dello stesso. Se non si fosse mosso, Tizio lo avrebbe colpito in un punto vitale, causando la sua morte? Se la risposta è che, probabilmente, ciò sarebbe accaduto, avremo un atto idoneo e, quindi, un presupposto del tentativo.

4. Atti diretti in modo non equivoco alla commissione del reato

Ai fini dell’integrazione del tentativo occorrerà accertare che quegli atti che sono stati posti in essere dal soggetto agente siano stati anche diretti in modo univoco, ossia non equivoco, alla commissione del reato. Pertanto, non basta che taluno abbia posto in essere un certo comportamento al fine di attendere ad un qualche scopo delittuoso, senza che quello sia stato integralmente realizzato, ma anche che quegli atti fossero a quello scopo diretti. Tra l’altro, se un simile requisito consente di ritenere come certamente configurabile un’ipotesi di tentativo con riferimento a tutti quei delitti che vengono a caratterizzarsi per la presenza del dolo intenzionale, lo stesso non può dirsi con riferimento al dolo eventuale. Infatti, mentre il dolo intenzionale viene in rilievo allorquando sia accertato che lo scopo precipuo per cui taluno agì fu quello di conseguire il verificarsi dell’evento preso in considerazione dalla norma incriminatrice (tizio colpisce Caio per ucciderlo), il dolo eventuale si caratterizza per il fatto che il soggetto agente non abbia compiuto certi atti con l’obiettivo di realizzare l’evento incriminato. Piuttosto, la condizione di dolo eventuale viene in rilievo allorquando sia accertato che taluno abbia tenuto una certa condotta per ambire ad un fine differente e pur tuttavia si sia rappresentato la possibilità che da quel comportamento si sarebbe potuto verificare l’evento. In una simile ipotesi, infatti, non si può ritenere che il soggetto agente abbia posto in essere degli atti diretti in modo univoco alla commissione del reato, con la conseguenza che dovrà ritenersi sussistente una certa incompatibilità tra dolo eventuale e tentativo di delitto.

5. Desistenza volontaria: l’azione non è compiuta per volontà del soggetto agente

A questo punto occorre tenere conto di alcune ipotesi particolari che l’art. 56 c.p. prende in considerazione al terzo e al quarto comma. In particolare, il terzo comma individua la cd desistenza volontaria, che viene in rilievo allorquando il soggetto agente, una volta intrapresa l’opera criminosa, decida di desistere dal portarla a compimento. La norma, infatti, stabilisce che “se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso”. Si faccia l’esempio di colui che intraprende l’azione propria della rapina e che desiste dal portarla a compimento, fuggendo, per non incappare nelle forze dell’ordine, prontamente giunte sul luogo. E’ chiaro che l’allontanamento dal luogo dell’azione è frutto di una sua scelta, ancorché dettata dall’esigenza di evitare l’arresto. Si tratta di una scelta e, pertanto, dovrebbe determinare il venire in rilievo della desistenza volontaria. Eppure alcuni ritengono che, in casi come questi, dove la scelta dell’individuo si pone all’esito di una valutazione inficiata da fattori esterni, la desistenza volontaria non possa operare. Va osservato, però, che ogni scelta è il frutto di un’operazione posta in essere dal singolo, il quale valuta le possibili conseguenze del proprio operato, attraverso una ponderazione costi-benefici. Pertanto appare opportuno domandarsi: qual è la differenza che intercorre tra quanti fuggono nel bel mezzo del crimine per l’arrivo delle forze dell’ordine e quanti invece desistono per un mero ripensamento del proprio operato?  Si vuol forse ritenere che nel secondo caso non vi siano fattori esterni che inficiano sulla scelta di chi agisce? Eppure colui che desiste dalla rapina (e non perché stiano per sopraggiungere le forze dell’ordine) potrebbe porre a fondamento della propria scelta i più disparati fattori (resipiscenza, non convenienza dell’operato, incapacità di portare avanti l’operazione, mero ripensamento). Sulla scelta incidono sempre fattori esterni, insomma. Però, è chiaro che, nel caso in cui taluno decida di desistere in quanto mosso dal timore di esser colto nel bel mezzo del crimine, la natura esterna del fattore impeditivo appare più evidente rispetto agli altri casi. Ad ogni modo, è preferibile accogliere l’impostazione che ritiene applicabile l’art. 56, comma 3 c.p. ogniqualvolta la desistenza dal compimento dell’azione sia frutto della volontà del soggetto agente, a prescindere dalle ragioni ad essa sottese. Un antico detto penalistico recitava “ponti d’oro al nemico che fugge”: la disciplina applicabile nelle ipotesi appena dette vuole tenere conto del mancato compimento dell’azione per via della scelta del soggetto agente e, quindi, attendere ad una funzione premiale, senza però dimenticarsi della necessità di punire gli atti posti in essere, ove di per sé dotati di rilevanza penale.

6. Recesso attivo (pentimento operoso): l’evento volontariamente impedito

Si tratta di un fenomeno che, tuttavia, va ancora distinto da quello preso in considerazione dall’ultimo comma dell’art. 56 c.p., in forza del quale il soggetto agente “se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà”. Infatti, mentre l’art. 56, comma 3 c.p. disciplina il caso in cui vi sia desistenza dal compimento del proposito delittuoso, l’ultimo comma della norma prende in considerazione l’ipotesi in cui l’azione sia stata compiuta e, successivamente ad essa, siano stati posti in essere atti positivi, diretti ad impedire il verificarsi dell’evento. Così, ad esempio, il caso dell’aggressore che tenti di impedire che quanto si è fatto possa determinare conseguenze ulteriori, portando la propria vittima in ospedale. Va osservato, però, che ai fini dell’applicazione della norma, la giurisprudenza non si limita a richiedere il mero compimento di atti che possano impedire la verificazione dell’evento, quanto il fatto che quegli atti siano stati effettivamente posti in essere al fine di evitare il verificarsi dello stesso (senza, dunque, che fattori esterni possano inficiare la scelta del recesso). Così, ad esempio, andrebbe escluso il recesso attivo di colui che, dopo aver aggredito la vittima, al fine di ucciderla, abbia poi provveduto a segnalare immediatamente il fatto alle forze dell’ordine, col solo proposito di evitare che eventuali sospetti potessero ricadere su di lui. In questi casi, come già detto con riferimento alla desistenza volontaria, non possono non porsi dubbi in ordine alla soluzione offerta dalla giurisprudenza. Infatti, la scelta di impedire la verificazione dell’evento costituirà sempre il risultato di una valutazione del reo, qualunque sia il fattore determinante della stessa, con la conseguenza che una possibile distinzione tra i motivi che hanno indotto al recesso finirebbe per cadere.


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