Diritti fondamentali della persona e riparto di giurisdizione

Diritti fondamentali della persona e riparto di giurisdizione

Cons. Stato, sez. III, 21 ottobre 2020, n. 6371

Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato fornisce un quadro generale dei principi seguiti dalla giurisprudenza in materia di riparto della giurisdizione, con particolare riferimento ai casi in cui oggetto della controversia sia un diritto fondamentale della persona.

Il caso di specie, in particolare, riguarda la legittimità di un diniego opposto da un’Azienda Sanitaria Locale alla richiesta avanzata dal ricorrente di proseguire le cure necessitate all’estero. Si lamenta, dunque, la violazione del diritto di beneficiare di terapie presso centri specializzati fuori dal territorio nazionale, come previsto dalla normativa interna e comunitaria di riferimento.

Il giudice amministrativo di primo grado (Tar Lazio) ha declinato la propria giurisdizione ritenendo che, nella materia controversa, la pubblica amministrazione è chiamata ad effettuare valutazioni esclusivamente tecniche e non discrezionali, sicché non vi sarebbe l’esercizio di alcun potere di supremazia idoneo a radicare la giurisdizione amministrativa. In sede di impugnazione, tuttavia, il Consiglio di Stato conclude in senso opposto, affermando che essa spetti al giudice amministrativo.

Prima di esaminare nel dettaglio il ragionamento seguito dalla Sezione III, giova evidenziare che il termine “giurisdizione” indica l’imprescindibile potere del giudice di decidere con efficacia vincolante sulla domanda di parte. La giurisdizione costituisce un presupposto processuale della domanda, pena l’inammissibilità di quest’ultima e il pregiudizio del diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione.

Il problema della corretta individuazione del plesso giurisdizionale cui rivolgersi caratterizza storicamente il nostro sistema: nel 1889, con l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato, il sistema di tutela divenne dualista, per cui le questioni in tema di diritti civili o politici erano affidate al giudice ordinario, mentre le altre controversie erano assegnate all’autorità amministrativa.

Si tratta, quindi, dello stesso criterio di riparto conosciuto oggi, almeno formalmente.

L’art. 103 della Costituzione, infatti, prevede come regola generale che  “il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi” e aggiunge che tale giurisdizione si estende anche alla tutela dei diritti soggettivi, purchè la controversia riguardi “particolari materie indicate dalla legge”. Tale principio generale è stato poi recepito dal Codice del processo amministrativo (D. lgs. n. 104/2010) che, all’art. 7, delinea l’ambito di intervento della giurisdizione amministrativa.

In disparte l’articolato dibattito sviluppatosi attorno all’individuazione dei parametri distintivi tra interesse legittimo e diritto soggettivo, in questa sede basti ricordare che la giurisprudenza ricorre in maniera sinergica a vari criteri di riparto, tuttavia prediligendo quello che distingue tra attività discrezionale e attività vincolata dalla p.a.

L’interesse legittimo, dunque, si configurerebbe ogniqualvolta la p.a. agisca al fine di perseguire la tutela di un interesse pubblico. In questo caso, è integrato lo schema norma-potere-effetto, per cui la norma di legge demanda il potere all’autorità della p.a. e dal suo esercizio derivano gli effetti giuridici.

Diversamente, il diritto soggettivo risponde allo schema norma-fatto-effetto, sicché la norma di legge determina direttamente la sua disciplina e identifica gli effetti giuridici che derivano automaticamente da certi fatti. Ne deriva un accertamento del giudice limitato al contenuto della norma e alla realizzazione del fatto.

Tuttavia, lo stesso art. 103 Cost. fa espresso riferimento ad ipotesi derogatorie dell’ordinario criterio di riparto, in cui il giudice amministrativo può conoscere anche dei diritti soggettivi. Si tratta della cd. giurisdizione esclusiva, il cui spazio applicativo può essere delineato dal legislatore solo in particolari materie. In questo senso, l’art. 133 del Codice del processo amministrativo elenca una serie di materie assegnate alla giurisdizione esclusiva; tra queste la disposizione di cui al comma 1, lett c) contempla “le controversie in materia di pubblici servizi relative […] a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione […] in un procedimento amministrativo”, ipotesi che viene in gioco nella controversia oggetto dell’attuale pronuncia.

La ratio sottesa alla previsione di ipotesi di giurisdizione esclusiva è connessa al fatto che spesso diritti soggettivi e interessi legittimi si intrecciano al punto che è impossibile distinguere l’una posizione giuridica soggettiva dall’altra. In omaggio ad esigenze di economicità dell’azione e di effettività della tutela, dunque, l’ordinamento assegna il sindacato ad un unico plesso giurisdizionale.

Senonché, ulteriori problemi si sono posti nei casi in cui il diritto soggettivo a tutela del quale si adisce il giudice amministrativo rientra nel novero dei diritti fondamentali della persona.

In particolare, la giurisprudenza ha a lungo escluso che la p.a. disponga di potestà pubblicistiche, aderendo alla teoria dei diritti cc.dd. inaffievolibili. I diritti di cui all’art. 2 della Costituzione, infatti, non sarebbero sopprimibili nemmeno dal legislatore e si porrebbero al vertice della scala che “dal grado maggiore del diritto soggettivo scende al grado minore dell’interesse legittimo” in virtù dell’incidenza del potere esercitato dall’autorità amministrativa.

Il dibattito sulla validità di tale ricostruzione ermeneutica, per vero, non sembra ancora sopito, visto che in alcune pronunce a Sezioni Unite, la Corte di Cassazione mostra di aderire alla teoria della degradazione; il Consiglio di Stato in commento, invece, aderisce all’orientamento opposto, ripudiando la teoria dell’affievolimento sulla base di diversi argomenti.

Nel caso di specie, i giudici di secondo grado risolvono il dubbio prospettato in punto di giurisdizione nel senso di ritenere che essa spetti al giudice amministrativo e procedono ad esaminare tre questioni: innanzi tutto si interrogano sul tipo di potere che la ASL esercita quando decide in materia di autorizzazione ad effettuare cure mediche all’estero; in secondo luogo, ci si chiede se il rapporto tra ASL e ricorrente possa definirsi paritetico e, infine, se il diritto alla salute possa qualificarsi come posizione giuridica inaffievolibile.

Partendo da quest’ultimo punto, la sentenza esclude che la domanda diretta a tutelare il diritto fondamentale alla salute radichi, per ciò solo, la giurisdizione ordinaria (soluzione seguita da ultimo dalle Sezioni Unite n. 20577 del 2013, resa in un caso simile).

In primo luogo, la teoria dei diritti fondamentali inaffievolibili si basa su una concezione di interesse legittimo quale interesse alla mera legittimità del provvedimento amministrativo, senza valorizzare il bene della vita effettivamente anelato dal privato. Tale indirizzo ermeneutico, infatti, nasce in un momento storico in cui l’interesse legittimo non era adeguatamente tutelato nel processo amministrativo, per cui si cercò di rimediare consentendo l’intervento del giudice ordinario. In altri termini, finché l’unica forma di tutela del privato avverso il provvedimento era quella demolitoria, la teoria dell’indegradabilità consentiva la pronuncia di sentenze di condanna del giudice ordinario nei confronti della p.a.

Con la consacrazione della dimensione sostanziale dell’interesse legittimo ad opera della nota sentenza delle Sezioni Unite n. 500/1999, la suddetta esigenza di tutela viene meno, per cui a fronte di un potere amministrativo, le situazioni giuridiche soggettive sono sempre “piene” e a cambiare sono solo gli strumenti di tutela previsti dalla legge.

Pertanto, il bene della vita sotteso alla posizione giuridica soggettiva prevale sull’interesse alla mera legittimità dell’azione amministrativa al punto che il Consiglio di Stato (sent. n. 1321/2019) ha affermato che ci potrebbe al più spingersi “ad affermare che è l’interesse alla mera legittimità ad essere divenuto un interesse occasionalmente protetto, cioè protetto di riflesso in sede di tutela della situazione di interesse legittimo” e non più il contrario.

La pienezza di tutela, del resto, è comprovata dall’ampliamento delle azioni giudiziarie esperibili dal privato. Il codice del processo amministrativo delinea un sistema che rende maggiormente “effettivo” il sindacato del giudice amministrativo, prefigurando un sistema aperto di tutele; la previsione di azioni tipiche, invece, non consentirebbe di tener conto del bisogno differenziato di tutela. Per vero, anche l’azione di annullamento ormai garantisce una cognizione piena, in quanto consente di risolvere in via definitiva la questione controversa  attraverso la pronuncia di una sentenza di condanna al rilascio del provvedimento (artt. 34 lett. c) e 31 comma 3 del codice).

Infine, si richiama la giurisprudenza della Corte Costituzionale che con la sentenza n. 204/2004 (seguita da altre pronunce come sent. n.140/2007 e n. 35/2010) supera ogni distinguo basato sulla consistenza della posizione giuridica fatta valere e attribuisce rilievo dirimente all’esercizio di un potere autoritativo da parte della p.a.

Quanto ai diritti fondamentali, si evidenzia che nessuna norma ne esclude la devoluzione al giudice amministrativo e che le “particolari materie” di cui all’art. 103 della Costituzione ben possono riguardare soltanto diritti. Infatti, può accadere che la p.a. sia chiamata a perseguire un interesse pubblico che presupponga un bilanciamento tra diritti inviolabili e situazioni giuridiche di pari rango, per cui non sarebbe corretto sostenere che laddove ricorra un diritto fondamentale non possa esservi potere dell’autorità. L’unico limite è che la norma legislativa deve fondare e disciplinare l’interposizione del potere pubblico rispetto al diritto.

Come evidenzia la pronuncia “I diritti sociali a differenza dei diritti di libertà, traducendosi nella pretesa di una prestazione pubblica, necessitano, a seconda del grado di impatto sugli interessi pubblici potenzialmente antagonisti e in considerazione della scarsità delle risorse economiche e materiali disponibili, di una mediazione amministrativa. Una volta che il potere è stato attribuito, è al corretto esercizio di questo che deve aversi riguardo per fornire piena tutela al titolare dell’interesse sostanziale (e in ciò risiede l’essenza dell’interesse legittimo), senza che possa darsi ultroneo rilievo alla natura “fondamentale” o “sociale” della situazione giuridica”.

Una volta rigettata la teoria dell’affievolimento dei diritti soggettivi, la sentenza procede a risolvere i dubbi inerenti il carattere discrezionale o vincolato del potere esercitato dalla p.a. chiamata in giudizio e, di conseguenza, ad analizzare il tipo di rapporto instaurato con il privato.

Per il Consiglio di Stato non bisogna confondere il carattere vincolato dell’attività amministrativa con la natura paritetica dell’atto. L’atto paritetico, infatti, ricorre quando la p.a. è parte di un rapporto negoziale con il privato avente contenuto patrimoniale e, dunque, sottoposto alla disciplina civilistica. Ne deriva che manca l’esercizio di un potere di supremazia.

Viceversa, il vincolo che connota il potere vincolato, non fa venir meno la potestà amministrativa. In questi casi, il soggetto pubblico agisce sempre in veste di autorità preposta alla cura di interessi sovraindividuali. Anche se l’esito della richiesta avanzata dal privato è prevedibile in quanto conseguenza dell’applicazione di norme, la p.a. è comunque chiamata a valutare che l’utilità richiesta non leda l’interesse pubblico.

Ferma restando la giurisdizione amministrativa, dunque, il carattere vincolato del potere incide piuttosto sugli strumenti di tutela: come anticipato, l’art. 34 lett. c) e l’art. 31 comma 3 del Codice del processo contemplano la possibilità di condannare la p.a. all’emanazione del provvedimento dovuto, solo laddove il potere esercitato sia vincolato o se non residuino ulteriori margini di discrezionalità.

Fatte queste premesse, i giudici evidenziano che, nel caso di specie, la ASL è titolare di un potere vincolato (di cui al D.M. 3.11.1989) che intermedia la situazione giuridica soggettiva del cittadino richiedente cure gratuite all’estero con l’interesse pubblico al corretto utilizzo delle risorse finanziarie.

Alla luce di tali considerazioni, emerge come la questione inerente il riparto di giurisdizione in materia di diritti fondamentali conosca ancora oggi posizioni discordanti che concorrono a delineare un quadro ermeneutico complesso. Nonostante la diversità delle soluzioni accolte nel tempo sia dalla giurisprudenza di Cassazione sia dalle sentenze del Consiglio di Stato, è possibile individuare un filo conduttore unico, rappresentato dall’esigenza di soddisfare, quanto più possibile, le istanze di tutela di interessi particolarmente rilevanti.


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