Diritto di cronaca contro diritto alla reputazione: una battaglia aperta

Diritto di cronaca contro diritto alla reputazione: una battaglia aperta

Da sempre in lotta tra loro, le molteplici manifestazioni dei diritti della persona trovano un fertile terreno di scontro quando la libera manifestazione del pensiero,  nella species del diritto di cronaca deve confrontarsi e bilanciarsi con l’avverso diritto della personalità, la difesa del decoro e dell’onore.

In particolare, per diritto di cronaca si intende la possibilità di godere della libertà di stampa, divulgando fatti e notizie che corrispondano ad un interesse di rilevanza sociale.

Allora, da quanto detto, è facilmente intuibile che la cronaca, raccontando il quotidiano vivere della società civile, inevitabilmente, cade vittima di dibattiti politici, sociali e giuridici.

Invero, la vexata quaestio intorno al diritto di cronaca è alimentata anche dalla particolare connotazione dello stesso che non può dirsi unicamente confinato all’interno dell’ambito civile, nel suo essere un diritto sostanzialmente privatistico ma, al contempo, le problematiche toccano il diritto civile, in quanto la cronaca è essa stessa oggetto di un servizio pubblico, erogato tramite il concessionario dalla P.A.

Il diritto di cronaca, invero, realizza una particolare congiuntura tra la sfera civile e quella amministrativa: infatti, si tratta sostanzialmente di un diritto privatistico, ossia quello di manifestare la libertà di stampa che, al contempo, è teso a soddisfare un interesse collettivo all’informazione, divenendo oggetto di un servizio pubblico, erogato dalla P.A., per il tramite del concessionario preposto.

Anche la stessa Corte Costituzionale, ormai con una pronuncia non molto recente, ha ribadito che esiste un interesse generale all’informazione, che rappresentata uno dei primari diritti in quel che si definisce una democrazia.

Ebbene, delineata sommariamente la nozione di diritto alla cronaca, il vero nocciolo della questione riguarda il momento in cui la libertà di informare oltrepassa i propri fondi e giunge a ledere altrettanti diritti della persona, meritevoli di tutela, come il diritto alla reputazione.

A tal punto, capita sempre con più frequenza di leggere pubblicazione di frasi altamente ingiuriose e denigratorie, che offendono e diffamano la persona a cui sono rivolte. In questi casi, sarà affidata all’autorità giudiziaria il compito di procedere ad un giudizio di bilanciamento, per comprendere quando la manifestazione del diritto di cronaca configuri il reato di diffamazione di cui all’art. 595 c.p., ovvero quando si è in presenza di un legittimo esercizio del diritto ex art. 51 c.p.

In realtà, il processo che ha condotto a criteri stabili per bilanciare le libertà in questione non è stato per nulla semplice

e, attese le evidenti esigenze di bilanciare l’aspirazione alla libertà di informazione con quella alla difesa della sfera intima di ogni individuo, ha condotto la giurisprudenza a ricercare dei limiti al diritto di cronaca, affinché rispettati questi, possa qualificarsi come scriminante l’eventuale antigiuridicità della condotta del giornalista.

Il processo interpretativo della giurisprudenza è stato lungo e tortuoso ma, nel 1984, ha condotto ha un singolare esito, in quanto, per la prima volta, si giunse ad un concordato giurisprudenziale tra le Sezioni Unite penali ( n. 8959) e la prima Sezione Civile (n. 5259), in cui quest’ultima è passa alla storia per aver fornito il “decalogo del giornalista”: in sostanza, al suo interno vengono indicati i limiti a cui il giornalista deve attenersi nell’esercizio del diritto di cronaca, cosicché le condizioni rispettate legittimano e scriminano, rendendo prevalente la libertà di informazioni rispetto ai  contrapposti diritti.

Tali requisiti vengono indicati quali pertinenza; la verità putativa dei fatti narrati; la continenza delle espressioni adottate: “rispettate queste tre condizioni, il diritto all’onore sarà sempre recessivo rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero” .

La prima regola che viene in rilievo è la pertinenza (detta anche regola della rilevanza), secondo la quale i fatti divulgati devono essere d’interesse pubblico o, più precisamente, è necessaria l’utilità sociale dell’informazione, dovendo i fatti risponde ad un bisogno di essere informati della collettività.

Procedendo con l’esplicazione, la seconda regola dalla quale dipende la prevalenza del diritto di cronaca è la verità dei fatti narrati, la quale assume una duplice declinazione in relazione alla pubblicazione della notizia: infatti, da un lato, il giornalista è onerato del compito di fornire fatti obiettivamente veri o quantomeno tali rispetto alla fonte da cui la notizia è tratta; al contempo, però, l’autore dell’articolo deve valutare che “ogni accostamento di notizie vere può considerarsi lecito se esso non produce un ulteriore significato che le trascenda e abbia autonoma attitudine lesiva”.

Va ricordato, poi, che affinché possa dirsi rispettato il limite della verità putativa, si necessita della ricorrenza di due elementi, l’uno oggettivo e l’altro soggettivo: anzitutto, dal punto di vista oggettivo, allo scrittore i fatti devono apparire “non manifestamente implausibili”; sul versante soggettivo, deve, poi, apparire che il giornalista abbia compiuto uno sforzo diligente nella ricerca della verità, utilizzando come parametro la diligenza esigibile dal giornalista medio, secondo la previsione dell’art. 1176, comma 2, c.c.; solo se a qualsivoglia giornalista mediamente attento le notizie appariranno verosimili, allora, lo scrittore sarà scriminato.

In conclusione, per la consolidata giurisprudenza “il rispetto della verità putativa non può dirsi sussistente sol perché l’autore abbia riferito di fatti appresi da una fonte giudiziaria, poliziesca od amministrativa. Sussiste solo se l’autore riferisca donde abbia appreso quei fatti; non taccia fatti connessi o collaterali di cui sia a conoscenza; non ricorra ad insinuazioni allusive con riferimento ai fatti riferiti; si attivi con zelo e prudenza nel vagliare la verosimiglianza dei fatti riferiti”.

Infine, la terza condizione del decalogo richiede che i fatti divulgati vengano necessariamente esposti con correttezza formale del linguaggio, evitando che “un fatto storico si tramuti in uno strumento di lesione degli altrui diritti”.

È il requisito cd. della continenza verbale, la quale ricerca una narrazione improntata verso una serietà espositiva, epurata da termini denigratori o dispregiativi e tesa alla chiarezza del linguaggio che evita giochi subdoli di parole ambivalenti, suggestionanti o un di “sottinteso sapiente”: “ed infatti uno scritto allusivo od insinuante, anche quando fondato su fatti veri, può riuscire in concreto molto più pernicioso per l’onore altrui rispetto ad uno scritto vituperoso, giacché mentre questo sollecita il riso, quello suscita il dubbio, che molto più del primo corrode la reputazione di chi ne sia investito”. Ovvero, per dirla col Poeta, quando “de’ suoi detti il vero, da chi l’udiva in altro senso è torto” (T. Tasso “La Gerusalemme Liberata”).

Illustrati i limiti a cui soggiace il diritto di cronaca, la giurisprudenza ha avuto, poi, cura di graduarli in relazione alle diverse attività che concretamente il giornalista pone in essere.

Difatti, allorquando il diritto di manifestazione del pensiero assume la curvatura di diritto di critica, le tre condizioni suesposte verranno diversamente bilanciate, essendo consentito, in questo caso, esporre fatti senza l’obiettività richiesta per il diritto di cronaca.

Diversamente, quando il giornalista decide di voler dar voce alla storia passata, non avrà necessità di urgenza e, pertanto, gli sarà richiesto una scrupolosa ricerca del requisito della verità, che non potrà subire affievolimenti (come spiega Cass. 2016, n. 6784 potrebbe accadere nel diritto di cronaca, quando si è innanzi ad una impellenza).

Infine, un ultimo caso che presenta un diverso dosaggio nella composizione dei limiti del decalogo è il diritto di satira, il quale nato sul paradosso e l’ironia, vuole suscitare riso e ilarità, sottraendosi così, legittimamente, dal raccontare fatti veri.

Quindi, da quanto detto, se ne ricava che il reato di diffamazione a mezzo stampa previsto dall’art. 595, comma 3, c.p. potrà considerarsi scriminato dall’esercizio legittimo del diritto, ogni qualvolta ricorrano i tre limiti al diritto di cronaca, cosicché, l’attività del giornalista prevarrà lecitamente sugli altri interessi in giuoco.

È necessario, a quest’ultimo riguardo, scrutare le possibili conseguenza che si ingenerano nel momento in cui i presupposti in questione vengano violati.

In questo senso, sul piano penalistico, tra le conseguenze prospettabile, vi è la configurazione del reato di diffamazione.

Ebbene, in caso di lesione all’onore e alla reputazione, la celebrazione di un procedimento penale a cui è inevitabilmente connesso uno strepitus fori, non è sempre conveniente per la vittima, la quale potrebbe ritenere più vantaggioso agire in sede civile, per chiedere il ristoro dei danni.

Anzitutto, è indubitabile che in tema di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. per lesione della reputazione personale, la condotta asseritamente diffamatoria della persona “non vada valutata […] in riferimento alla considerazione che ciascuno ha della sua reputazione, bensì come effettiva lesione dell’onore e della reputazione di cui la persona goda tra i consociati” .

Inoltre, occorre precisare che, differentemente dalla tutela penalistica che protegge la mera lesione arrecata al bene giuridico dell’onore, in sede civilistica, il danno all’onore e alla reputazione non trova risarcibilità in re ipsa ma acquistano rilievo le conseguenza percettibili di tale lesione.

Da ciò ne consegue che, la configurazione del danno non patrimoniale, intesa come conseguenza pregiudizievole di una lesione suscettibile di essere risarcita dovrà essere oggetto di allegazione e prova, anche per presunzioni semplice.

Si rammenti, poi, che oltre la richiesta di risarcimento danni, il soggetto leso potrà agire ai sensi dell’art. 12 della L. 47 del 1948, il quale prevede oltre il risarcimento del danno non patrimoniale, l’aggiunta di una somma a titolo di riparazione, commisurata alla gravità dell’offesa e al grado di diffusione dello stampato; siamo innanzi ad un chiaro caso di danno punitivo.

Resta, infine, da individuare i soggetti responsabili che concretamente saranno tenuti a rispondere del reato e del danno arrecato.

Sul punto, la disciplina penalistica, ripudiando ogni forma di responsabilità oggettiva, riconosce come responsabile l’autore dell’articolo e, solo in via sussidiaria, ritiene ascrivile la responsabilità, ai sensi dell’art. 57 c.p., al direttore del giornale, in caso di omesso controllo e, ai sensi dell’art. 57-bis c.p., all’editore, solo quando l’autore è ignoto ovvero non imputabile.

Nell’ambito civile, invece, l’art. 11 L. 47 del 1948 prevede una responsabilità in solido tra i soggetti coinvolti a cui si applica il regime di cui all’art. 2055 c.c.: in tal senso, l’autore è responsabile soggettivamente, per dolo o colpa, così come il direttore del giornale, per aver omesso di effettuare il controllo sulla non lesività della notizia; invece, in capo all’editore si configura una responsabilità di tipo oggettivo, basata sul rischio di impresa, in quanto questi risponderà per il semplice fatto di essere proprietario della testa giornalistica.


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