Diritto di morire e di lasciarsi morire nella tavola dei valori

Diritto di morire e di lasciarsi morire nella tavola dei valori

I° Corte di Assise di Milano 14 febbraio 2018, Ordinanza n. 1

Pres. Mannucci Pacini

La Corte ritiene di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito suicidario, ritenendo tale incriminazione in contrasto e violazione dei principi sanciti agli art. 3, 13, II comma, 25, II comma, 27, III comma della Costituzione, che individuano la ragionevolezza della sanzione penale in funzione dell’ offensività della condotta accertata. Infatti, deve ritenersi che in forza dei principi costituzionali dettati agli artt. 2, 13, I comma della Costituzione ed all’art 117 della Costituzione con riferimento agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, all’individuo sia riconosciuta la libertà di decidere quando e come morire e che di conseguenza solo le azioni che pregiudichino la libertà della sua decisione possano costituire offesa al bene tutelato dalla norma in esame.

Diritto di morire e di lasciarsi morire nella tavola dei valori

I La surriferita Ordinanza offre il destro per una riflessione sulla nota questione della esistenza o, perlomeno, dell’emersione indiziaria, nel nostro ordinamento giuridico, di un c.d. diritto alla morte, nelle sue declinazioni dell’eutanasia passiva, di quella attiva e del suicidio assistito (quest’ultimo preso specificamente in considerazione dal tribunale milanese) [1] [2].

L’ordinamento italiano, nel suo formante di diritto positivo, a tutt’oggi, non ha né una legge sul suicidio assistito e sull’eutanasia attiva, mentre solo l’eutanasia passiva, con la l. 22 dicembre 2017, n. 219, recante <<Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento>> ha ottenuto un riconoscimento normativo indiretto, attraverso le previsioni sul testamento biologico.

Il dibattito dottrinario giurisprudenziale di questi ultimi anni, peraltro, è stato ricchissimo ed ha visto contrapporsi due tesi di fondo, in merito alle tematiche che ci occupano.

Una prima concezione, di ispirazione cattolico – tradizionalista, , si è incentrata, essenzialmente, sulla tutela del principio di sacralità e inviolabilità della vita umana, negando cittadinanza tanto all’eutanasia attiva, quanto a quella passiva (ritenendo non dovuto, al più, il c.d. accanimento terapeutico), quanto, ancora, al suicidio assistito; ciò, a prescindere dalla ricorrenza di una condizione psico-fisica compromessa e/o di malati in stato terminale e/o in stato neurovegetativo persistente [3].

Una seconda tesi, che oggigiorno sembra iniziare a prevalere, di contro, esprime un maggior favore nei confronti dell’eutanasia attiva e passiva, nonché del suicidio assistito; la stessa forgia i propri convincimenti su di una chiave di lettura del bene <<vita>> in una differente prospettiva: non quale oggettività giuridica sacra e inviolabile tout court, ma quale diritto ad una esistenza libera, dignitosa e qualitativamente accettabile, nel rispetto comunque di ogni valutazione informata espressa dall’interessato (il quale potrebbe benissimo prediligere le cure mediche e il mantenimento in vita, pur alla presenza di una condizione esistenziale fisicamente compromessa) [4].

II L’eutanasia passiva si pone non tanto con riguardo al c.d. <<accanimento terapeutico>>, oramai visto con disfavore anche da parte della tesi tradizionale, quanto con riferimento alla facoltà dell’interessato di rifiuto delle cure, e, soprattutto se in stato vegetativo persistente, della interruzione dei trattamenti di alimentazione e idratazione artificiale, che possono essere ritenuti trattamenti terapeutici veri e propri oppure misure di sostegno vitale; ove, accedendo alla prima delle due ipotesi, la loro interruzione, se precedentemente voluta dall’interessato, presenta minori ostacoli, mentre accedendo alla seconda ipotesi, solitamente solleva maggiori interferenze con il dogma della sacralità e della intangibilità della vita tout court.

Si deve, anzitutto, al tragico <<Caso Englaro>>, caratterizzato dalla presenza di una ragazza versante in stato di coma irreversibile, un primo effettivo riconoscimento della eutanasia passiva nel nostro diritto vivente.

Senza pretesa di ripercorrere ogni tappa del complesso caso giudiziario [5], è il caso di evidenziare che, dopo due pronunce giurisprudenziali negative rispetto all’interruzione dei trattamenti artificiali idratanti e nutrienti, entrambe, sostanzialmente ispirate a ritenere la vita un bene indisponibile[6], la Corte di Cassazione, in una famosa sentenza del 2007 [7], ha mutato radicalmente orientamento, attraverso una valorizzazione dei c.d. desideri espressi, in precedenza, dal soggetto in stato neurovegetativo persistente, pur nel rispetto dell’onere della prova circa la loro effettiva esistenza.

I nostri giudici di legittimità hanno statuito, chiaramente, che <<il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace comporta che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore, il quale è investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non “al posto” dell’incapace né  “per” l’incapace, ma “con” l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche>>.

La Suprema Corte, quindi, qualificati i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale alla stregua di atti medici, ha valorizzato il diritto di autodeterminazione del malato, implicante anche rifiuto alle cure previsto, in primis, dall’art. 32, comma 2, Cost, ma anche, implicitamente, dagli artt. 2 e 13 Cost., nonché dall’art. 3, comma 2, lett. a) della Carta sui Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, esercitabile, per i casi del genere, anche in precedenza, tramite una manifestazione di volontà consapevole, regolatrice di un eventuale sopravvenuto caso di incapacità di intendere e di volere, in merito alla scelta o al rifiuto dei possibili trattamenti medici praticabili [8].

La Cassazione, quindi, ha ritenuto, dieci anni prima del varo della legge sulla direttive anticipate di trattamento, che il testamento biologico fosse già un istituto negoziale presente nel diritto vivente, pur in assenza di una previsione legislativa espressa, e, di là della rilevanza dell’art. 32 Cost., con scarni formanti, soprattutto di indole internazionale e comunitaria, volti a disciplinare le direttive anticipate di trattamento [9].

Infine, con l. 22 dicembre 2017, n. 219 recante <<Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento>>, il testamento biologico riceve una disciplina positiva espressa.

L’art. 4 del provvedimento normativo ora invocato, infatti, detta una compiuta disciplina del testamento biologico, in ordine a contenuti, forma, poteri del fiduciario e limiti, ove una particolare importanza è rivestita dall’art. 1, comma 5, secondo periodo della stessa legge, a mente del quale << ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici>>[10].

E’ importante rimarcare la vincolatività, in linea di principio, prevista dalla legge che ci occupa, della direttiva anticipata di trattamento, pur, nell’ottica di temperare i tipici problemi di <<astrattezza delle>> delle manifestazioni di volontà in parola, facendo salvi i casi di palese incongruità della disposizione dell’interessato, di non rispondenza alla condizione clinica attuale e di sopravvenuta presenza di terapie idonee a migliorare la condizione di vita del paziente, non prevedibili al tempo della formazione del testamento biologico.

La nuova legge non può che essere accolta con favore, in considerazione dello scioglimento, proprio a livello di formante normativo, del precedente nodo gordiano inerente alla natura dei trattamenti artificiali nutritivi e idratativi.

III La seconda fattispecie applicativa da esaminare, connessa al c.d. <<right to die>> è rappresentata, come già avuto modo di accennare, dalla c.d. eutanasia attiva.

La <<dolce molte>>, in questa sua specifica declinazione, è utilmente invocabile soprattutto per tutti quei malati che, coscienti, versino nell’impossibilità fisica di compiere un atto di c.d. suicidio assistito, o, che, comunque, necessitino di una condotta attiva, in quanto un mero rifiuto passivo di trattamenti medici li esporrebbe a una accelerazione del fine vita, ma con immensi supplizi [11].

Per molti anni, come si è avuto modo già di accennare [12], la presenza di un consenso informato dell’infermo, presupposto giuridico ed etico indispensabile, non è valsa a evitare la configurazione della fattispecie incriminatrice dell’omicidio del consenziente, di cui all’art. 579 c.p., al netto addirittura della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale.

Per molto tempo, quindi, l’eutanasia attiva è stata considerata alla stregua di un vero e proprio <<demone giuridico>>, meritevole di riprovazione sociale tout court.

Le <<cose>>, tuttavia, hanno assunto una piega differente a partire dal c.d. <<Caso Welby>>, che ha avuto un fortissimo impatto sull’opinione pubblica, inducendo anche a alcuni ripensamenti giurisprudenziali.

Si è trattato di un caso, caratterizzato da un uomo affetto da distrofia muscolare grave ed irreversibile, con conseguenze tetraplegiche paralizzanti, ma ancora capace di intendere, di volere e di esternare, seppure con ausili tecnologici vari; detta persona ha combattuto strenuamente, anche con appelli al Capo dello Stato, per il riconoscimento di un suo diritto a morire, attraverso la disattivazione del ventilatore artificiale che lo teneva in vita.

La prima giurisprudenza chiamata a pronunciarsi sui surriferiti desideri ha affermato che <<è inammissibile la richiesta di provvedimento d’urgenza avanzata da persona affetta da un gravissimo ed irreversibile stato morboso degenerativo, volta a conseguire la cessazione del suo sostentamento mediante ventilazione artificiale, nonché la contestuale sottoposizione ad una terapia di sedazione terminale, atteso che – pur se è configurabile il diritto del paziente alla consapevole ed informata autodeterminazione nella scelta delle terapie cui sottoporsi – tale diritto non è in concreto tutelabile,  a causa della mancata definizione, in sede normativa, delle sue modalità attuative, in particolare con riferimento all’esatta individuazione del c.d. divieto di accanimento terapeutico>>, postulando, per l’effetto, una sorta di c.d. <<vuoto normativo>>, di classica elaborazione kelseniana [13].

La vicenda, poi, come noto, ha avuto un esito non preventivamente autorizzato da provvedimenti giurisdizionali, in quanto, Il 20 dicembre 2006, un coraggioso medico anestesista ha proceduto prima alla sedazione del paziente e, subito dopo, al distacco del ventilatore automatico, con exitus finale del Welby, nei successivi trenta minuti: ponendosi, in conseguenza, il problema sotto l’angolazione di una valutazione della posizione penale del medico anestesista e di riflettere serenamente sui profili giuridici della vicenda.

Il Tribunale di Roma, con sentenza resa il 17 ottobre 2007 [14], ha assolto il medico, reputando il fatto dell’anestesista non costituire reato, con una lunga e articolata motivazione, volta a valorizzare, prevalentemente, il dato della ricorrenza di una chiara volontà dell’interessato all’interruzione del trattamento di ventilazione, che si è esplicitata nell’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito all’interruzione delle cure, non necessariamente posto in posizione subordinata rispetto al diritto alla vita.

Secondo il giudice capitolino, quindi, il medico anestesista, obbligatosi contrattualmente con l’interessato, avrebbe contribuito ad attuare il suo diritto, adempiendo ad un preciso dovere, con conseguente applicabilità della scriminante di cui all’art. 51 c.p.

La sentenza, quindi, ha pur sempre fatto leva sul principio di non coercibilità di un trattamento sanitario, previsto dall’art. 32 Cost., offrendo una copertura costituzionale alla condotta del medico anestesista, pur evitando di dichiarare espressamente lecita l’eutanasia attiva [15].

Per il seguito, non si sono più ripetuti casi del genere, a parte quello similare ma non coincidente, oggetto dell’ordinanza del tribunale milanese, per cui residua un certo quadro di incertezza, che la nuova legge sul testamento biologico non ha contributo a dissipare, non recando previsioni sulla eutanasia attiva.

Volgendo lo sguardo al diritto comparato, peraltro, il quadro, pur non uniforme, presenta aspetti di interesse.

Ad esempio l’ordinamento olandese guarda con maggior favore alle pratiche di interruzione della vita di malati in fase terminale. La l. 12 aprile 2001, n. 194, infatti, consente, nel rispetto di dati <<requisiti di accuratezza>>, l’eutanasia attiva (e anche il suicidio assistito), purché lumeggiata dal previo consenso informato del paziente interessato, che deve esplicitarsi attraverso una richiesta del tutto consapevole. All’interessato, in ogni caso, non è riconosciuto un diritto di morire incondizionato, soggiacendo quest’ultimo alla ricorrenza di vari elementi di fatto, che debbono essere in concreto valutati dall’operatore sanitario [16].

IV Il suicidio assistito rappresenta la terza e forse più pregnante declinazione del diritto di morire, ove l’interessato è quasi l’attore principale dello scenario tanatologico.

L’ordinanza del Tribunale di Milano si appalesa, anche in questo caso, profondamente innovativa rispetto ai precedenti giurisprudenziali, tesi a invocare la specifica fattispecie incriminatrice dell’istigazione o aiuto al suicidio, di cui all’art. 580 c.p., nel cui ambito sono penalmente rilevanti tutte le condotte determinazione, di rafforzamento, ma anche di agevolazione di un altrui proposito di privarsi della vita [17].

In capo all’esponente radicale Cappato, pur escludendosi condotte di istigazione, non erano revocabili in dubbio quelle di agevolazione.

In questo caso, peraltro, il giudice milanese ha preferito basarsi su di una interpretazione letterale dell’art.580 c.p., ritenendo di non poter fare luogo a tecniche interpretative sistematiche, teleologiche e assiologiche, onde escludere l’illiceità penale del fatto (a differenza della Cassazione per il <<caso Englaro>> e del Tribunale di Roma per il <<caso Welby>>), ma ritenendo costituzionalmente illegittima la fattispecie dell’aiuto al suicidio, ove vi sia un consenso informato dell’interessato, privo di indebite influenze esterne.

E’ da ritenersi piuttosto interessante il mutamento di prospettiva operato dal Tribunale di Milano, che si incentra non tanto sul c.d. diritto di rifiuto alle cure (pur dedicandovi cenni), ma espressamente afferma, invocando formanti di diritto costituzionale e di diritto internazionale pattizio, un diritto di decidere come e quando morire, confinando nel penalmente irrilevante solo le azioni volte a pregiudicare detto processo decisionale.

Il Tribunale, quindi, non mostra timore di affermare espressamente l’esistenza di un vero proprio diritto a cessare di esistere, la cui copertura precettiva è ravvisata in quattro norme, due di diritto costituzionale interno, due di diritto internazionale pattizio.

Sul primo versante, infatti, il diritto di porre fine alla propria esistenza, a detta del Giudice milanese, troverebbe humus negli art. 2 e 13, Cost., in tema di principio personalistico e di libertà personale.

Sul versante della Convenzione Europea di Roma, del 1950, il Tribunale invoca gli artt. 2 e 8, sul diritto alla vita e sul diritto al rispetto della vita privata e familiare.

E’ interessante il passaggio dell’ordinanza in cui il Tribunale afferma che la tutela della vita è un valore essenziale (pur se non espressamente riconosciuto dalla nostra Costituzione), ma che tale valore non possa esplicitarsi nel perseguimento di finalità eteronome rispetto a quelle dello stesso titolare, con la conseguenza che va tutelata la libertà personale dell’individuo anche di disporre della propria vita.

V L’ordinanza in commento, al pari delle altre riferite evoluzioni normative e giurisprudenziali, rappresenta, ad avviso dello scrivente, un ulteriore tassello, utile a una soluzione equa e ragionata delle problematiche affrontate.

Il diritto di morire e quello di lasciarsi morire (maggiormente invocabile per i casi di sopravvenuta perdita della capacità di intendere e di volere) possono trovare giustificazione, in generale, in plurimi principi giuridici cardine.

Il motore mobile aristotelico di base è rappresentato dal consenso informato, in quanto solo esso è idoneo a esprimere l’autodeterminazione del soggetto, laddove, in assenza dello stesso, può e deve escludersi ogni profilo legato alla dolce morte e/o di aiuto al suicidio; ciò pur nella consapevolezza che in altri ordinamenti, talvolta, si giunge alla affermazione del principio del c.d. <<best interest>> del malato, il quale, tuttavia, è di per sé pericoloso ambiguo, proprio perché legato a valutazioni esterne e oggettive, svincolate dalle scelte individuali[18].

Il consenso informato, in altri termini, forgia e alimenta la libertà di autodeterminazione ai trattamenti sanitari, di cui agli artt. 13 e 32 Cost., giocando un ruolo decisivo anche nella nuova legge sul testamento biologico.

La seconda, non meno importante, base giuridica evoca il richiamo al valore della dignità umana, presente come principio fondamentale nella nostra Carta di vertice, ed espressamente contemplato anche dall’art. 1 della Carta europea dei diritti fondamentali.

Il rispetto di quest’ultimo implica, di certo, una pluridirezionalità ermeneutica, e, con specifico riguardo al tema della morte desiderata, l’affermazione che alla salvaguardia del bene vita, apoditticamente inteso come bene indisponibile, si pone pur sempre un limite di carattere qualitativo, rappresentato da profili di libertà, autonomia, apprezzabili esiti probabilistici di guarigione, serenità d’animo, riservatezza, la cui mancanza implica il dissolversi del valore <<vita>> in un mero simulacro dello stesso [19].

Attraverso poi il richiamo alla dignità umana, e al suo corollario della condizione di vita accettabile, ben si possono escludere che i diritti in contesa possano essere strumentalizzati per giustificare, urbi et orbi, eutanasie e suicidi assistiti, di là dai casi di malattie gravi e irreversibili.

Si attende, con apprensione, il responso della Corte Costituzionale.


[1] È ben nota la distinzione fra eutanasia attiva, vale a dire l’interruzione della vita (c.d. <<dolce morte>>) provocata dal medico o da un operatore infermieristico con vere e proprie condotte attive, e quella passiva, in cui l’operatore sanitario omette di prestare le cure necessarie al mantenimento in vita del malato; il suicidio assistito, di contro, è connotato dalla peculiarità che a porre termine alla propria vita è il malato stesso, avvalendosi dell’assistenza medica, logistica e giuridica di altri soggetti.

[2] La vicenda, molto nota ai mass media, è quella del suicidio assistito del sig. Fabio Antoniani, detto anche d.l. Fabo, che affetto, a seguito di un gravissimo sinistro stradale del 13 giugno 2014, da tetraplesi e da cecità bilaterale corticale, decise di porre termine alla sua infelice vita, optando per il c.d. suicidio assistito in una clinica svizzera, usufruendo anche dell’aiuto dell’esponente radicale Marco Cappato. Quest’ultimo, soprattutto a seguito di un’ordinanza d’imputazione coatta pronunciata dal G.I.P. di Milano, in data l0 luglio 2017, si è visto contestare dalla Procura della Repubblica di Milano il reato di cui all’art. 580 c.p., per aver <<rafforzato>> il proposito suicidiario di Fabiano Antoniani e per averlo <<agevolato>>. Esclusa, dall’istruzione, la prima condotta, la seconda, obiettivamente, era <<scontata>>.

[3] Cfr., ex plurimis, in dottrina, P. PERLINGIERI, Il diritto alla salute quale diritto della personalità, in Rass. dir. civ., 1982, 1020 ss., spec. 1045 ss.: l’a. esclude che nel nostro ordinamento esista un vero diritto di ammalarsi e di lasciarsi morire, in considerazione del fatto che la Costituzione adotta il principio personalistico e dunque considera la persona <<come un valore da preservare e da realizzare anche nel rispetto di se stessi>>. Lo stesso Comitato Nazionale di Bioetica, in un parere del 30 settembre 2005 (in www.governo.it), avente ad oggetto <<l’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente>>, ha ritenuto che i surriferiti trattamenti, pur se attuati attraverso il ricorso a particolari tecniche, oltre a non essere di tipo medico-chirurgico, neppure possano, in linea di principio, essere ricondotti all’accanimento terapeutico, in quanto <<indispensabili per garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere>>, con la conseguenza che la loro interruzione configurerebbe un caso di <<abbandono del malato>>.  La decisione in parola si è formata attraverso un criterio maggioritario, in quanto un orientamento di minoranza, in seno allo stesso Comitato, è stato di avviso esattamente opposto, reputando i trattamenti nutritivi e idratativi, specie se attuati con mezzi tecnici, dei veri e propri atti medici, suscettibili di accanimento terapeutico, e come tali, a determinate condizioni, da interrompere. In giurisprudenza la tematica è stata maggiormente affrontata con riferimento alla fattispecie incriminatrice di omicidio del consenziente, prevista dall’art. 579 c.p., con esclusione della concessione della circostanza attenuante dei motivi qualificati; Per una rassegna degli arresti pretori, cfr., ex plurimis, Cass. pen. Sez. I, 12 novembre 2015, n. 12928, in Dir. Pen. e Processo, 2016, 5, 613 ss.,  secondo la quale <<è configurabile il delitto di omicidio volontario, anziché la meno grave ipotesi di omicidio del consenziente, in caso di mancanza di una prova univoca, chiara e convincente della volontà di morire manifestata dalla vittima, dovendo in tal caso riconoscersi assoluta prevalenza al diritto alla vita, quale diritto personalissimo, che non attribuisce al coniuge il potere di disporre, anche in base alla propria percezione della qualità della vita, dell’integrità fisica altrui. Le discussioni tuttora esistenti sulla condivisibilità dell’ eutanasia sono sintomatiche della mancanza di un suo attuale apprezzamento positivo pubblico, risultando anzi larghe fasce di contrasto nella società italiana contemporanea; non ricorre, pertanto, la generale valutazione positiva da un punto di vista etico-morale, condizionante la qualificazione del motivo come “di particolare valore morale e sociale”, previsto come circostanza attenuante dall’art. 62, n. 1, c.p.>>; Cass. pen.,7 aprile 1989, in Giust. Pen., 1990, II, 459, a cui tenore <<pur essendo la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 1, c. p. compatibile in astratto con il delitto previsto dall’art. 579 c. p., non può essere concessa in tema di eutanasia mancando l’elemento positivo dal punto di vista etico-morale da parte della società attuale, necessario per la qualificazione del motivo come di particolare valore morale o sociale>>; più di rado la giurisprudenza si è occupata della fattispecie di istigazione e/o aiuto al suicidio, di cui all’art. 580 c.p., confinandola, anche in questo caso, nella mera illiceità penale: Cass. pen. Sez. I, 6 febbraio 1998, n. 3147, in Cass. Pen., 1999, 871 ss., ha infatti ritenuto che <<il discrimine tra il reato di omicidio del consenziente e quello di istigazione o aiuto al suicidio va individuato nel modo in cui viene ad atteggiarsi la condotta e la volontà della vittima in rapporto alla condotta dell’agente: si avrà omicidio del consenziente nel caso in cui chi provoca la morte si sostituisca in pratica all’aspirante suicida, pur se con il consenso di questi, assumendone in proprio l’iniziativa, oltre che sul piano della causazione materiale, anche su quello della generica determinazione volitiva; mentre si avrà istigazione o agevolazione al suicidio tutte le volte in cui la vittima abbia conservato il dominio della propria azione, nonostante la presenza di una condotta estranea di determinazione o di aiuto alla realizzazione del suo proposito, e lo abbia realizzato, anche materialmente, di mano propria>>.

[4] V., ex multis,: Comitato Etico della Fondazione Umberto Veronesi, Il Testamento Biologico, parere del 20 gennaio 2015, in The Future of Science and Ethics, 2016, 1, 37 ss.; P. CAPITELLI , I diritti del malato anche) in relazione alle sue capacità cognitive, Fasano (BR), 2007, 125 ss.; L. D’AVACK, Scelte di fine vita, in AA.VV., Testamento biologico. Riflessioni di dieci giuristi, Firenze, 2006, 47 ss.; U. VERONESI, Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla sofferenza, Milano, 2006; F. GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 90 ss.; M.VACCHIANO Eutanasia e diritto a non soffrire, in Quaderni della Giustizia, 1986, 64, 38 ss., secondo il quale, se non esiste un diritto a morire in senso stretto, esiste comunque <<un diritto a non soffrire>>.

[5] Una ricostruzione di tutta la giurisprudenza formatasi sul caso che ci occupa la si può trovare in www.unipv-lawtech.eu/la-lunga-vicenda-giurisprudenziale-del-caso-englaro.

[6] Trib. Lecco, 1 marzo 1999; App. Milano, 26 novembre 1999, che ha ritenuto, allo stato, incerto il dibattito etico- giuridico sulla effettiva natura dei trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale, entrambe in www.zadig.it .

[7] Cass. Civ., Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, in Danno e Resp., 2008, 4, 421 ss: interessante, pur se non appieno condivisibile, quel passaggio motivazionale della sentenza, in cui si afferma che <<in tema di attività medico-sanitaria, il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio – nel quadro dell'”alleanza terapeutica” che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico. Né il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, giacché tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale>>.

[8] Un ruolo centrale, nell’ipotesi che ci occupa ma con considerazioni valide anche per l’eutanasia attiva e il suicidio assistito spetta al c.d. consenso informato, definibile alla stregua di una manifestazione di volontà personale, unilaterale, recettizia, libera, consapevole, revocabile, prevalentemente gratuita, proveniente dal soggetto passivo del trattamento invasivo. La locuzione <<informato>> rende chiaro che, sul piano strutturale, vi è la scansione di due ben distinti momenti, rispettivamente rappresentati dall’assolvimento, da parte dell’operatore sanitario, di un dovere informativo su natura e conseguenze del trattamento medico o sperimentale, e dalla successiva manifestazione di volontà del paziente al trattamento riguardo al quale ha ricevuto le informazioni (P.CAPITELLI, o.c., 39 ss., ivi ult bibl.).

E’ chiaro che, alla luce del principio costituzionalistico di autodeterminazione del malato in campo sanitario, il consenso informato ben può risolversi, anche mediante una direttiva anticipata di trattamento per i casi, futuri ed eventuali, di perdita della capacità di intendere e di volere, in un atto di dissenso informato verso determinati trattamenti medici.

[9] Sul versante, delle norme <<dirette>>, si deve menzionare la Convenzione per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti dell’applicazioni della biologia e della medicina, firmata a Oviedo il 4 aprile 1997 e recepita, nel nostro ordinamento, dalla l. n. 145 del 2001, la quale, tuttavia, non ha mai offerto una soluzione certa al problema delle direttive anticipate. La Convenzione di Oviedo, sebbene all’art. 5 affermi il primato del consenso informato rispetto ai trattamenti medici, tuttavia, al successivo art. 9, proprio in tema di living will sembra svuotarlo di significato, merce la previsione per cui <<I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione>: è evidente, tuttavia, che il tenere in considerazione non implica vincolatività per il medico delle scelte di fine vita espresse dal malato, allorquando preservava la capacità di intendere e di volere, ponendo, al più, la possibilità di qualificare la posizione dell’interessato alla stregua non di un diritto soggettivo perfetto, ma di un c.d. <<interesse legittimo di diritto privato>>; pari considerazioni possiamo dedicare Codice deontologico medico- nuova versione adottata nel 2014, il cui art. 16, Procedure diagnostiche e interventi terapeutici non proporzionati- dispone che <<Il medico, tenendo conto delle volontà espresse dal paziente o dal suo rappresentante legale e dei principi di efficacia e di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita.  Il controllo efficace del dolore si configura, in ogni condizione clinica, come trattamento appropriato e proporzionato.  Il medico che si astiene da trattamenti non proporzionati non pone in essere in alcun caso un comportamento finalizzato a provocare la morte >>, laddove il successivo art. 17 dispone che <<Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte>>; con mancato riconoscimento, quindi, di un diritto a rifiutare, ora per allora, i trattamenti di idratazione e di alimentazione artificiale, ma, in limine, esclusivamente trattamenti di accanimento terapeutico.

[10] Per completezza espositiva, riportiamo il testo dell’art. 4, cit.: << 1. Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonchè il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona di sua fiducia, di seguito denominata «fiduciario», che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie. 2. Il fiduciario deve essere una persona maggiorenne e capace di intendere e di volere. L’accettazione della nomina da parte del fiduciario avviene attraverso la sottoscrizione delle DAT o con atto successivo, che è allegato alle DAT. Al fiduciario è rilasciata una copia delle DAT. Il fiduciario può rinunciare alla nomina con atto scritto, che è comunicato al disponente. 3. L’incarico del fiduciario può essere revocato dal disponente in qualsiasi momento, con le stesse modalità previste per la nomina e senza obbligo di motivazione. 4. Nel caso in cui le DAT non contengano l’indicazione del fiduciario o questi vi abbia rinunciato o sia deceduto o sia divenuto incapace, le DAT mantengono efficacia in merito alle volontà del disponente. In caso di necessità il giudice tutelare provvede alla nomina di un amministratore di sostegno, ai sensi del capo I del titolo XII del libro I del codice civile. 5. Fermo restando quanto previsto dal comma 6 dell’articolo 1, il medico è tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. Nel caso di conflitto tra il fiduciario e il medico, si procede ai sensi del comma 5, dell’articolo 3. ì6. Le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all’annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie, qualora ricorrano i presupposti di cui al comma 7. Sono esenti dall’obbligo di registrazione, dall’imposta di bollo e da qualsiasi altro tributo, imposta, diritto e tassa. Nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento. Nei casi in cui ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca delle DAT con le forme previste dai periodi precedenti, queste possono essere revocate con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l’assistenza di due testimoni. 7. Le regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica o il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando comunque al firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano reperibili. 8. Entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministero della salute, le regioni e le aziende sanitarie provvedono a informare della possibilità di redigere le DAT in base alla presente legge, anche attraverso i rispettivi siti internet>>.

[11] Si pensi a un malato terminale, in stato di completa paralisi, ma cosciente, per il quale, a differenza di quanto potrebbe accadere nel caso di stato neuro vegetativo persistente, una sospensione dei trattamenti di alimentazione e idratazione artificiale comporterebbe atroci sofferenze.

[12] V., retro, nota 3.

[13] Trib. (Ord.) Roma, 16 dicembre 2006, in Foro it., 2007, I, 571 ss.

[14] Trib. Roma, 17 ottobre 2007, in www.lucacoscioni.it.

[15] In dottrina vi è anche chi ha ricondotto la vicenda di specie all’eutanasia passiva. Ad es., F. VIGANO, Esiste un <<diritto a essere lasciati morire in pace>>? Considerazioni in margine al caso Welby, in Dir. pen. proc., 2007,  5 ss., è dell’avviso che il distacco dal respiratore, longa manus meccanica del medico, sia pur sempre riconducibile al novero delle condotte omissive e non di quelle attive.

[16] L’art. 2 della succitata legge, infatti, dispone che << 1. I requisiti di accuratezza, indicati nell’articolo 293, secondo comma, del Codice Penale, prevedono che il medico: a. abbia la convinzione che si sia trattato di una richiesta libera e ben meditata del paziente, b. abbia la convinzione che si sia trattato di una sofferenza ineludibile e insopportabile del paziente, c. abbia informato il paziente della situazione in cui egli si trovava e delle sue prospettive, d. con il paziente sia giunto alla convinzione che per la situazione in cui egli si trovava non vi fosse altra soluzione ragionevole, e. si sia consultato con almeno un altro medico indipendente, il quale abbia visto il paziente e abbia dato per iscritto il suo giudizio sui requisiti di accuratezza indicati nei punti a-d, e f. abbia praticato l’eutanasia o l’assistenza al suicidio con accuratezza medica. 2. Se il paziente di sedici anni o più non è più in grado di esprimere la sua volontà, ma prima di cadere in tale condizione era stato giudicato in grado di fornire una ragionevole valutazione dei suoi interessi e aveva rilasciato una dichiarazione scritta contenente una richiesta di eutanasia, allora il medico può dare seguito a questa richiesta. I requisiti di accuratezza, indicati nel primo comma, sono applicabili in conformità. 3. Se il paziente minorenne ha un’età compresa tra i sedici e i diciott’anni e può essere ritenuto in grado di fornire una valutazione ragionevole dei suoi interessi, il medico può dare seguito alla richiesta del paziente di eutanasia o di assistenza al suicidio, dopo avere coinvolto il genitore o i genitori che esercita o esercitano la patria potestà su di lui, oppure il suo tutore, prima di prendere una decisione. 4. Se il paziente minorenne ha un’età compresa tra i dodici e i sedici anni e può essere ritenuto in grado di fornire una valutazione ragionevole dei suoi interessi, il medico – se il genitore o i genitori che esercita o esercitano la patria potestà su di lui, oppure il suo tutore, possono essere d’accordo con l’eutanasia o con l’assistenza al suicidio – può dare seguito alla richiesta del paziente. Il secondo comma è applicabile in conformità>>. Agli stessi criteri di ragionevolezza sembra ispirarsi, in Belgio, la loi 28 mai 2002. – …relative à l’euthanasie, la quale ha previsto la non punibilità del medico che la pratichi su soggetto maggiorenne o minore emancipato, capace di intendere e di volere, affetto da malattia ad exitus infausto, che l’abbia richiesta per iscritto e senza subire coartazioni di volontà.

Per dei raffronti pretori, si consideri la “vicenda B.” del 2002, in cui la London High Court, Family Division, 22 marzo 2002, in www.cittadinolex.kataweb.it, nonché in Riv. it. med. leg.,  2002, p. 1221 ss., ha autorizzato il distacco del respiratore artificiale, dalla malata richiesto:  la ratio decidendi della pronuncia in esame si fonda sull’esistenza di un c.d. right to die, inteso alla stregua di un diritto <<di morire in pace e con dignità, perché mentalmente in grado di prendere la sua ultima decisione e perché la sua condizione può essere peggio della morte>>. Ma, contra, CEDU, 29 aprile 2002, r. 2346/02, Pretty c. U.K., in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it, sul rilievo in forza del quale il diritto negativo alla vita non rientra tra i fondamentali diritti all’autodeterminazione tutelati dalla Convenzione di Roma del 1950.

[17] V., retro, nota 3.

[18] Al best interest del paziente, per esempio, appare ispirarsi la giurisprudenza inglese del caso Charlie Gard, bimbo di 10 mesi affetto da deplezione mitocondriale, la quale ha deciso per l’interruzione dei supporti vitali. Ma, pur ragionando forse ad absurdum, cosa avrebbe realmente desiderato lo sfortunato protagonista, se avesse avuto la possibilità di esprimere un atto di scelta, rispetto a tali supporti?

[19] P.CAPITELLI, o.c., 126.


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