Disciplina nazionale della concorrenza, interessi tutelati e altri valori perseguiti

Disciplina nazionale della concorrenza, interessi tutelati e altri valori perseguiti

Tradizionalmente, la nozione di concorrenza si connota quale situazione di mercato in cui più operatori economici pubblici e privati competono ad armi pari e con medesimi diritti, per rispondere, con ampia libertà di accesso all’attività d’impresa, alla domanda di beni e servizi che proviene dalla collettività [1].

Una tale situazione fa sì che gli acquirenti possano scegliere liberamente tra i prodotti e i servizi disponibili sul mercato quelli migliori in termini di prezzo e qualità.  Viene, così, a formarsi un mercato caratterizzato anche da un’assenza di ostacoli all’ingresso di nuovi operatori in qualsiasi settore della produzione e della distribuzione.

La definizione di concorrenza in questi termini rimanda ad una forma di mercato perfetta e totalmente contrapposta al monopolio, che si identifica invece, come uno degli atteggiamenti che astrattamente può assumere l’iniziativa economica, in cui l’offerta di beni e servizi è accentrata nelle mani di un solo venditore.

Tuttavia, nella realtà, un tale modello di concorrenza non è realizzabile, il mercato, infatti, è caratterizzato da una disomogeneità territoriale di risorse naturali, da una necessità di ingenti investimenti in capitali richiesti a causa di un processo di modernizzazione di produzione industriale, da una scarsità di mobilità della manodopera e da una certa impossibilità, in alcuni settori, di produrre a costi e di vendere a prezzi competitivi se non vengono raggiunte determinate dimensioni imprenditoriali.

Per questa ragione, viene  sostenuta, con frequenza,[2]  l’inesistenza di una vera e propria definizione del termine di concorrenza, dunque ne consegue un’impossibilità di identificare tale principio con il concetto di libertà economica; infatti, sebbene le norme comunitarie e l’ordinamento nazionale la tutelino come bene giuridico protetto non ne offrono una definizione.

Si è soliti contrapporre ad una tale visione statica e strutturalista della concorrenza che si identifica nella mera libertà economica degli operatori economici, un’interpretazione più ampia intesa come un processo dinamico e funzionalista incentrato sull’efficienza economica [3] .

Tale accezione di concorrenza mira ad orientare il mercato secondo fini sociali così da realizzare una rispondenza tra qualità e prezzo del prodotto e un miglioramento qualitativo di quest’ultimo .

In tal modo, si impedisce che soggetti economicamente forti condizionino l’esercizio della libertà e il funzionamento della democrazia economica. Un’impresa dominante, infatti, se fosse totalmente libera da limiti giuridici, tenderebbe ad assorbire le imprese concorrenti e a limitare l’ingresso di quelle outsiders, ponendosi di fatto in una posizione di monopolio.

Una tale visione di concorrenza trova legittimazione nella Costituzione italiana.

Il disposto dell’articolo 41 Cost. nel I comma tutela la libertà di impresa in una prospettiva “dichiaratamente individualista” [4] , riconoscendo la suddetta libertà come diritto fondamentale di ogni cittadino; nei successivi, invece, si colloca su un piano definito come oggettivo, in quanto tutela la libertà di concorrenza al fine di difendere una struttura, appunto, concorrenziale del mercato.

Così, la norma costituzionale si presta a garanzia non solo della libertà individuale di iniziativa economica ma anche della concorrenza effettiva come strumento di funzionamento dei mercati.

L’articolo 41 rende operativo il compito prescritto alla Repubblica dall’articolo 3 co.2 Cost.. Infatti, la lettura combinata dei due articoli legittima la tutela della concorrenza come garanzia della “eguale libertà” dell’iniziativa economica . Viene imposto, in tal senso, un atteggiamento attivo da parte dei poteri pubblici di promuovere, assecondare o limitare la concorrenza in vista di altri interessi costituzionalmente rilevanti [5].

Il rispetto di una tale libertà, in realtà, non è imposto soltanto ai poteri pubblici ma anche ai soggetti privati, configurandosi la libertà altrui quale limite dell’iniziativa medesima così come ribadito al co.2 dell’articolo 41.

La libertà di iniziativa economica di ciascuno, infatti, deve poter coesistere con la libertà di tutti gli altri soggetti imprenditoriali attivi nel sistema del mercato. Dunque, l’utilità sociale è da porsi come limite alla libera iniziativa economica.

Alla luce del dettato costituzionale la concorrenza viene a porsi come un valore tutelato in quanto proiezione pluralistica  della libertà individuale di iniziativa economica.

In un sistema in cui opera una pluralità di soggetti, la competizione tra le imprese diventa conseguenza naturale, per cui il principio della libertà di concorrenza significa assenza di impedimento alla conquista del mercato [6].

Il giurista, pertanto, ha il compito di definire la concorrenza identificandola come strumento atto a riequilibrare i plurimi interessi costituzionalmente rilevanti, attribuendole il significato di valore suscettibile di bilanciamento in vista di un bene collettivo .

Un siffatto modello teorico subisce, nella sua concreta applicazione, un’inevitabile serie di condizionamenti di varia natura, identificabili come fattori endogeni allo stesso sistema di economia di mercato o come interventi da parte del legislatore.

Al fine di realizzare il benessere collettivo, tutti gli ordinamenti che tutelano la concorrenza ammettono la possibilità per l’imprenditore di porre in essere le tecniche e le strategie che più ritiene proficue. In tali attività  possono essere inclusi anche accordi autonomi di cooperazione tra imprese, pur limitando questi la libertà di iniziativa economica.

Nell’ambito delle limitazioni convenzionali della concorrenza, l’articolo 2596 c.c. disciplina i patti unilaterali. Questi si traducono in restrizioni di concorrenza o reciproche o a carico di una sola delle parti. Tale patto deve essere provato per iscritto ed è valido solo se è circoscritto a un determinato ambito territoriale e rispetta il limite di durata di cinque anni. Esemplificativi di patti limitativi della concorrenza sono i cartelli.

Tuttavia, qualora tali accordi o in generale i comportamenti degli imprenditori degenerino in condotte che conducono all’acquisizione di vantaggi competitivi, attraverso strumenti che minano la componente democratica del modello di economia di mercato, si rende necessario l’intervento del legislatore.

Affinché si possa realizzare la coesistenza tra le diverse imprese che offrono beni e servizi, l’ordinamento interviene prevedendo disposizioni normative inderogabili che costituiscono un sistema di limitazioni legali alla libertà di concorrenza. Esse sono di vario tipo e non inibiscono lo svolgimento dell’attività imprenditoriale ma il solo ricorso a modalità ritenute non corrette [7].

Tra le disposizioni si rinvia all’articolo 2598 c.c. in cui si inibisce a chiunque il compimento di atti vietati poiché pregiudizievoli, in quanto mancanti del rispetto delle regole di concorrenza professionale, idonei a danneggiare l’altrui azienda. Un atto di questo tipo è qualificabile come atto di concorrenza sleale ed è vietato nella sua oggettiva idoneità a danneggiare l’impresa concorrente indipendentemente da ogni profilo di consapevolezza o intenzionalità nell’autore.

Ulteriori previsioni contemplate dal legislatore italiano come limite alla libertà di concorrenza, in attuazione della direttiva europea 2005/29/CE, sono disciplinate dagli articoli 18 – 27  del Codice del Consumo.

L’atto di recepimento (d.lgs. n. 146/2007) ha modificato la qualificazione originaria adottata dalla direttiva di pratica commerciale sleale, in pratica commerciale scorretta, al fine di evitare una confusione con la disciplina menzionata anteriormente in materia di concorrenza sleale degli articoli 2598 ss. del Codice Civile.

Questi comportamenti, infatti, si differenziano da quelli sleali poiché sono posti dal legislatore per autodisciplinarsi.

In particolare, tali previsioni normative non si traducono in divieti espressi imposti dalla legge, piuttosto si identificano come “codici di condotta” [8] . Esse, infatti, definiscono il comportamento che le imprese, secondo i canoni di buona fede e diligenza, dovrebbero seguire al fine di realizzare un corretto funzionamento del mercato concorrenziale.

In tali condotte rientrano non soltanto quelle direttamente funzionali alla stipulazione di contratti che in maniera diretta o indiretta possano distorcere la concorrenza, ma anche tutti quei comportamenti concreti o astratti, quindi, azioni od omissioni, positivi o negativi, attivi o passivi, che interferiscano in maniera rilevante sulla libertà di scelta del consumatore .

Ne consegue che previsioni in tal senso salvaguardino il mercato concorrenziale e le disposizioni poste a fondamento del suo corretto funzionamento, rispondendo ad esigenze pubblicistiche. Inoltre, esse mirano a tutelare i consumatori e le altre imprese contro gli autori delle violazioni di regole sul corretto “confronto competitivo”, assolvendo così ad esigenze anche privatistiche .

Dunque, ciò che determina la sanzionabilità della condotta dell’impresa è il parametro della diligenza professionale e l’idoneità dei comportamenti ad alterare le scelte dei soggetti operanti nel mercato [9].

Mostrando l’adesione alle “migliori pratiche” della professione dell’industria, l’impresa oltre a rispettare il corretto funzionamento del mercato, potrebbe trarne anche molti benefici, come ad esempio la riduzione di costi legali legati all’intervento dell’autorità o dei contenziosi e il rafforzamento della fiducia con la clientela. Altrettanto innumerevoli sono gli aspetti positivi per i consumatori, come il poter compiere scelte informate e consapevoli, basate su regole certe di mercato.  Né sono trascurabili i benefici pubblici che ne deriverebbero, quali una maggiore trasparenza delle pratiche, un mercato più efficiente, un numero inferiore di controversie giudiziali . Tuttavia, il sistema nella realtà non funziona alla perfezione, infatti è stato definito piuttosto “come un grosso sforzo di moralizzazione del mercato” [10].

L’applicazione di tale normativa è, infine, affidata alla AGCM [11], che nell’ambito del procedimento di accertamento della pratica scorretta, gode di un’ampia gamma di poteri investigativi ed inquisitori che le consentono di procedere anche d’ufficio.

Il potere dello Stato di limitare per legge la concorrenza può arrivare finanche ad escludere in toto l’accesso ad alcuni settori di attività riservandone allo stato l’esercizio, in casi eccezionali.

Tale potere trova fondamento nell’articolo 43 della costituzione italiana, il quale giustifica ai “fini di utilità generale” la cd. Collettivizzazione. La disposizione del 43 deve però essere utilizzato come extrema ratio nelle sole ipotesi in cui gli strumenti previsti dall’art. 41 risultino insufficienti .

I pericoli che potrebbero derivare da una tale applicazione del predetto articolo sono innumerevoli, però in parte vengono stemperati dal disposto dell’articolo 2597 c.c. In deroga al principio generale della libertà contrattuale, la disposizione impone a carico del monopolista legale un obbligo di contrarre con chiunque faccia richiesta del bene o del servizio offerto, osservando una parità di trattamento tra tutti gli utenti .

La connessione tra questa deroga  e il principio di libertà di concorrenza e la tutela di un interesse di carattere generale è ribadita in senso restrittivo all’art. 8 legge n. 287/90 che esclude dal proprio ambito di applicazione le imprese che per disposizione di legge operano sul mercato in regime di monopolio.

 

 

 

 


[1] G. F. CAMPOBASSO Manuale di diritto commerciale, Utet Giuridica, Milano, 2017, capitolo VIII.
[2] In tale linea di pensiero si inscrive M. LIBERTINI Concorrenza, in Enciclopedia del diritto, Annali III, Giuffrè, Milano, 2010, pp.197-198.
[3] M. MANETTI, I fondamenti costituzionali della concorrenza, in Quaderni costituzionali, Fascicolo 2, 2019. Per la definizione in tal senso pag.323
[4] Per questa ricostruzione della norma si rinvia a G. GUIZZI, Il mercato concorrenziale. Problemi e conflitti. Saggi di diritto antitrust, Giuffrè, Milano, 2018, pag. 36-38.
[5] Quanto espresso nel testo è aderente a M. MANETTI, op. cit. pag. 324.
[6] In tal senso, A. GRAZIANI – G. MINERVINI – U. BELVISO – SANTORO V. Manuale di diritto commerciale, CEDAM, Padova, 2015, pag. 117.
[7] In tal senso G. F. CAMPOBASSO op cit., loc. cit. VIII capitolo et al.; MARTORANO in V. BUONOCORE Manuale di diritto commerciale, Giappichelli, Torino, 2020, locc. citt. Capitolo I, parte III.
[8] Così F. GHEZZI., Codici di condotta, autodisciplina, pratiche commerciali scorrette. Un rapporto difficile, in Rivista delle società, Vol.56, Fasc. 4, 201, pp. 680- 701, nello specifico pag. 686.
[9] G. GUIZZI, Il mercato concorrenziale. Problemi e conflitti. Saggi di diritto antitrust, Giuffrè, Milano, 2018, pag. 336.
[10] È questa la posizione espressa da GHEZZI F, op. cit., pp. 688-690.
[11] L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) è un’autorità amministrativa indipendente italiana, istituita dalla legge 10 ottobre 1990, n. 287. Ha funzione di tutela della concorrenza e del mercato.

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