Divieto di analogia della legge penale ed interpretazione estensiva: un’analisi della causa di non punibilità ex art. 384 c.p.

Divieto di analogia della legge penale ed interpretazione estensiva: un’analisi della causa di non punibilità ex art. 384 c.p.

Il principio del divieto di analogia della legge penale è alla base dell’ordinamento penale italiano e viene espresso dall’articolo 14 delle preleggi, in forza del quale non è consentita l’applicazione analogica della norma incriminatrice oltre i casi ed i tempi da essa considerati.

Tale principio enunciato dall’articolo 14 delle preleggi rinviene il suo fondamento nel principio del favor libertatis ed è volto ad assicurare il principio di determinatezza della fattispecie penale quale corollario fondamentale del principio di legalità ex articolo 1 c.p.

Infatti, nel nostro ordinamento il soggetto che compie un fatto penalmente rilevante deve essere posto in condizione di conoscere apriori le conseguenze della propria condotta attraverso la norma penale, la quale non può applicarsi al di fuori dei casi in essa contemplati, poiché altrimenti si rischierebbe di consentire una compressione della libertà personale oltre i casi previsti della norma.

In tal senso il principio del divieto di analogia è posto a tutela del cittadino contro ogni possibile arbitrio interpretativo del potere giudiziario, ponendosi a presidio del principio di libertà personale ex articolo 13 della Costituzione.

Muovendo da quest’ultima considerazione, parte della dottrina ritiene che il divieto di analogia non sia assoluto, bensì relativo: se è vero che la funzione primaria del divieto in commento è quella di garantire la libertà personale da ogni possibile arbitrio interpretativo del potere giudiziario che produca effetti negativi su di essa, è pur vero che tale esigenza di tutela non sussiste laddove si debba applicare una norma di favor per il reo.

Pertanto, a detta di parte della dottrina, è pienamente configurabile l’analogia in bonam partem, potendosi così sostenere la relatività del divieto di applicazione analogica in materia penale che opererebbe soltanto in malam partem.

Se dubbi sono sorti in relazione all’ammissibilità dell’analogia in bonam partem, lo stesso non può dirsi con riguardo all’interpretazione estensiva della norma penale. Ciò in quanto quest’operazione interpretativa attribuisce alla norma penale un significato conforme al suo tenore letterale di modo che essa non venga mai applicata al di fuori dei casi da essa espressamente contemplati.

In tal caso si è in presenza di un intervento chiarificatore dell’interprete che chiarisce il significato della norma muovendosi sempre all’interno del perimetro applicativo da essa tracciato in conformità all’articolo 14 delle preleggi.

Alla luce di quanto suesposto la dottrina e la giurisprudenza prevalenti sono concordi nel ritenere attualmente ammissibile l’interpretazione estensiva della norma penale e l’analogia in bonam partem, ed invece negano l’applicazione analogica in malam partem.

Le uniche eccezioni al ricorso all’applicazione analogica della norma di favore sussistono quando la norma, da applicarsi analogicamente, sia di carattere eccezionale oppure quando la lacuna normativa sia frutto di una scelta intenzionale del legislatore.

A tal proposito, si osserva che il legislatore sovente è intervenuto sulle norme penali di favore ampliandone l’ambito di applicabilità a taluni casi, e non consentendo ciò per altri, ove ha creato una lacuna legislativa volontaria. Ciò è particolarmente evidente nelle cause di non punibilità, le quali operano soltanto a favore di taluni soggetti attivi del reato in ragione dei requisiti soggettivi posseduti.

E’ questo il caso della causa speciale di non punibilità di tipo soggettivo prevista dall’articolo 384 c.p., la quale esclude la punibilità del soggetto attivo di un reato contro l’amministrazione della giustizia che abbia commesso il fatto per la necessitò di salvare se medesimo o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.

Ebbene, la disposizione in esame trova la sua ragione nel brocardo nemo tenetur se accusare, in forza del quale l’individuo viene spinto a commettere il fatto per l’istinto di conservazione della propria libertà e del proprio onore, o comunque in ragione di un particolare legame affettivo.

Al fine di delineare l’ambito di applicabilità della causa di non punibilità il legislatore richiama la nozione di prossimo congiunto, la quale si rinviene nell’articolo 307, comma 4 c.p.

Nel rigore della norma sono riconducibili nella figura di prossimo congiunto esclusivamente il coniuge e la parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, e ciò per effetto del d. lgs n. 6/2017 che ha provveduto a riscrivere la norma alla luce della legge n. 76/2016, meglio nota come legge Cirinnà.

Pertanto, sulla base di tale dato normativo parte della giurisprudenza ha negato la possibilità di applicare in via analogica l’articolo 384 c.p. alla convivenza di fatto, sulla base dell’assunto che il legislatore volontariamente non ha provveduto ad estendere la norma alla parte della convivenza di fatto.

Il legislatore infatti, se ciò avesse voluto, lo avrebbe fatto espressamente modificando la disposizione dell’articolo 307, comma 4, ricomprendendo nella nozione di prossimo congiunto anche quella della parte della coppia di fatto.

La tesi della lacuna legislativa volontaria che non darebbe spazio ad un’interpretazione analogica del 384 c.p. a favore del convivente di fatto poggia sul confronto con altre norme presenti nel codice penale. Invero, l’articolo 574 ter 1 comma, che agli effetti della legge penale riferisce il termine matrimonio anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso.

Orbene, l’articolo de quo è stato modificato, segnando un recepimento da parte della disciplina penale delle modifiche intervenute in campo civilistico, in armonia con quanto stabilito dall’articolo 1, comma 20 della legge n. 76/2016, che stabilisce un’equiparazione tra la parte dell’unione civile e la figura del coniuge, al fine di assicurare la tutela dei diritti ed il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile.

In questo rinnovato contesto normativo, si assiste alla sola equiparazione della parte dell’unione civile alla figura del coniuge, ma non anche del convivente more uxorio, fondando così la tesi della lacuna normativa volontaria che precluderebbe l’operare della speciale causa di non punibilità nell’ambito della convivenza di fatto.

Anche l’articolo 649 comma 1, n. 1) bis avvalora la tesi suesposta di un trattamento normativo differente della convivenza di fatto rispetto all’unione civile registrata ed al matrimonio in tema di cause non punibilità.

La decisione del legislatore di escludere l’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’articolo 384 c.p. alla convivenza di fatto va ricercata, a parere dei sostenitori della tesi succitata, nella diversità del vincolo che la caratterizza rispetto al rapporto di coniugio.

La convivenza more uxorio, non si fonda infatti su di un vincolo giuridico formale, ma su di una convivenza caratterizzata da un affetto tra individui che, per quanto duraturo, può venir meno in qualunque momento, perciò essa trova la sua base normativa non in una disposizione particolare, bensì nell’ambito dell’articolo 2 della Costituzione.

Al contrario, il rapporto di coniugio si caratterizza per la presenza di un vincolo formale e per una stabilità e reciprocità di diritti e doveri dei coniugi, ai quali il Costituente ha voluto attribuire dignità superiore attraverso un riconoscimento espresso nell’articolo 29 della Costituzione. Sicché, nel non estendere la speciale causa non punibilità ex art. 384 al convivente di fatto, non si creerebbe alcun trattamento discriminatorio ex articolo 3 della Costituzione, poiché trattasi di situazioni differenti per le quali si giustifica una disciplina differente.

Di segno opposto è invece un altro orientamento giurisprudenziale che ritiene ingiustificata la disparità di trattamento tra la famiglia di fatto e quella fondata sul vincolo del matrimonio o sull’unione civile registrata. Tale orientamento sposa un’interpretazione convenzionalmente orientata del concetto di famiglia sulla base dell’articolo 8 della CEDU, che non può essere considerata esclusivamente come poggiante su di un vincolo formale, come il matrimonio o l’unione civile registrata, ma deve essere considerata anche nella sua accezione sostanziale: e pertanto onnicomprensiva di quei legami di fatto che nella sostanza si atteggiano a realtà familiari in tutti i sensi.

Sicché, parte della giurisprudenza di legittimità, attraverso un’interpretazione valoriale e convenzionalmente orientata del concetto di famiglia, non contrastante con la Costituzione, perviene a ritenere applicabile l’istituto dell’articolo 384 c.p. comma 1 nell’ambito della convivenza di fatto, anche in considerazione della legge Cirinnà.

Proprio alla luce di quest’ultima legge, bisogna chiedersi se il legislatore possa recepire le istanze giurisprudenziali, come in passato ha già fatto, e riformulare la causa di non punibilità ex articolo 384 c.p. ed altresì la nozione di prossimo congiunto ex articolo 307, comma 4, c.p. anche attraverso un intervento normativo ad hoc che possa semplificare il complesso rapporto tra  unione civile, convivenza di fatto e matrimonio, avendo in tal senso la legge Cirinnà ampliato il novero delle unioni e creato una disparità di trattamento agli effetti civili, che si riverbera agli effetti penali.

Ciò in considerazione anche del fatto che la norma dell’articolo 8 della CEDU si pone come norma interposta per effetto del richiamo dell’articolo 117 della Costituzione che impone al legislatore nostrano di conformarsi agli obblighi internazionali.


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