Divieto di utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche ex art. 270 c.p.p.: sull’effettiva portata della nozione di “procedimento diverso”

Divieto di utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche ex art. 270 c.p.p.: sull’effettiva portata della nozione di “procedimento diverso”

Un problema che ha per lungo tempo attanagliato dottrina e giurisprudenza è quello che concerne il regime di utilizzabilità delle intercettazioni ex art. 270 c.p.p..

Ci si è a lungo chiesto, infatti, se il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state disposte riguardi anche i reati non oggetto delle captazione di conversazione ab origine autorizzata e che, privi di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con i reati già oggetto di essa, siano emersi dalle stesse operazioni di intercettazioni.

Il problema dell’ambito di utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche era emerso, in tutta la sua complessità, già sotto la vigenza del Codice Rocco in ragione del sempre difficile bilanciamento fra le garanzie di rango costituzionale e la compressione di queste libertà operata attraverso le intercettazioni. Si tratta, infatti, di una tecnica  investigativa estremamente delicata poiché chiama in causa interessi confliggenti: da una parte, il dovere di accertare e reprimere gli illeciti, previsto ex art. 112 Cost.; dall’altra il diritto alla riservatezza dell’individuo, garantito dall’art. 14 Cost., e il diritto alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni, tutelato dall’art. 15 Cost.

Proprio in tale ottica si colloca l’art. 270 c.p.p. il quale si apre con l’indiscutibile riconoscimento di un divieto d’uso delle notizie intercettate in procedimenti diversi da quello nel quale sono state disposte. Lo stesso comma, tuttavia, introduce un’eccezione legata all’esigenza di non lasciare impuniti reati che legittimano l’arresto in flagranza obbligatorio. Tale deroga è stata giudicata costituzionalmente legittima riguardando casi eccezionali, predeterminati, tassativamente indicati dalla legge e presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale.

Va precisato, inoltre, che l’autorizzazione del giudice allo svolgimento delle operazioni di intercettazione non si limita a legittimare il ricorso a tale mezzo di ricerca della prova, ma circoscrive l’utilizzazione dei suoi risultati ai fatti-reato riconducibili alla stessa autorizzazione tenendo conto dei soggetti da sottoporre a controllo e dei reati per i quali si procede. Tale precisazione risulta essenziale affinché l’intervento giudiziale non si trasformi in una “autorizzazione in bianco”.

Il decreto del giudice costituisce, quindi, non solo il fondamento di legittimazione del ricorso all’intercettazione, ma anche il limite all’utilizzabilità probatoria dei relativi risultati ai soli reati riconducibili alla stessa autorizzazione.

Difatti, con l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi non sarebbe violato solo il diritto alla riservatezza di cui all’art. 15 Cost., ma si arriverebbe ad incidere sulla garanzia costituzionale della motivazione. Il vaglio preventivo del giudice, circa i presupposti per il rilascio del decreto, riguarderebbe, infatti, un altro contesto di indagine con la conseguenza che si perderebbe la possibilità di sindacarne il decreto autorizzativo.

I giudici di legittimità si sono occupati della questione con la sentenza n. 51 del 2.08.2020 interrogandosi sull’esatto significato da attribuire alla nozione di “diverso procedimento” da cui deriva l’applicazione o meno del peculiare regime previsto dall’art. 270 c.p.p.

La sezione rimettente ha evidenziato come sul thema decidendum sia insorto un contrasto  nella giurisprudenza di legittimità, essendosi delineati tre diversi orientamenti.

Il primo indirizzo, maggioritario, evidenzia la non coincidenza fra la nozione di “diverso procedimento” con quella di “diverso reato”.

Ciò posto, la diversità del procedimento che, ai sensi dell’art. 270 c.p.p., impedisce l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni (salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza), assume, per gli effetti che ne derivano sul piano della prova, carattere sostanziale e non può ricollegarsi a un dato di ordine meramente formale e casuale quale il numero di iscrizione nell’apposito registro delle notizie di reato.

La distinzione, pertanto, deve essere necessariamente riferita al contenuto della notitia criminis, vale a dire al fatto-reato in relazione al quale il pubblico ministero abbia svolto le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale.

Da ciò consegue che il procedimento è da considerarsi identico quando tra il contenuto dell’originaria notizia di reato, alla base dell’autorizzazione, e quello dei reati per cui si procede vi sia una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico, non potendosi risolvere nella mera esistenza di un collegamento di tipo fattuale ed occasionale.

Inoltre, tale orientamento ritiene che non si instaura un procedimento diverso nel caso in cui il pubblico ministero, opportunamente autorizzato alla riapertura delle indagini, provveda ad una nuova iscrizione ex artt. 414 comma 2 e 335 c.p.p. e, di conseguenza, possono legittimamente essere utilizzati i risultati delle intercettazioni già svolte.

Alcune delle decisioni di legittimità in linea con tale primo orientamento si sono interrogate, giungendo a conclusioni opposte, circa la necessità che il reato emerso nel corso dell’intercettazione rientri nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 c.p.p.

Una prima tesi ha affermato che qualora il mezzo di ricerca della prova sia legittimamente autorizzato all’interno di un determinato procedimento per uno dei reati di cui all’art. 266 c.p.p. i suoi esiti sono utilizzabili, senza alcun limite, per tutti gli altri reati relativi al medesimo procedimento, anche se per essi le intercettazioni non sarebbero state autonomamente consentite.

Per altro verso, è stato sostenuto che le risultanze concernenti fatti strettamente connessi a quello cui si riferisce il decreto autorizzativo  possono essere utilizzate solo nel caso in cui per il reato cui si riferiscono il controllo avrebbe potuto essere autonomamente disposto ex art. 266 c.p.p.

Un diverso filone interpretativo, che nel corso degli anni si è andato rafforzando, afferma che, a fronte di un provvedimento autorizzativo legittimamente emesso per uno dei reati contemplati dall’art. 266 c.p.p., le operazioni di intercettazione devono considerarsi utilizzabili per tutti i reati relativi al medesimo procedimento.

Viceversa, nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso ab origine l’utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri di indispensabilità e obbligatorietà dell’arresto in flagranza.

Si tratta, quindi, di un’interpretazione formale che considera “procedimento” quello contrassegnato da un certo numero di iscrizione nel registro della notizia di reato. Ne consegue che il dato dell’unitarietà iniziale del procedimento costituisce il limite dell’operatività del divieto d’uso previsto dall’art. 270 c.p.p.

Anche all’interno di tale filone interpretativo vengono a distinguersi due diversi orientamenti giurisprudenziali.

Un primo orientamento ritiene che i risultati delle intercettazioni telefoniche legittimamente acquisiti nell’ambito di un procedimento unitario sono utilizzabili per tutti i reati, anche se per taluno di essi le operazioni di captazione telefoniche non sarebbe autonomamente autorizzabile. D’altra parte non manca chi ritiene che i risultati delle intercettazioni telefoniche legittimamente autorizzate all’interno di un procedimento unitario siano utilizzabili per tutti i reati che ne sono oggetto, anche qualora lo stesso sia stato successivamente frazionato a causa dell’eterogeneità delle ipotesi di reato e dei soggetti indagati, a condizione che in relazione a tali reati sussistano le condizioni di ammissibilità ex art. 266 c.p.p.

Infine, stando ad un terzo indirizzo giurisprudenziale, al di fuori dei casi tassativamente indicati nell’art. 270 c.p.p., non è consentita l’utilizzazione delle risultanze emerse da intercettazioni telefoniche disposte in altro procedimento, neppure quando i due procedimenti siano strettamente connessi sotto il profilo oggettivo e probatorio.

Detto orientamento, sicuramente più restrittivo, pone, quindi, un’inscindibile correlazione tra il “procedimento” e la singola notizia di reato relativa ad un determinato e specifico fatto di reato.

Per la Suprema Corte in composizione allargata, al cospetto dell’art. 270, comma 1, c.p.p., il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse sono state autorizzate non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultano connessi ex art. 12 c.p.p. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta, sempre che rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge.

Nel complesso scenario delle preoccupazioni legate ad un uso indiscriminato di intercettazioni in procedimenti diversi che trasformando l’autorizzazione del giudice in una “autorizzazione in bianco”, si è reso necessario e improrogabile delineare l’esatta portata della nozione di “diverso procedimento” di cui all’art. 270 c.p.p. che risulti coerente tanto con i principi costituzionali quanto con quelli dettati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Il ricorso alle intercettazioni di comunicazioni, infatti, presentandosi come un’attività invasiva della altrui privacy rientra fra quelle limitazioni che l’art. 8 della Convenzione Europea ammette soltanto entro determinati limiti e condizioni. L’ingerenza della pubblica autorità deve essere regolata dalla legge e deve presentarsi come misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico. Pertanto, sebbene la disciplina delle intercettazioni prevista nel nostro codice sembri adeguarsi ai principi della Convenzione, qualche perplessità può avanzarsi sul disposto dell’art. 270 c.p.p. rispetto al quale si potrebbe verificare un inevitabile distacco fra l’uso probatorio del materiale intercettato e il provvedimento originariamente autorizzativo.

Difatti, venendo meno la relazione fra la motivazione che autorizza l’uso del materiale raccolto nel procedimento a quo e la motivazione richiesta per l’uso nel procedimento ad quem si aggira il passaggio obbligato costituito dalla verifica del giudice, con grave pregiudizio, tra l’altro, per gli interessi sostanziali tutelati dall’art. 266 c.p.p.

La previsione dei limiti di ammissibilità delle intercettazioni è espressione diretta ed indefettibile della riserva assoluta di legge ex art. 15 Cost. e consente di definire il perimetro legale all’interno del quale il giudice deve operare le valutazioni relative alla sussistenza dei presupposti dell’autorizzazione.

Appurata, quindi, la necessità del rispetto dei limiti di ammissibilità previsti ex art. 266 c.p.p., deve evidenziarsi che la diversità del procedimento deve essere intesa in senso sostanziale, riferibile al contenuto della medesima notizia di reato. Difatti, solo l’esistenza di una connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico tra il contenuto dell’originaria notizia di reato per la quale sono state disposte le intercettazioni e i reati per i quali si procede rende quest’ultimo reato riconducibile al provvedimento autorizzatorio e, dunque, in linea con l’art. 15 Cost. che vieta le “autorizzazioni in bianco”.

La connessione ex art. 12 c.p.p., infatti, riguarda procedimenti tra i quali esiste una relazione per cui la res giudicanda oggetto di ciascuno viene, anche in parte, a coincidere con quella oggetto degli altri. In tal caso, il procedimento relativo al reato per il quale l’autorizzazione è stata espressamente concessa non può considerarsi diverso ai sensi dell’art. 270 c.p.p. rispetto a quello relativo al reato accertato in forza dei risultati dell’intercettazione.

Analoghe considerazioni non possono estendersi all’ipotesi di collegamento occasionale ex art. 371, comma 2 lett. b), c.p.p. che risponde a esigenze di efficace conduzione delle indagini e non presuppone un necessario legame originario e sostanziale tale da condurre all’originaria autorizzazione anche il reato oggetto del procedimento connesso.

D’altronde sarebbe impensabile ricollegare la nozione di “diverso procedimento” unicamente a dati formali quali la materiale distinzione degli incartamenti relativi a due procedimenti o il loro diverso numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato. La formale unità dei procedimenti sotto un unico numero di registro generale, difatti, non può fungere da schermo per l’utilizzabilità indiscriminata delle intercettazioni, facendo convivere tra loro procedimenti privi di un reale collegamento.

Sarebbe altrettanto non condivisibile considerare la nozione di “procedimento” quale sinonimo di “reato”. Difatti, se così fosse si arriverebbe all’assurda ed irrazionale conclusione di considerare come diverso il procedimento iscritto nei confronti di una persona nota per un certo reato a seguito di intercettazioni disposte in un procedimento contro ignoti per quel medesimo fatto reato. Si arriverebbe, in tal caso, ad una disciplina che consente il ricorso all’intercettazione in un procedimento contro ignoti salvo poi precluderne l’utilizzabilità nei confronti dell’autore del reato identificato a mezzo di intercettazione.

Giova precisare come il Supremo Consesso non abbia posto in discussione l’orientamento, ormai consolidato, secondo cui il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali sono state disposte attiene solo alla valutazione di tali risultati come elementi di prova, ma non preclude la possibilità di dedurre dagli stessi notizie di nuovi reati[1]. Non si può, infatti, negare che esiste un obbligo da parte del pubblico ministero che venga a conoscenza di un fatto criminoso ad avviare delle indagini.

 

 

 

 

 


[1] Cass., 29 gennaio 2015, A., Foro it., Rep. 2015, voce Intercettazione di comunicazioni, n. 12536; 23 settembre 2014, S., ibid., n. 52503; 5 luglio 2013, B., Foro it., Rep. 2014, voce cit., n. 43434; 23 marzo 2011,b C., Foro it., Rep. 2011, voce Sentenza penale, n. 22736.

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Denise Lazzari

Avvocato in ambito civile e penale, abilitato alla professione forense dal 2018. Attualmente svolge la professione forense nel foro di Roma. Si laurea nel 2016 in Giurisprudenza presso l'Università del Salento con tesi sperimentale in procedura penale e diritto penale con titolo "Le indagini atipiche tra progresso tecnologico e diritti della persona". Svolge la pratica forense nella città di Brindisi approfondendo il diritto penale e civile dapprima presso uno studio legale per poi proseguirla presso l'Avvocatura Provinciale di Brindisi in qualità di praticante abilitato. Autore di diverse note a sentenze sia redazionali che con titolo su "Il Foro Italiano" e su "Diritto.it".

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