Divorzio: è sempre modificabile in corso di causa il quantum dell’assegno divorzile

Divorzio: è sempre modificabile in corso di causa il quantum dell’assegno divorzile

Cass. civ., Sez. VI-1, Ord. 21 ottobre 2021, n. 29290

La Corte di Cassazione ha stabilito che nel giudizio di divorzio, se, da un lato, la domanda di assegno deve essere proposta nel rispetto degli istituti processuali propri di quel rito, e quindi necessariamente contenuta nell’atto introduttivo del giudizio ovvero nella comparsa di risposta, tuttavia, dall’altro lato, deve escludersi la relativa preclusione nel caso in cui i presupposti del diritto all’assegno maturino nel corso del giudizio, in quanto la natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conseguenza del divorzio, così come quelli attinenti al regime della separazione, postulano sempre la possibilità di modularne la misura al sopravvenire di nuovi elementi di fatto.

Con questa significativa ordinanza la Corte Suprema, nel solco di un proprio consolidato orientamento[1], ritorna ad affrontare un aspetto formale del procedimento di divorzio che assume dei risvolti pratici ed applicativi particolarmente rilevanti, e cioè quello della legittimità di una richiesta di riconoscimento ovvero di modifica dell’assegno divorzile avanzata in corso di causa qualora i presupposti di fatto che la sostanzino si siano verificati in quel dato frangente processuale.

Per ben comprendere, dunque, i sottili passaggi interpretativi della decisione adottata dai Giudici di legittimità occorre rammentare che la vicenda in esame prende spunto dalla segnalazione, contenuta nell’atto di appello, con la quale la moglie evidenziava come il marito, solo dopo la proposizione del ricorso nel quale aveva dedotto di essere privo di reddito e di lavoro e nel corso del giudizio di primo grado e comunque prima della pronuncia di questo, si fosse intestata un’attività commerciale di famiglia, generando in tal modo una modifica delle sue originarie precarie condizioni economiche.

La stessa appellante, peraltro, rilevava in proposito come fosse venuta a conoscenza di tale sopraggiunta circostanza di fatto solo dopo la sentenza di primo grado e come ciò rendesse ammissibile la sua domanda di attribuzione di assegno divorzile avanzata per la prima volta in grado di appello e tale tesi è stata pienamente accolta dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza in commento.

In definitiva, dunque, i Giudici di legittimità non hanno fatto altro che applicare al procedimento speciale del divorzio quella che è la regola probatoria principale del nostro sistema processuale e che, appunto, consente l’ammissione di nuovi mezzi di prova o la produzione di nuovi documenti in grado di appello, ai sensi del chiaro disposto di cui all’ultimo comma dell’art. 345 c.p.c., solo in quanto gli stessi non siano producibili o conoscibili alla parte in primo grado “per causa ad essa non imputabile”[2].

Nel contesto, poi, del procedimento divorzile la conclusione oggi addotta dagli Ermellini assume un significato ancora più pregnante sotto il profilo giuridico e sostanziale, dal momento che gli stessi Giudici, richiamandosi a conformi precedenti pronunce[3], affermano testualmente che “questa Corte già da tempo ha enunciato il principio di diritto secondo cui, nel giudizio di divorzio, se, da un lato, la domanda di assegno deve essere proposta nel rispetto degli istituti processuali propri di quel rito, quindi dovendo essere necessariamente contenuta nell’atto introduttivo del giudizio ovvero nella comparsa di risposta, tuttavia, dall’altro, deve escludersi la relativa preclusione nel caso in cui i presupposti del diritto all’assegno maturino nel corso del giudizio, in quanto la natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conseguenza del divorzio, così come quelli attinenti al regime della separazione, postulano la possibilità di modularne la misura al sopravvenire di nuovi elementi di fatto”.

La Corte di Cassazione, quindi, ci fornisce un principio di diritto che anzitutto, per espressa sua indicazione, deve ritenersi applicabile sia nel procedimento di divorzio che in quello di separazione.

Tale precisazione, peraltro, per quanto possa sembrare scontata, in realtà non lo è poiché consente di trattare in maniera uniforme due fasi della più generale crisi coniugale che, come è noto, hanno regole procedurali differenti perché soggette a presupposti e conseguenze totalmente diversi ma che la Corte correttamente riporta nella loro unicità pur di assicurarne la effettività al punto da ritenere, giustamente, che il sopraggiungere di “nuovi elementi di fatto”, se verificatisi in corso di causa, debba essere sempre motivo di rivalutazione da parte del Giudicante.

Si tratta, del resto, della pratica applicazione sia del principio generale della economicità processuale che, e soprattutto, della regola, non a caso enunciata in questa occasione dalla Corte Suprema, del “rebus sic stantibus” che normalmente sfugge ai consueti paradigmi del nostro sistema giuridico.

La motivazione, infatti, che i Giudici di legittimità adducono a fondamento di tale regola è chiara e condivisibile poiché gli stessi testualmente affermano che “neppure può trovare applicazione l’istituto del giudizio di revisione L. n. 898 del 1970, ex art. 9, atteso che, nei procedimenti di separazione e divorzio, ove gli elementi di fatto che possono incidere sull’attribuzione e determinazione degli obblighi economici siano verificati in corso di causa, devono essere presi in esame nel corso del giudizio, in quanto governato dalla regola rebus sic stantibus, trovando applicazione l’istituto della revisione soltanto in relazione ai fatti successivi all’accertamento coperto da giudicato, dovendo, invece, le altre emergenze essere esaurite nei gradi d’impugnazione relativi al merito[4].

Effettivamente, in linea generale siamo portati concettualmente a rifiutare l’applicazione di tale regola perché comunemente collegata ai rapporti obbligatori o negoziali nell’ambito dei quali, appunto, come è noto, questa “clausola” o questo principio della rilevanza della sopravvenienza sono rigettati dal disposto normativo di cui all’art. 1134 c. c. e dal conseguenziale pensiero secondo il quale modificare i patti contrattuali equivalga a revocarli (almeno) parzialmente.

Nel caso in commento, però, ci troviamo in un contesto totalmente diverso quale è appunto quello, processuale, della crisi familiare nel quale, al contrario, la disamina ermeneutica che ci viene oggi offerta della Corte diviene perfettamente rispondente al dettato normativo che intanto consente l’utilizzo dello strumento processuale della revisione di cui al citato art. 9 solo in quanto vi sia alla base di esso un pronunciamento di merito ed i fatti che ne sostanzino la modifica siano intervenuti ex post e/o comunque al di fuori di quella determinata fase del giudizio cui sia riferito il provvedimento in questione[5].

Del resto non è un mistero che il problema della stabilità dell’assegno divorzile sia stato oggetto di complesse discussioni giurisprudenziali a conclusione delle quali è stato unanimemente affermato come detto assegno possa essere ridotto o revocato sulla base di una esplicita domanda di revisione da parte del soggetto obbligato, del tutto ammissibile in ossequio al principio che le sentenze di divorzio, in relazione alle statuizioni di carattere patrimoniale in esse contenute, passino in cosa giudicata “rebus sic stantibus” e siano suscettibili di modifica solo per la sopravvenienza di fatti nuovi, dal momento che quelli pregressi, e le ragioni giuridiche non addotte, restano esclusi per la regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile[6].

In definitiva, sia che si tratti di modifica delle condizioni economiche conseguenti a fatti nuovi emersi in corso di causa, che di procedimento di revisione di statuizioni già emesse, si conclama in ogni caso il teorema generale secondo il quale in questa materia non siano configurabili diritti definitivamente acquisiti in favore del soggetto al quale siano stati riconosciuti, anche con riferimento, in difetto di espresse distinzioni, alle ipotesi in cui l’assegno divorzile sia stato originariamente negato o addirittura nemmeno richiesto[7].

Possiamo dunque certamente concordare con chi, tra i Giudici di merito, afferma che “il matrimonio non è la strada per la sistemazione definitiva ma un’unione di affetti[8] che con il divorzio si estingue del tutto facendo sì che i coniugi ritornino ad essere persone singole e vengano conseguentemente a cessare tra loro tutti i rapporti patrimoniali basati sul fondamentale principio di solidarietà.

Non è, pertanto, un caso che sempre la Corte di Cassazione, quasi a voler testimoniare la dicotomia di applicazione di questo principio nel contesto degli istituti processuali di gestione della crisi coniugale rispetto a quello dei negozi o dei rapporti obbligatori, abbia stabilito che “E’ nulla per illiceità della causa la dichiarazione con la quale il coniuge gravato dell’assegno divorziale si impegni, nei confronti dell’altro coniuge, a non mettere mai in discussione l’importo dell’assegno stesso, in quanto l’art. 9 della Legge n. 898/1970, come modificato dall’art. 13 della Legge n. 74/1987, nel consentire in ogni tempo la revisione delle condizioni di divorzio, rende evidente che in tale ambito il giudicato è sempre “rebus sic stantibus”, ossia modificabile in caso di successive variazioni di fatto[9].

La ragione di ciò, del resto, è facilmente intuibile e risiede proprio nella natura di “diritto indisponibile” che sottende all’assegno di divorzio anche per il suo carattere assistenziale nonché nella caratterizzazione della materia rispetto alla quale le decisioni del giudice, collegate anche ad interessi di ordine generale, sono svincolate dal potere dispositivo delle parti.

Ovviamente, nel rilevare la bontà della tesi oggi espressa della Corte, non ci sfugge il problema della proponibilità o meno dei nuovi fatti di causa e dei relativi mezzi o elementi di prova che possano supportarli, in relazione alle notorie inibizioni che contraddistinguono l’attività probatoria delle parti in corso di causa e, come è avvenuto nel caso di specie, quelle che attengano specificatamente alla fase di appello.

Si tratta, tuttavia, di norme e prescrizioni di legge che comunque devono essere doverosamente rispettate dalle parti e che, di fatto, ne devono condizionare l’attività processuale, non potendo in alcun modo pretendere una diversa interpretazione dal momento che quella esplicita volontà che rinveniamo dalle sentenze della Corte di voler comunque privilegiare e difendere la pienezza del giudicato per giungere ad una decisione degli assetti economici e patrimoniali dei coniugi quanto mai completa, corretta e corrispondente alla realtà non potrebbe mai pregiudicare i fondamenti che disciplinano il nostro processo e, segnatamente, quelli che regolamentano l’esercizio del potere-dovere probatorio disciplinato dagli artt.115 e 116 c.p.c.

 

 

 

 

 


[1] Vedi per tutte Cass. Civ. Sez. Prima – Sottosezione 1 – ord. n. 174 del 09.01.2020
[2] La regola è meglio nota come divieto assoluto dello “ius novorum” in appello
[3] Vedi per tutte Cass. n. 3925 del 12 marzo 2012
[4] La Corte in proposito richiama la propria pronuncia n. 174 del 2020
[5] Analogamente, si vedano anche gli artt. 155 ter c.c. relativo ai rapporti tra genitori e figli, e 156 ultimo comma c.c. in ordine ai rapporti patrimoniali tra coniugi
[6] Vedi Cass. 12.01.2017 n. 683, Cass. 03.02.2017 n. 2953 e Cass. 20.06.2017 n. 15328 e, conformi, anche Cass. 25.08.2005 n. 17320, Cass. 03.08.2007 n. 17041, Cass. 17.06.2009 n. 14093, Cass. 18.07.2013 n. 17618 e Cass. 01.07.2015 n. 13154.
[7] Cass. 02.11.2004 n. 21049, Cass. 02.02.2006 n. 2239 e Cass. 21.05.2008 n. 13508.
[8] Corte di Appello di Salerno sentenza n. 29 del 26 giugno 2017
[9] Cass. Civ. Sezione Prima – sent. n. 22505 del 04.11.2010

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Nata a Lecce nel 1963 e conseguita la Laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Siena con la votazione di 110/110, svolge da subito la pratica legale presso uno studio di Milano abilitandosi all’esercizio della professione forense nel 1991 e nello stesso anno diventa titolare dello studio già avviato dal padre Avv. Renato da cui eredita, oltre alle qualità umane, l’inclinazione per il Diritto Civile, operando prevalentemente in tutto il Salento. All’iniziale interesse per il Diritto di famiglia e dei minori si affianca l’approfondimento di altre branche del diritto privato, quali il Diritto Commerciale e la sicurezza sul lavoro, complice anche l’espletamento di ulteriori incarichi quali quelli di Giudice Conciliatore e di Mediatore Professionista. La sua attività professionale si estende nel tempo anche al campo dei diritti della persona e tutela degli stessi e l’acquisizione di una crescente esperienza in materia di privacy e sicurezza sul lavoro la incita ad incrementare l’impegno riposto nell’aggiornamento continuo. Particolare rilevanza assume anche lo svolgimento dell’attività di recupero crediti nell’interesse di privati e società, minuziosamente eseguita in ogni sua fase, nonché quella per la tutela del debitore con specifica attenzione alla nuova disciplina in materia di sovraindebitamento. Dal 1990 è docente di Scienze Giuridiche ed Economiche presso gli Istituti ed i Licei di Istruzione Superiore di Secondo Grado, attività che svolge con passione e che, per il tramite della continua interazione con le nuove e le vecchie generazioni, le agevola la comprensione dei casi e delle fattispecie a lei sottoposte, specie nell’ambito del diritto di famiglia. E’ socio membro di FEDERPRIVACY, la più accreditata, a livello nazionale, Associazione degli operatori in materia di privacy e Dpo. Dà voce al proprio pensiero per il tramite degli articoli pubblicati sul proprio sito - SLS – StudioLegaleSodo (www.studiolegalesodo.it) nonché attraverso i rispettivi canali social ( FaceBook e LinkedIn ) ed è autrice di vari articoli e note a sentenza su riviste telematiche del diritto di primario interesse nazionale.

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