Dovere d’informativa del medico: l’obbligo di denuncia all’autorità sanitaria delle diagnosi di Hiv e Aids

Dovere d’informativa del medico: l’obbligo di denuncia all’autorità sanitaria delle diagnosi di Hiv e Aids

Con il Decreto Ministeriale del 28 novembre 1986 (Gazzetta Ufficiale n. 288 del 12 dicembre), l’Aids è divenuta in Italia una malattia infettiva a notifica obbligatoria. Dal 1987, il Sistema di sorveglianza è gestito dal COA (Centro Operativo Aids). In collaborazione con le Regioni, il COA provvede alla raccolta e archiviazione nel Registro Nazionale Aids (RNAids), all’analisi periodica dei dati e alla pubblicazione e diffusione di un rapporto annuale.

Ancora una volta il nostro Paese appare del tutto incapace di poter autonomamente attagliare alla realtà dei fatti il proprio ordinamento giuridico-amministrativo. Il sistema nazionale di sorveglianza delle nuove diagnosi di infezioni da Hiv è stato difatti attivato in Italia soltanto nel 2008, ben 29 anni dopo la creazione di quello relativo all’Aids.

Tale sistema è stato istituito dal Decreto Ministeriale del 31 marzo 2008, per rispondere alle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dell’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC). Non è agevolmente intuibile la motivazione che ha spinto il nostro Paese a colmare tale vulnus soltanto dopo quasi 30 anni dalla creazione del primo “Sistema Aids”, il quale, per la natura e la causa della malattia, sarebbe dovuto a rigor di logica nascere successivamente a quello per l’Hiv, e non, come invece è nei fatti successo, precedentemente. L’Italia ha dimostrato, ancora una volta, totale inerzia e colposo stallo amministrativo, ai quali hanno sopperito gli interventi di autorevoli organismi internazionali (OMS e ECDC) come da routine anche recente.

Il Garante per la Protezione dei Dati Personali ha sottolineato che i dati anagrafici di persone sieropositive o affette da Aids devono essere conservati in maniera separata da quelli sanitari. Tra l’altro, nel caso in cui questi ultimi siano contenuti in elenchi, registri e banche dati devono essere trattati attraverso specifiche tecniche di cifratura o sistemi che consentono di identificare gli interessati solamente in casi di estrema necessità ed urgenza [1]. I soggetti pubblici e privati che trattano dati personali, soprattutto quelli sanitari, sono tenuti ad adottare e rispettare misure minime di sicurezza. Quanto appena detto è stato rinforzato dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali nell’ambito di un parere emesso su richiesta della Lega italiana per la lotta all’Aids (LILA) in merito all’applicazione delle norme che regolano la tutela della privacy rispetto alla sorveglianza epidemiologica dei casi di infezione da Hiv e all’obbligo di denuncia dei casi di Aids conclamato.

Nello specifico, è stato osservato che la normativa italiana in materia di privacy non ha abrogato le disposizioni contenute nella previgente legge 135/1990 sulla lotta all’Aids, la quale prevede da una parte che “nessuno può essere sottoposto, senza il suo consenso ad analisi tendenti ad accertare l’infezione da Hiv, salvo che per motivi di necessità clinica e nel proprio interesse” e, dall’altra parte “che la rilevazione statistica della infezione da Hiv deve comunque essere effettuata con modalità che non consentano l’identificazione della persona”.

Il medico che si trova in contatto con un caso di Aids conclamato ha il dovere di compilare una specifica scheda di notifica in triplice copia in cui sono contenuti i dati anagrafici del paziente. Una copia deve essere inviata all’Assessorato regionale alla Sanità, un’altra al COA e l’ultima rimane invece al medico che effettua la notifica. Le informazioni riprodotte sulla scheda hanno ovviamente carattere fortemente confidenziale e saranno utilizzate solamente ai fini di sorveglianza epidemiologica. Le generalità del paziente dovranno risultare esclusivamente nella copia inviata al COA. Parimenti, il medico che diagnostichi un nuovo caso di infezione da Hiv soggiace a tale obbligo di denuncia all’autorità sanitaria, con la sola differenza che la notifica garantisce in ogni caso l’anonimato poiché il nominativo viene crittografato. Ogni Regione ha stabilito un apposito modulo standardizzato certamente utile ad evitare lacune o ridondanze, tuttavia permane il deficit della parziale informatizzazione poiché soltanto metà delle Regioni italiane utilizzano a tal fine lo strumento informatico. Ciò inevitabilmente causa ritardi di notifica e disomogeneità evidenziate dallo stesso dicastero della Salute.

Ben note sono le cause che hanno spinto il Legislatore a prevedere, a carico del medico, specifici obblighi di denuncia alle Autorità amministrative e/o sanitarie. Protezione sociale e tutela della collettività rientrano certamente tra i fini perseguiti mediante le due denunce suesposte, essendo stato correttamente ritenuto prevalente l’interesse del “gruppo” rispetto a quello del “singolo” anche ex art. 32 c.1 Cost., come da recente pronuncia della Corte Costituzionale (Sentenza 5/2018 – Pres. Grossi Rel. Cartabia – Ud. 22/11/2017 – Dep. 18/01/2018) in merito alla sterile e abietta polemica antiscientifica sull’obbligo vaccinale.

Sono certamente da considerare, tali obblighi informativi, quali giuste cause di rivelazione del segreto professionale. Succitati doveri, le cui omissioni o ritardi comportano peraltro sanzioni amministrative o penali, inoltre, trovano ragion d’essere solo e soltanto nella diretta acquisizione delle notizie nell’esercizio della professione. Al contrario, il medico che abbia in cura un paziente affetto da Hiv ha l’obbligo di mantenere segreta tale diagnosi nei confronti dei familiari del soggetto, anche a quelli a lui più stretti, ma non solo. È difatti tenuto a mantenerla segreta anche qualora il paziente presenti scarsa aderenza alla terapia o, perfino, totale rifiuto di essa, dunque anche se si prospetti, come imminente e concreto, il pericolo che il soggetto possa contagiare altre persone eventualmente ignare. Tutto ciò è corroborato anche dall’impossibilità di sottoporre il paziente che rifiuti le cure – e che, quindi, sia contagioso – a trattamento sanitario obbligatorio (TSO).

In caso di rapporti l’unica condotta doverosamente richiesta alla persona che sia infetta dal virus Hiv (o da altre malattie a trasmissione sessuale) e che ne abbia già contezza, è quella di utilizzare il preservativo allo scopo di evitare il contagio. Degna di nota è l’iniziativa “partner notification e contact tracing”. Nel caso di rapporti occasionali la persona affetta da Hiv potrebbe avvalersi del summenzionato servizio il quale consente all’operatore sanitario – previa autorizzazione del paziente stesso – di contattare il/i partner coinvolto/i al fine di metterlo/i al corrente del rischio che si è già corso, a patto che non venga in alcun modo rivelata l’identità del paziente richiedente il servizio stesso.

L’inviolabilità del segreto nella pratica professionale medica è legato all’esigenza di tutela dell’intimità dell’individuo ed è protetto dal Codice Penale all’art. 622, dal Codice di Deontologia Medica agli artt. 10-11-12 e dal Codice della Privacy. Le situazioni che possono scaturire da un siffatto sistema sono molteplici ed intricate. Meritevole di menzione è il contrasto tra l’art. 200 del Codice di Procedura Penale e l’art. 10 del Codice di Deontologia medica, laddove il primo dispone che “non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria […] i medici chirurghi , i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria”, mentre il secondo specifica che “il medico non deve rendere al Giudice testimonianza su fatti e circostanze inerenti il segreto professionale” [2].

Dunque sarebbe per il medico deontologicamente scorretto, quindi sanzionato disciplinarmente, fornire durante una testimonianza delle informazioni cliniche segrete che lo stesso abbia ottenuto in ragione del rapporto professionale con il paziente. Particolarmente interessanti sono anche le condizioni di antigiuridicità e punibilità della condotta. La norma penalistica difatti richiede che sussistano le seguenti condizioni: che il segreto sia stato appreso in ragione della professione, che si stato rivelato senza giusta causa ovvero a proprio o altrui profitto e che la rivelazione possa provocare un nocumento al paziente; con la naturale conseguenza che i fatti già notori o conosciuti o conoscibili, nonché quelli inidonei a provocare nocumento, non sono colpiti da illiceità penale ex art. 622. La norma deontologica, pur rendendo necessario il rapporto tecnico che lega l’apprendimento di un fatto con l’esercizio della professione, al contrario non prevede le due ulteriori condizioni di cui sopra; pertanto risponderà disciplinarmente il medico che abbia divulgato tutto ciò che gli sia stato in precedenza confidato dal paziente o che egli abbia potuto conoscere in ragione della prestazione professionale.

Contribuisce a mitigare tale contrasto lo stesso art. 10, comma 4, del Codice Deontologico, laddove si prevede che una “giusta causa” possa ammettere la rivelazione stessa, da identificarsi in norme imperative (artt. 331 e 334 c.p.p. obbligo di “denuncia” e di “referto”, notifiche e certificazioni obbligatorie) enorme scriminative/permissive (consenso dell’avente diritto, caso fortuito, stato di necessità, costringimento mediante inganno, violenza, errore e forza maggiore).

E’ da ritenersi che, nel processo penale, le perizie e le consulenze tecniche nonché l’esame del professionista sanitario incaricato – ordinate e/o richieste dalle “parti” e dai “soggetti” processuali – debbano rientrare (a livello deontologico) nel concetto di “cause imperative” poiché vi è un obbligo tassativo di rivelazione dell’obiettività apprezzata dal clinico, espressamente previsto dal legislatore mediante norme di legge che ritengono prevalenti gli interessi della collettività rispetto a quelli del singolo individuo.


[1] GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI, Aids: vanno rafforzate garanzie e misure di sicurezza sui dati sanitari, 2000.
[2] BATTIPAGLIA G., DI GUIDA R., Il dovere d’informativa del medico: obbligo di denunce, in DE FERRARI F., PALMIERI L. Manuale di medicina legale. Per una formazione, per una conoscenza, Giuffrè, Milano, 2007

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Enrico Tranquilli

Laurea Magistrale in Giurisprudenza conseguita cum laude presso l'Università degli Studi di Camerino. Praticante avvocato abilitato al patrocinio sostitutivo. Tirocinante Uffici Giudiziari. https://www.linkedin.com/in/enricotran

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