“È bello doppo il morire vivere anchora”

“È bello doppo il morire vivere anchora”

Aspetti di diritto domestico e comparato in tema di criminalizzazione dell’aiuto al suicidio

Numerose e fonte di ampio dibattito sono state le pronunce intervenute negli ultimi mesi in tema di eutanasia e suicidio medicalmente assistito.

Le decisioni si segnalano per l’innovatività, sul piano tecnico, delle soluzioni giuridiche adottate e per la progressiva depenalizzazione delle fattispecie di eutanasia.

In Italia, senza volere in questa sede ripercorrere le tappe di una lenta evoluzione della giurisprudenza a partire dal caso Welby passando per la vicenda Englaro, il tema è stato di recente nuovamente affrontato in relazione alla scomparsa di Dj Fabo, alias Fabiano Antoniani, con conseguente remissione alla Consulta della questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. che punisce con la reclusione da cinque a dodici anni chiunque rafforza o agevola l’altrui proposito suicidiario.

La decisione della Corte si segnala, anzitutto, per l’innovatività del metodo decisorio (che ha fatto “storcere il naso” a molti commentatori) che si è sviluppato in un’inedita commistione tra tecnica della cosiddetta “doppia pronuncia” (Ordinanza 207/2018 e Sentenza 242/2019) con assegnazione di un termine al Parlamento per l’adozione di una legge ad hoc inutilmente spirato, e meccanismo della incostituzionalità “differenziata” finalizzata a distinguere gli effetti della (parziale) declaratoria di illegittimità tra condotte verificatesi prima dell’intervento del Giudice delle Leggi e condotte poste in essere successivamente.

Quanto al merito della questione rimessa al vaglio della Corte, la soluzione si prospetta altrettanto originale.

La Consulta non ha, si badi bene, dichiarato d’embée incostituzionale l’art. 580 c.p., ma ne ha ridefinito l’ambito di applicazione attraverso “il meccanismo di riduzione dell’area di sanzionabilità penale che non opera come scriminante, ma incide sulla struttura oggettiva della fattispecie” (cfr. Corte di Assise di Milano, n. 8/2019 del 30.01.2020).

In definitiva, la Corte ha ristretto l’area del penalmente rilevante individuando quattro condizioni al ricorrere delle quali la condotta di aiuto al suicidio non appare meritevole di sanzione: a) sussistenza di una patologia irreversibile; b) situazione di grave sofferenza fisica o psicologica; c) dipendenza da trattamenti di sostegno vitale; d) capacità di assumere decisioni libere e consapevoli.

La verifica della effettiva sussistenza di tali condizioni è demandata alle procedure medicalizzate di cui alla L. 219/2017, in materia di Disposizioni Anticipate di Trattamento, che vengono mutuate in quanto ben si prestano “a dare risposta a buona parte delle esigenze di disciplina poste in evidenza nell’ordinanza n. 207/2018” (cfr. sentenza 242/2019) onde prevenire facili abusi.

Quanto al passato, dovrà essere valutata dal Giudice di merito l’adozione di procedure equipollenti volte a garantire che: “a) le condizioni sopra indicate siano state adeguatamente verificate in ambito medico; b) la volontà sia stata espressa in modo chiaro e univoco; c) al paziente sia stata adeguatamente illustrata e prospettata la possibilità di porre fine alla propria vita mediante la sedazione profonda e l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale” requisiti che sono stati ritenuti tutti integrati nella vicenda relativa a Dj Fabo (cfr. Corte di Assise di Milano, n. 8/2019 del 30.01.2020).

Nel solco di questa pronuncia, si è andata invero recentemente ad inserire la sentenza della Corte Costituzionale tedesca resa lo scorso 27.02.2020 nell’ambito di un ricorso promosso da associazioni specializzate nell’assistenza al suicidio che hanno denunciato l’illegittimità dell’art. 217 del Codice Penale tedesco (StGB) che introduce limitazioni in materia di “sostegno professionale” al suicidio.

Nel dichiarare la non conformità a Costituzione della disposizione in commento, la Corte Costituzionale tedesca prende le mosse dai medesimi principi già enucleati dalla nostra Corte Costituzionale spingendosi tuttavia oltre e arrivando a sancire la legittimità dell’eutanasia attiva.

Il ragionamento del Supremo Giudice tedesco si concentra sul principio di autodeterminazione individuale che non può che riguardare, a suo dire, le decisioni che involgono la vita stessa dell’individuo (§ I.1.a), né può essere circoscritto al mero diritto al rifiuto del trattamento sanitario (§ I.1.aa) o operare solo in presenza di patologie invalidanti (§ I.1.bb). Viene, quindi, esplicitamente riconosciuto un “diritto al suicidio” che in quanto tale costituisce espressione, sia pure terminale, del principio di autodeterminazione (§ I.1.cc), costituzionalmente presidiato, la cui compressione attraverso norme di incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere tollerata (§ I.3.bb).

Naturalmente non potranno che essere pienamente legittime e, anzi, auspicabili, prosegue ancora la sentenza, le norme che il Legislatore vorrà introdurre al fine di prevenire eventuali abusi, purché tali norme siano finalizzate esclusivamente (§ I.3.bb): a) a tutelare l’autodeterminazione del singolo da influenze esterne; b) ad estendere e agevolare l’accesso alle cure palliative pur senza introdurre alcun obbligo di farvi preventivamente ricorso; c) a disciplinare l’obiezione di coscienza da parte del personale sanitario; d) ad individuare specifici servizi di assistenza volti a fornire idonee informazioni, ad indirizzare verso apposite strutture autorizzate, nonché a facilitare, ove necessario, l’approvvigionamento di sostanze a cessione controllata.

La pronuncia in commento, letta unitamente alla precedente decisione resa sul tema dalla nostra Corte Costituzionale, lascia presagire un progressivo superamento dei principi stabiliti nella sentenza Pretty Vs Regno Unito (Corte E.D.U. Caso 2346/2002 – § 40) e riassunti dalla Suprema Corte di Cassazione nella storica sentenza Englaro in cui si dà conto del fatto che: “l’art. 2 della C.E.D.U. protegge il diritto alla vita, senza il quale il godimento di ciascuno degli altri diritti o libertà contenuto nella Convenzione diventa inutile, precisando che tale disposizione non può […] creare un diritto di autodeterminazione nel senso di attribuire all’individuo la facoltà di scegliere la morte piuttosto che la vita” (cfr. Cass. Civ., n. 21748/2007 – § 6).

La tematica, anche per le complesse implicazioni etiche e morali che involge, è in costante evoluzione tuttavia non si può negare che i pronunciamenti di cui si è cercato di dare conto si muovono tutti nell’ottica, fino a qualche anno fa nemmeno ipotizzabile, di allargare le maglie dell’ordinamento verso il riconoscimento della liceità di forme controllate di eutanasia attiva, aspetto sul quale un confronto aperto e responsabile nelle sedi istituzionali risulta ora più che mai opportuno e necessario.


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