Espropriazione, occupazione senza titolo di suoli per pubblica utilità e poteri acquisitivi della pubblica amministrazione

Espropriazione, occupazione senza titolo di suoli per pubblica utilità e poteri acquisitivi della pubblica amministrazione

Sommario: 1. L’espropriazione e la sua natura giuridica – 2. Le fonti normative e le fasi del procedimento – 3. Acquisizioni senza decreto di esproprio – 4. Dall’occupazione acquisitiva all’art. 42-bis d.P.R. 327/01 – 5. L’esproprio successivo – 6. La recente giurisprudenza e conclusioni

 

1. L’espropriazione e la sua natura giuridica

Al fine di poter fornire una disamina completa dei poteri acquisitivi della pubblica amministrazione è necessario partire dall’analisi del metodo principale di acquisizione della proprietà utilizzato nel territorio nazionale: l’espropriazione per pubblica utilità.

Rappresentazione della potestà ablatoria della pubblica amministrazione, con essa si acquistano beni di proprietà privata all’esito di un procedimento disciplinato dalla legge e sulla base di un interesse pubblico in cambio della corresponsione di un equo indennizzo, incidendo su una situazione giuridica privata comprimendola e limitandola in modo unilaterale.

Istituita in Italia con la Legge n. 2359 del 1865[1], ha seguito parallelamente l’evoluzione della disciplina sulla proprietà adattandosi sempre di più alle varie esigenze del nostro ordinamento : difatti tale rapporto fra i due istituti è ravvisabile sin dal Codice Pisanelli del 1865, il quale  definiva il diritto di proprietà come un diritto assoluto, condizionato solo alla possibilità di esproprio previa corresponsione di un indennizzo individuabile nel prezzo che quell’immobile avrebbe avuto se venduto privatamente.

Con l’avvento della Costituzione nel ‘48 e del Codice Civile del 1942 questi due istituti hanno trovato una nuova regolamentazione. Rispettivamente si fa riferimento all’art. 42[2] della Costituzione sancendo nel comma 2 la funzione sociale della proprietà e circoscrivendo nel comma 3 l’esperibilità dell’espropriazione nei soli casi previsti dalla legge, per motivi di interesse generale e retro indennizzo, garantendo il legislatore in tal modo una tutela massima ai due istituti precludendo facili modifiche normative attraverso legge ordinaria. Altresì attraverso il Codice Civile ha condizionato dapprima il diritto di proprietà ai limiti imposti dall’ordinamento giuridico con l’art. 832 c.c.[3] e successivamente ha codificato all’art. 834 c.c.[4] la possibilità di essere privati di tale diritto per motivi di interesse pubblico.

Dall’esame delle suddette fonti risultano limpidi i tre presupposti chiave sui quali si fonda l’espropriazione: la riserva di legge, che limita la possibilità da parte della pubblica amministrazione di utilizzare tale istituto esclusivamente “nei casi previsti dalla legge”, escludendo ogni possibilità di iniziativa autonoma;  i motivi di interesse generale, condizione indefettibile che sancisce la motivazione per la quale il diritto di proprietà privato si contrae al cospetto di un interesse pubblico legalmente dichiarato attraverso una dichiarazione di “pubblica utilità”; e infine l’indennizzo corrisposto da parte dell’espropriante a fronte della perdita del diritto di proprietà privato.

Punctum saliens riguarda la natura giuridica dell’indennizzo, discorso intorno al quale negli anni si è avuto un intenso dibattito nel panorama giuridico che ha infine portato gli operatori del diritto ad essere concordi sul pacifico riconoscimento in capo al privato di un diritto soggettivo all’indennità.

Come anticipato, all’esito del procedimento di esproprio, lo Stato acquisisce il bene dal privato: anche qui è sorta in dottrina una vexata quaestio circa la natura dell’effetto traslativo che si produce a seguito del suddetto trasferimento. Una prima tesi, ad oggi più suffragata, avallava l’ipotesi dell’acquisto della proprietà da parte della pubblica amministrazione a titolo originario in quanto ricondotta alla demanialità del bene una volta entrato nel patrimonio statale, oppure perché acquisito libero da ogni vincolo giuridico; a contrario una seconda tesi vedeva l’espropriazione come un modo di acquisto della proprietà a titolo derivato in quanto l’acquisto del bene non avviene istantaneamente a titolo demaniale, ma solo nel momento in cui si realizza l’opera pubblica, a fortiori del suo scopo pubblico[5].

2. Le fonti normative e le fasi del procedimento

Prima di passare ad analizzare la fonte normativa oggi vigente nel nostro ordinamento, è doveroso allargare l’orizzonte di analisi ad un panorama trans-nazionale citando a limine il Protocollo Addizionale alla Carta Europea dei Diritti Umani del 1952, il quale nel suo art. 17 [6] ha stabilito che “nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di utilità pubblica[7]”.

Nel nostro ordinamento pietra miliare è rappresentata dal d.P.R. 327 del 2001, rubricato “Testo unico delle espropriazioni per pubblica utilità”, costituendo dunque la fonte primaria in materia. Ratio legis di tale normativa consta nel creare un ordine sistematico delle norme di settore già in vigore apportando, al tempo stesso, delle innovazioni in subiecta materia.

Analizzando il d.P.R. si può subito constatare come il legislatore abbia voluto in prima battuta mettere in risalto i principi fondamentali nel nostro ordinamento: nei commi 1 e 2 dell’art. 2 [8] il principio di legalità ed il principio di buon andamento della pubblica amministrazione; e negli articoli 1 e 3 il circoscrivere l’espropriazione in due ambiti ben delineati, l’ambito oggettivo e quello soggettivo. Il primo ambito limita l’espropriazione permettendo il suo esperimento sia sulla proprietà di beni immobili che sui diritti reali limitati sugli immobili, quali la servitù o l’uso; in tema l’art 7 elenca tassativamente i beni che la pubblica amministrazione può espropriare e l’art. 4 ne limita la portata definendo quelli non espropriabili e quelli espropriabili solo a determinate condizioni (beni del patrimonio indisponibile, gli immobili della Santa Sede, edifici di culto).

Circa l’ambito soggettivo, invece, l’art. 3 sancisce i soggetti coinvolti nella procedura, ravvisando nell’espropriante il soggetto passivo dell’espropriazione, il titolare della proprietà espropriata; nell’autorità espropriante la pubblica amministrazione, titolare del potere di espropriazione; nel beneficiario dell’espropriazione il soggetto in favore del quale è emesso il decreto di esproprio e nel promotore dell’espropriazione il soggetto pubblico che richiede l’espropriazione.

Il procedimento volto all’ottenimento del provvedimento di esproprio, sin dalla sua prima previsione normativa del 1865, si snodava in quattro fasi. Prima fra tutte la dichiarazione di pubblica utilità, presupposto e condizione essenziale del procedimento nel quale la pubblica amministrazione definiva l’opera pubblica ed esponeva le motivazioni dell’esproprio, seguiva il piano particolareggiato di esecuzione, continuava con l’offerta dell’indennità commisurata al valore del bene che avrebbe avuto se fosse stato venduto privatamente e terminava con l’ottenimento del decreto di esproprio a firma del Prefetto[9].

Ad oggi, raffrontando l’assetto procedurale odierno previsto dall’art. 8 del d.P.R. 327/01[10] con quello testé descritto, si può constatare come non si sia discostato di molto da quello del 1865 : difatti il nuovo procedimento consta anch’esso di quattro fasi, dove la più significativa si ravvisa nella prima fase atta a prevedere il del vincolo preordinato all’esproprio, fase importantissima che costituisce una condizione di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità di valenza quinquennale ed assolve al compito di individuare con precisione il luogo sul quale l’opera pubblica verrà realizzata.

Fa seguito a questa la dichiarazione di pubblica utilità che -contrariamente al vincolo urbanistico che ha carattere generale- ha la particolarità di essere specifica per l’opera che si deve realizzare, avendo anch’essa valenza quinquennale a decorrere dalla data in cui l’atto che ne dichiara la pubblica utilità diventa efficace. Pertanto essa rappresenta il perno centrale del procedimento di espropriazione in quanto al suo interno sono contenuti tutti gli elementi essenziali che permettono l’esperimento di tale potere da parte della pubblica amministrazione: contiene segnatamente il progetto, tutti gli elementi di questo, le modalità esecutive e tutti gli aspetti specifici dell’opera realizzanda.

La terza fase mira alla determinazione in via provvisoria dell’indennità ed è proposta dalla pubblica amministrazione al privato, proprietario del bene immobile da espropriare. Sul punto la disciplina ha subito diverse modificazioni nell’arco della vita dell’istituto espropriativo: dal criterio del valore venale (pari al prezzo che il bene avrebbe avuto in una libera contrattazione di compravendita, disciplinato nella L. 2359 del 1865), si è giunti al criterio sancito dalla legge finanziaria del 2008 che ha modificato il testo normativo del d.P.R. 327/01 art. 37 co 1 e 2 e prevedendo l’indennità di espropriazione ora determinata al valore venale del bene con la previsione di una riduzione del 25% di questa nel caso di espropriazione col fine di interventi di riforma economico sociale.

L’ultimo step del procedimento de quo è il decreto di esproprio che rappresenta il provvedimento traslativo della proprietà in capo alla pubblica amministrazione, sacrificando il diritto di proprietà del soggetto passivo in cambio della corresponsione dell’indennizzo la cui quantificazione è già presente nel corpo del decreto stesso. Una importante novità questa rispetto al passato.

Competente all’emanazione del decreto è il soggetto espropriante la cui efficacia è subordinata alla sua notifica ed alla sua esecuzione: quest’ultima condizione, che consiste nella semplice immissione nel possesso da parte della pubblica amministrazione nel bene immobile, deve essere svolta nel termine perentorio di due anni in quanto, se così non fosse, decadrebbe l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità. In virtù di tale preclusione, il legislatore, alla luce del principio di economicità dell’azione amministrativa, per evitare che si debbano ripercorrere fasi procedimentali già espletate, ha dato la possibilità nell’ultimo comma dell’art. 24, entro i 3 anni successivi, di emettere una nuova dichiarazione, anch’essa connotata di valenza quinquennale.

Una differente conclusione della procedura espropriativa, che rappresenta di per se un metodo ulteriore di acquisitivo della proprietà da parte della pubblica amministrazione, è rappresentata dalla cessione volontaria prevista dall’art. 45 del d.P.R.[11] in esame. Questa procedura consta in un sub-procedimento, esperibile dal momento in cui viene effettuata la dichiarazione di pubblica utilità, fino al decreto di esproprio e vede in contraddittorio le parti (privato e pubblica amministrazione) col fine di cedere, attraverso un negozio giuridico bilaterale, il bene oggetto di espropriazione. Tale istituto, che provoca il trasferimento della proprietà dal privato alla pubblica amministrazione con una maggiorazione premiale dell’indennizzo, è equiparato al decreto di esproprio e deve quindi ritenersi che si realizzi un acquisto a titolo originario.

3. Acquisizioni senza decreto di esproprio

Nel nostro ordinamento sono regolate situazioni particolari che prevedono la possibilità di entrare in possesso di beni in assenza del decreto di esproprio ed i casi possono essere sia legati al procedimento espropriativo che legati a questioni esterne a questo, quali forza maggiore o assoluta urgenza.

Circa la prima categoria, si fa riferimento all’occupazione strumentale prevista dall’art. 49 del testo unico con la quale la pubblica amministrazione può occupare aree non soggette al procedimento ai fini dell’esecuzione di lavori concernenti all’altro suolo da espropriare. Per quanto riguarda le situazioni rientranti nella seconda categoria ci si riferisce all’occupazione d’urgenza prevista dall’art. 22-bis che può intervenire successivamente alla dichiarazione di pubblica utilità, ma prima del decreto di esproprio.

L’articolo citato prevede la possibilità di emanare un provvedimento di occupazione di urgenza preordinato all’esproprio, quindi una mera anticipazione della fase di immissione del possesso. Tale provvedimento è soggetto a termine di efficacia, in quanto, se nel corso dei 5 anni successivi non viene emanato il decreto di esproprio, la dichiarazione di pubblica utilità e tutto il procedimento espropriativo decadono.

Nel sistema previgente, afferente alla legge n. 2359 del 1865[12], qualora si fosse concretizzata una situazione come quella testé descritta, si sarebbe verificato il reimpossessamento del bene da parte del privato e quest’ultimo avrebbe potuto richiedere il risarcimento danni non solo per il periodo del suo mancato godimento del bene, ma anche per la possibile trasformazione irreversibile effettuata da attività della pubblica amministrazione dei beni occupati illegittimamente. Tale situazione -a dir poco paradossale- nel silenzio legislativo era stata anche addolcita da parte della giurisprudenza che aveva consentito che ci potesse essere un decreto di esproprio tardivo anche dopo la scadenza dei 5 anni della dichiarazione di pubblica utilità. Tale soluzione non fu però dirimente in quanto la pubblica amministrazione poteva anche non emanare il decreto di esproprio dopo i termini e quindi il problema era comunque presente e non risolto[13].

4. Dall’occupazione acquisitiva all’art. 42-bis d.P.R. 327/01

In tale contesto legislativo si colloca la nascita dell’istituto di creazione pretoria dell’occupazione acquisitiva con la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n.1464/83[14] grazie alla quale la pubblica amministrazione, che per la realizzazione di un’opera pubblica occupava un suolo privato in modo illegittimo per assenza del provvedimento autorizzativo, aveva la possibilità di acquistare a titolo originario la proprietà per effetto di una occupazione acquisitiva.

La Corte attraverso questa sentenza crea un nuovo metodo di acquisto di proprietà ispirandosi all’istituto civilistico dell’ accessione invertita ex art. 938 c.c.[15], sancendo nella medesima sede gli elementi costitutivi di tale metodo di acquisto, ravvisandoli nella dichiarazione di pubblica utilità, nell’occupazione del suolo e nella trasformazione irreversibile del bene ed altresì individua nel il risarcimento danni ex art. 2043 c.c. l’unico rimedio esperibile dal privato nel termine dei 5 anni successivi in conseguenza alla lesione del diritto dominicale.

La questione circa la legittimità di tale istituto, però, non trovò un riscontro positivo dinanzi alla Corte Europea quando venne sollevato il contrasto con l’art. 1 della C.E.D.U. .

Nella Sentenza del 30 maggio 2000 (Ricorso n. 3152/96)[16] ha ritenuto l’istituto non coerente con il Protocollo n.1 della C.E.D.U.[17] specificando dapprima che ogni ingerenza nel diritto di proprietà deve essere conforme al principio di legalità e deve essere integrato da «norme di diritto interno sufficientemente accessibili, precise e prevedibili». Altresì ha asserito che l’irreversibilità della trasformazione del terreno, con la conseguente sua incedibilità al privato, anche laddove vi fosse stato un annullamento in sede giurisdizionale, comportava un’ulteriore violazione della Convenzione, consentendo all’amministrazione di acquisire la proprietà in virtù di modalità non previste dal diritto interno consentendogli di «trarre benefici da una situazione illegittima». La stessa concluse sostenendo l’impossibile perdita della proprietà dell’immobile da parte del privato nel caso di trasformazione del bene in assenza di decreto di esproprio.

Alla luce di tali considerazioni l’amministrazione che operava in tali condizioni commetteva un illecito e pertanto non poteva acquisire la proprietà dello stesso dovendo a tal punto garantire al privato di ritornare in possesso dell’immobile e di poter richiedere un risarcimento danni in caso di trasformazione del bene.

Tornando in questi termini alla situazione antecedente all’anno ‘83, il legislatore italiano ha deciso nel 2001 di intervenire nel d.P.R. 327/01 attraverso l’introduzione di una specifica norma, l’art. 43, rubricato come “Utilizzazione di un bene per scopi di interesse pubblico in assenza del valido provvedimento ablatorio”. Anche in questa sede, viene introdotto nel nostro ordinamento un metodo di acquisto della proprietà fondato sull’atto di acquisizione del bene utilizzato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico e modificato in assenza di un valido provvedimento di esproprio, previsione normativa che a grandi linee riportava in vita la previsione della accessione invertita, ex art. 938 c.c., contenuta nella sentenza della Cassazione dell’83.

Proprio alla luce di questo ultimo assunto, questa previsione non trovò lunga vita in quanto nel 2010 con la sentenza n. 293[18], la Corte Costituzionale ne dichiarava l’illegittimità dell’articolo perché in contrasto con le tutele costituzionali della proprietà, facendo perdere così efficacia alla norma.

In risposta a questa dichiarazione di incostituzionalità il legislatore ha regolato nuovamente la materia introducendo nel testo unico l’art 42-bis[19], una forma di esproprio “successivo” che non ha a monte tutto il procedimento volto all’ottenimento del decreto di esproprio su descritto e che ha sostituito le figure dell’occupazione acquisitiva e dell’occupazione usurpativa.

In merito a quest’ultima è da sottolineare che conta in un istituto di creazione pretoria, nato con la sentenza a SS.UU. 1907/97[20], che si configura quando la pubblica amministrazione procede all’occupazione di un fondo per la realizzazione di un’opera pubblica in assenza di dichiarazione di pubblica utilità oppure per decorso dei termini previsti per l’esecuzione dell’opera. In tali casi, in mancanza del collegamento fra pubblica utilità e realizzazione dell’opera pubblica, la pubblica amministrazione pone in essere una attività integrante un illecito extracontrattuale permanente. Tale attività, totalmente illegale, non permetteva così il trasferimento della proprietà dal privato allo Stato e quindi quest’ultimo poteva esperire i metodi classici risarcitori.

5. L’esproprio successivo

L’esproprio successivo viene regolato dall’art. 42-bis del d.P.R. 327/01 e consta in un atto ad efficacia immediata posto in essere dalla pubblica amministrazione con il quale, quest’ultima, dispone l’acquisizione del bene a lei legittimamente in uso e con il quale, altresì, può commisurare un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale subito dal privato in misura pari al valore del bene.

Dall’analisi della norma si può constatare come questo istituto non sia espressione di una attività di tipo vincolato come il procedimento di espropriazione, ma consta in un’attività discrezionale della pubblica amministrazione poiché questa, qualora si trovi nelle condizioni di uso legittimo di un bene non di sua proprietà, ha la possibilità di scegliere se acquisirlo o meno.

Lo Stato in questi termini ha esclusivamente il dovere di motivare il provvedimento in maniera molto più specifica, in modo rafforzato, rispetto a quando motiva una attività vincolata poiché dovrà sia giustificare il passato, andando ad esporre i motivi dell’utilizzo del bene senza titolo, che il futuro, motivando sulle ragioni attuali ed eccezionali che impongono alla pubblica amministrazione l’acquisizione del bene. I punti fondamentali sui quali motivare sono elencati al comma 4 dell’articolo de quo e la mancanza o l’insufficiente motivazione è causa di annullamento del provvedimento di acquisizione da parte del giudice amministrativo.

Ulteriore previsione normativa inserita nel testo dell’art 42-bis è stata la possibilità di applicare tale istituto a fatti antecedenti all’entrata in vigore del testo normativo, introducendo, attraverso la retroattività, una sorta di acquisizione sanante che ha permesso alla pubblica amministrazione di dare definizione a situazioni di uso di immobili già pendenti.

Sul punto la Corte di Cassazione a SS.UU. con Sentenza n.735/15[21], ha scandito le ipotesi in cui, in caso di utilizzazione di fatto di un immobile occupato senza esproprio, viene a cessare l’illiceità con il conseguente diritto al risarcimento pieno del proprietario.

I casi previsti dalla Corte nel corpo della sentenza sono ravvisabili nella restituzione del bene (situazione nella quale il proprietario non ha mai perso la proprietà), nell’accordo transattivo (tramite il quale le parti si accordano su come risolvere la questione), nell’usucapione da parte della pubblica amministrazione e infine nella rinuncia c.d. “abdicativa” del proprietario al suo diritto con il quale l’illiceità cessa per una rinuncia del proprietario e, da ultimo, nel provvedimento di acquisizione ex art 42-bis.

In merito a questa elencazione effettuata dalla Corte, ad oggi sembrano pacifiche e non dibattute ulteriormente i casi della restituzione del bene e dell’acquisizione successiva ex art. 42-bis.

Ulteriori problematiche su questo istituto non son mancate, in quanto ci si è chiesti, in virtù della attività discrezionale della pubblica amministrazione, cosa potesse fare il privato a fronte di una mancata acquisizione da parte dell’amministrazione.

Un primo riscontro è stato fornito dalla Corte Costituzionale con Sentenza n. 71 del 2015 [22] che – in risposta ad una questione di legittimità dell’art 42-bis ritenuto contrastante con l’art 3, 24 e 42 della Carta Costituzionale- ha definito l’eccezionalità dell’istituto in quanto questa caratteristica è insita nel testo normativo poiché fondata su ragioni eccezionali che devono essere motivate. Ribadisce quindi che l’istituto non è applicato alla totalità delle fattispecie proprio per la discrezionalità riconosciuta all’amministrazione, per questo non contrastante con la Costituzione.

Nella medesima sede però, la Corte ha constatato altresì la reale mancanza della previsione di un termine entro il quale la pubblica amministrazione deve decidere se acquisire o meno la proprietà del bene occupato. In merito, fra le varie soluzioni formatesi a livello giurisprudenziale, si è fatta solida la tesi della possibilità da parte del privato di intimare all’amministrazione di procedere all’emanazione del provvedimento di acquisizione, così da far scaturire l’obbligo di risposta di questa con la consequenziale formazione del silenzio-rifiuto nei termini di legge previsti dalla L.241/90.

Di recente la giurisprudenza ha avuto modo di ritornare sull’ipotesi della rinuncia abdicativa prospettata dalla Corte di Cassazione nella sentenza ut supra, confermandola come valida alternativa all’istituto contenuto nel 42-bis solo per un breve periodo, in quanto, a seguito dell’Adunanza Plenaria n. 2/2020[23] vi è stata una mutatio controversiae.

In tale sede infatti, si negava che tale rinuncia permettesse il trasferimento della proprietà in capo alla pubblica amministrazione poiché il privato che utilizza l’istituto rinuncia solo a determinate facoltà sul bene e non alla proprietà stessa. In questi termini, lo Stato non diventa proprietario, salvo che non ci sia un provvedimento tipico di trasferimento. La rinuncia abdicativa, concludeva l’Adunanza Plenaria, sarebbe ascrivibile alla categoria delle espropriazioni indirette dichiarate illegittime dalla C.E.D.U. e pertanto l’unica possibilità di trasferimento conforme al principio di legalità ad oggi deve essere ravvisata nell’art. 42-bis.

6. La recente giurisprudenza e conclusioni

Sul medesimo istituto nell’ultimo biennio, i giudici di Palazzo Spada non hanno interrotto la loro attività giuridica, cercando di porre rimedio ad altre questioni legate all’istituto in esame. In particolare la Sentenza in Adunanza Plenaria n. 3/2020[24] chiarisce, non ammettendo anch’essa la rinuncia abdicativa, che la scelta di acquisizione o restituzione del bene occupato, come su descritto, debba essere effettuata esclusivamente dall’amministrazione o dal commissario ad acta nominato dal giudice, escludendo in questo modo dal novero dei soggetti legittimati a tale scelta, sia il privato che il giudice. Nella medesima sede il Consiglio di Stato precisava altresì che una domanda risarcitoria posta in essere dal privato, debba essere esclusivamente legata all’accertamento della illegittimità della procedura espropriativa, accertamento legato agli indici dettati dalla legge. Solo in questi termini, non realizzandosi il trasferimento, il bene dovrà essere restituito al proprietario, ma sorgerà in capo all’amministrazione, nell’esercizio di un proprio dovere, la possibilità di scelta tra una riduzione in pristino con relativa restituzione del bene, oppure un acquisto dello stesso ex art. 42-bis.

L’adunanza Plenaria n. 4/2020[25], anch’essa fondata sull’inammissibilità della rinuncia abdicativa, poneva l’accento sull’irrisolta questione dell’effetto acquisitivo in favore della pubblica amministrazione all’esito della rinuncia abdicativa del privato, in quanto tale effetto non può ricondursi nell’alveo dell’art. 827 c.c. che prevede l’acquisto a titolo originario da parte dello Stato. Concludeva così disponendo che «per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo».

Da ultimo sul punto sono intervenute ulteriori due sentenze la n. 5 del 2020 e la n. 6 del 2021 le quali hanno posto ulteriore chiarezza, interrogandosi la prima sulla preclusione che potrebbe intervenire sulla emanazione di un atto di imposizione di una servitù prediale qualora si fosse formato giudicato restitutorio circa l’obbligo di restituzione al proprietario dall’amministrazione occupante sine titulo, la seconda, più recente, sulle possibili preclusioni di azioni sul bene per l’intervento di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per equivalente.

Nella n. 5 del 2020[26] l’Adunanza chiarisce che «il giudicato esecutorio, inerente all’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’amministrazione occupante sine titulo, non preclude l’imposizione di una servitù, in esercizio del potere ex art.42-bis, comma 6, d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, poiché questo presuppone il mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare». Specifica altresì che perché possa formarsi una preclusione derivante dal giudicato, occorre che la sentenza preveda espressamente la condanna dell’amministrazione alla restituzione del bene e che l’effetto preclusivo si realizzi con riguardo al provvedimento emesso ex art. 42-bis, co.2, comportante l’acquisizione del bene da parte della pubblica amministrazione; aggiunge ancora che tali presupposti non fermerebbero nemmeno l’adozione del diverso provvedimento di imposizione della servitù di cui al comma 6 dell’articolo in esame. Circa questo secondo aspetto specifica che, la sentenza coperta da giudicato in senso sostanziale, ex art. 2909 c.c., fa stato tra le parti, i loro eredi ed aventi causa, nei limiti oggettivi costituiti dai suoi elementi costitutivi, ovvero il titolo della stessa azione (causa petendi) e il bene della vita che ne forma oggetto (cd. petitum mediato).

La n.6 del 2021[27], in conclusione, come prima accennato, si è preoccupata di chiarire in presenza di quali presupposti il giudicato civile di rigetto, per intervenuta prescrizione, del diritto fatto valere in giudizio, di una domanda di risarcimento (per equivalente) dei danni da perdita della proprietà sul suolo per effetto dell’occupazione illegittima e della trasformazione irreversibile del bene da parte della pubblica amministrazione, in applicazione dell’istituto di creazione giurisprudenziale della “occupazione acquisitiva”, possa precludere l’esercizio di un’azione di risarcimento in forma specifica diretta alla restituzione del bene previa rimessione in pristino.

Il ragionamento posto in essere dalla Corte ha posto alla base che l’accertamento del passaggio della proprietà per effetto del vecchio istituto dell’occupazione acquisitiva ha effetti preclusivi su azioni successive, anche se il passaggio non viene indicato espressamente nel dispositivo di una sentenza di rigetto di domanda risarcitoria per occupazione illegittima.

Dispiega altresì effetti sulla domanda diretta a far valere l’eventuale silenzio della pubblica amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, in quanto tale istituto trova il suo limite nei rapporti esauriti, quali quelli definiti con autorità di cosa giudicato.

La Plenaria ha da ultimo ricordato come l’art. 42-bis in esame incontra il limite generale dei rapporti chiusi in modo irretrattabile con efficacia di giudicato, per i quali va esclusa la possibilità di una riapertura generalizzata dei processi definiti con sentenza passata in giudicato, sia questi civili che amministrativi.

In questi termini l’Adunanza Plenaria ha sancito due principi di diritto disponendo che «in caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato dalla pubblica amministrazione, formatosi su una sentenza irrevocabile contenente l’accertamento del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva, alle parti e ai loro eredi o aventi causa è precluso il successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, sia dell’azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento del danno in forma specifica attraverso la restituzione del bene previa rimessione in pristino, sia dell’azione (di natura reale, petitoria e reipersecutoria) di rivendicazione, sia dell’azione ex artt. 31 e 117 Cod. proc. amm. avverso il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001».

Altresì ha specificato che «ai fini della produzione di tale effetto preclusivo non è necessario che la sentenza passata in giudicato contenga un’espressa e formale statuizione sul trasferimento del bene in favore dell’amministrazione, essendo sufficiente che, sulla base di un’interpretazione logico-sistematica della parte-motiva in combinazione con la parte-dispositiva della sentenza, nel caso concreto si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e dei relativi effetti sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di rigetto».

Orbene, alla luce di tale disamina è possibile concludere osservando come le questioni giuridiche sottese a questi istituti sono ancora molto dibattute e sicuramente, essendo una materia molto delicata, il futuro vedrà certamente l’intervento ulteriore della giurisprudenza.

 

 

 


[1] Legge n. 2359 del 25 giugno 1865: espropriazioni per causa pubblica, Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’8 luglio 1865;
[2] Articolo 42 Cost.: La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.
La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti [cfr. artt. 44, 47 c. 2];
La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.
La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.
[3] Art. 832 c.c.: Contenuto del diritto- Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico.
[4]Art. 834 c.c.: Espropriazione per pubblico interesse- Nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata, e contro il pagamento di una giusta indennità.
Le norme relative all’espropriazione per causa di pubblico interesse sono determinate da leggi speciali.
[5] GAROFOLI R., Compendio di Diritto amministrativo, ed. V, Molfetta (BA), 2017, pp. 775 e ss.
[6] Art. 17 C.E.D.U.: Diritto di Proprietà- Ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuna persona può essere privata della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale.
La proprietà intellettuale è protetta.
[7] Manganaro nell’articolo “L’indennità di espropriazione tra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo” Università Mediterranea di Reggio Calabria, pag. 12, commenta come «Le decisioni della Corte dei Diritto in materia di proprietà̀ privata pongono il problema generale del rapporto tra ordinamento interno e CEDU, ben sapendo che la tutela di alcuni diritti, nell’attuale sistema multilivello, presenta interferenze e sovrapposizioni »; cfr. G. Morbidelli, Corte costituzionale e corti europee: la tutela dei diritti (dal punto di vista della Corte del Lussemburgo), in Dir. proc. amm., 2006, 290; G. della Cananea, I fattori sovranazionali e internazionali di convergenza e di integrazione, in Aa.Vv., Diritto amministrativo comparato (a cura di G. Napolitano), Milano, 2007, 325 ss.
[8] d.P.R. 327 del 2001, Art. 2: Principio di legalità dell’azione amministrativa -L’espropriazione dei beni immobili o di diritti relativi ad immobili di cui all’articolo 1 può essere disposta nei soli casi previsti dalle leggi e dai regolamenti.
I procedimenti di cui al presente testo unico si ispirano ai principi di economicità, di efficacia, di efficienza, di pubblicità e di semplificazione dell’azione amministrativa.
[9] Legge n. 2359 del 25 giugno 1865: espropriazioni per causa pubblica, artt. 9, 16, 24, 47 e ss.
[10] d.P.R. 327 del 2001, Art. 8: Le fasi del procedimento espropriativo – Il decreto di esproprio può essere emanato qualora: a) l’opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale, o in un atto di natura ed efficacia equivalente, e sul bene da espropriare sia stato apposto il vincolo preordinato all’esproprio; b) vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità; c) sia stata determinata, anche se in via provvisoria, l’indennità di esproprio.
[11] d.P.R. 327 del 2001, Capo IX – La cessione volontaria- Art. 45. Disposizioni generali – Fin da quando è dichiarata la pubblica utilità dell’opera e fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio, il proprietario ha il diritto di stipulare col soggetto beneficiario dell’espropriazione l’atto di cessione del bene o della sua quota di proprietà.
Il corrispettivo dell’atto di cessione: a) se riguarda un’area edificabile, è calcolato ai sensi dell’articolo 37, con l’aumento del dieci per cento di cui al comma 2; b) se riguarda una costruzione legittimamente edificata, è calcolato nella misura venale del bene ai sensi dell’articolo 38; c) se riguarda un’area non edificabile, è calcolato aumentando del cinquanta per cento l’importo dovuto ai sensi dell’articolo 40, comma 3; d) se riguarda un’area non edificabile, coltivata direttamente dal proprietario, è calcolato moltiplicando per tre l’importo dovuto ai sensi dell’articolo 40, comma 3. In tale caso non compere l’indennità aggiuntiva di cui all’articolo 40, comma 4.
[12] Legge n. 2359 del 25 giugno 1865, artt. 71 e ss
[13] CARINGELLA F., Manuale ragionato di Diritto amministrativo, ed. Dike, 2019, pp. 714 e ss.
[14] Corte di Cassazione – Sez. un. – 16 febbraio 1983 n. 1464- Pres. Mirabelli P. P. – Est. Bile – P. M. Corasaniti (concl. conf.) – Autostrade s.p.a. (avv. Sorrentino, Montuori) c. Mocerino e Tuccillo (avv. G. e L. Marotta).
[15] Art. 938 c.c. – Occupazione di porzione di fondo attiguo- Se nella costruzione di un edificio si occupa in buona fede una porzione del fondo attiguo, e il proprietario di questo non fa opposizione entro tre mesi dal giorno in cui ebbe inizio la costruzione, l’autorità giudiziaria, tenuto conto delle circostanze, può attribuire al costruttore la proprietà dell’edificio e del suolo occupato. Il costruttore è tenuto a pagare al proprietario del suolo il doppio del valore della superficie occupata, oltre il risarcimento dei danni.
[16] Corte Europea dei Diritti dell’uomo Sez. II sent. 30 maggio 2000. Ric. 31524/96;
[17] Art. 1, Protocollo n. 1 della C.E.D.U.- Protezione della proprietà- Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
[18] Corte Costituzionale, Sentenza 293/2010 (ECLI:IT:COST:2010:293), giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, Presidente: Amirante – Redattore: Tesauro, Udienza Pubblica del 07/07/2010, Decisione del 04/10/2010 Deposito del 08/10/2010,  Pubblicazione in G. U. 13/10/2010  n. 41. Norme impugnate: Art. 43 del decreto del Presidente della Repubblica 08/06/2001, n. 327 Massime:  34954  34955. Atti decisi: ord. 114, 115 e 116/2009
[19] d.P.R. 327 del 2001 Art. 42-bis- Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico.
[20] Corte di Cassazione, Sezioni unite civili; sentenza 4 marzo 1997, n. 1907; Pres. La Torre, Est. Borrè, P.M. Amirante (concl. conf.); Comune di Prato (Avv. Stancanelli) c. Dolfi; Dolfi (Avv. Giovannelli) c. Comune di Prato. Conferma App. Firenze 17 luglio 1991, in Il Foro Italiano Vol. 120, No. 3 (MARZO 1997), pp. 721/722-725/726 (3 pages) pubblicato da: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL;
[21] Corte di Cassazione Sezioni Unite Civili, Sentenza 21 ottobre 214 – 19 gennaio 2015, n. 735, Presidente Santacroce, Relatore Di Amato.
[22] Corte Costituzionale, Sentenza 71/2015 (ECLI:IT:COST:2015:71) Giudizio:  giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, Presidente: Criscuolo – Redattore:  Zanon; Udienza Pubblica del 10/03/2015;    Decisione  del 11/03/2015; Deposito del 30/04/2015; Pubblicazione in G. U. 06/05/2015  n. 18; Norme impugnate:  Art. 42 bis del decreto del Presidente della Repubblica 08/06/2001, n. 327, articolo introdotto dall’art. 34, c. 1°, del decreto legge 06/07/2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, c. 1°, della legge 15/07/2011, n. 111. Massime:  38333  38334  38335  38336  38337  38338 ; Atti decisi: ord. 89, 90, 163 e 219/2014
[23] Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent., (data ud. 13/11/2019) 20/01/2020, n. 2
[24] Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent., (data ud. 13/11/2019) 20/01/2020, n. 3
[25] Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent., (data ud. 13/11/2019) 20/01/2020, n. 4;
[26] Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent., (data ud. 13/11/2019) 18/02/2020, n. 5;
[27] Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent., (data ud. 17/02/2021) 6/04/2021, n. 6.

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Elio Simonetti

Abilitato all´esercizio della professione forense presso la Corte d´Appello di Bari nel 2019. Pratica forense/tirocinio ex art. 73 L. 67/2013 presso il Tribunale penale di Bari . Scuola di Specializzazione per le professioni legali presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro ancora in corso; Corso ordinario biennale di preparazione per magistrato ordinario presso la Scuola Diritto e scienza; Idoneo non vincitore al concorso per l’ammissione al corso di dottorato di ricerca in “Teoria generale del processo” presso l’Università LUM Jean Monnet. Dottore in Giurisprudenza presso l´Università degli studi di Bari ”Aldo Moro” nel 2016 con la tesi di laurea in diritto del lavoro dal titolo ”Arbitrato e conciliazione nelle controversie di Lavoro”.

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