Espulsione dello straniero: ineseguibile se c’è il rischio di trattamenti inumani e degradanti nel Paese d’origine

Espulsione dello straniero: ineseguibile se c’è il rischio di trattamenti inumani e degradanti nel Paese d’origine

Nota a Cassazione Penale, Sez. I, 18/05/2017 (dep. 26/10/2017), n. 49242

di Silvia Pennacchia

Premessa

La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha di recente affermato che il provvedimento di espulsione dello straniero, disposto ai sensi del Testo Unico sugli stupefacenti, è ineseguibile qualora sussista un serio rischio che il soggetto espulso venga sottoposto nel Paese d’origine alla pena di morte, ovvero a trattamenti inumani o degradanti, precisando l’irrilevanza, a tal fine,  della valutazione relativa alla gravità del reato e alla pericolosità sociale.

Prima di trattare del caso concreto preso in esame dalla Suprema Corte, è utile esporre brevemente circa la natura delle misure di sicurezza in generale  e dell’espulsione dello straniero nello specifico: il legislatore del 1930 ha inserito nel codice penale il cd. “sistema del doppio binario“, affiancando alla tradizionale sanzione penale, la misura di sicurezza, strumento introdotto con la finalità di neutralizzare la pericolosità sociale di soggetti appartenenti ad una determinata categoria, con lo scopo precipuo di potenziare la difesa sociale tramite la prevenzione del pericolo di recidiva del reo. Nel confronto tra pena e misura di sicurezza si deve distinguere la funzione dei due istituti: retributiva e di prevenzione generale, per quanto riguarda la prima; specialpreventiva, tendente alla neutralizzazione e alla rieducazione del reo socialmente pericoloso, relativamente alla seconda. Diverso è anche il fondamento delle due misure : la pena è la conseguenza di un giudizio riprovevole per la violazione di un comando derivante da una norma di legge, mentre la misura di sicurezza deriva non da un giudizio di riprovazione, ma bensì da un giudizio di pericolosità e di probabilità di futura recidiva. Il codice Rocco prevede misure di sicurezza personali, che presuppongono la pericolosità sociale della persona,  e patrimoniali, che sottintendono, invece, la pericolosità della cosa. Le prime si dividono in misure di sicurezza detentive e non detentive, queste ultime  caratterizzate da minore afflittività[1]. Tra le misure di sicurezza non detentive si annovera l’espulsione dello straniero dallo Stato, prevista dall’art. 235 c.p. L’applicazione dell’espulsione a titolo di misura di sicurezza va distinta dall’ espulsione disposta ad altro titolo, in particolare come sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione: queste ultime sono applicabili in maniera pressocchè automatica dal giudice in presenza di determinati presupposti, mentre l’espulsione quale misura di sicurezza non può prescindere dal previo accertamento della pericolosità sociale dello straniero. Tale concetto è stato ribadito dalla Corte Costituzionale in relazione alle ipotesi di espulsione obbligatoria previste dal T.U. stupefacenti[2].

Il caso  

I giudici di legittimità, nella recentissima sentenza qui presa in considerazione, si sono trovati di fronte al caso di un detenuto condannato per violazione della disciplina sugli stupefacenti e altro, e  sottoposto alla misura di sicurezza dell’espulsione (applicata ai sensi dell’art. 86 DPR. 309/1990): il soggetto in questione aveva presentato domanda di revoca della misura di sicurezza dell’espulsione, motivata in riferimento all’ esistenza di condizioni idonee a configurare la condizione di avente diritto alla “protezione sussidiaria”, in quanto veniva paventato il rischio alla pena di morte una volta ritornato in patria. In occasioni analoghe, la Corte di Cassazione già in passato aveva affermato che l’espulsione a titolo di misura di sicurezza non può essere eseguita lì dove esponga il soggetto a pericoli per l’incolumità o a trattamenti disumani o degradanti , ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 251/2007[3], da interpretarsi anche alla luce dei contenuti della CEDU. A tal proposito merita segnalare che la Corte EDU , con sentenza resa nel caso Saadi c. italia, ha stabilito il divieto a carico degli Stati parte della Convenzione, di espellere lo straniero in uno Stato dove questi sia esposto al rischio concreto di venire sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti[4].

La questione

Il tema si rivela di una certa difficoltà data la stratificazione delle fonti incidenti , anche di diverso livello. I giudici di legittimità, nella sentenza in esame, richiamano sul punto il significativo arresto giurisprudenziale rappresentato da Sez. 6 n. 20514 del 28.04.2010, ove si  è affermato che, allorchè la Corte Europea ha stabilito che l’esecuzione di provvedimenti di espulsione verso un determinato Paese integri la violazione dell’art. 3 CEDU[5], in considerazione del rischio di attuazione di pene o trattamenti  inumani o degradanti , ogni organo giurisdizionale nazionale ha il compito di individuare e adottare, in caso di ritenuta pericolosità della persona, un’appropriata misura di sicurezza diversa dall’ espulsione: e nel fare ciò lo Stato italiano, come ogni altro Stato membro,  in ogni sua articolazione, deve privilegiare un’interpretazione delle disposizioni interne conforme ai contenuti di tutela dei diritti fondamentali della persona.

Sul tema del divieto di respingimento, infatti, osserva la Corte, ricadono più disposizioni sovranazionali , tra cui l’art. 19, co.2 , della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. ( Carta di Nizza) ove si afferma che “ nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte , alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti” . Tale disposizione fa parte integrante del diritto dell’Unione anche ai sensi del successivo articolo 51 della medesima Carta, essendo intervenute sul tema in via di progressiva regolamentazione una serie di direttive, elencate nel dettaglio dai giudici supremi, norme comunitarie con efficacia diretta e che, pertanto, precludono al giudice comune l’applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno. Nell’ attività interpretativa che spetta al giudice comune ai sensi dell’articolo 101, co. 2, Cost., infatti, egli ha il dovere di evitare violazioni della CEDU e di applicarne le disposizioni sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte Edu.

Osservazioni critiche

Le premesse appena fatte con il richiamo anche alla disciplina sovranazionale, sono necessarie per comprendere la natura della “ protezione sussidiaria”, condizione giuridica affine, ma diversa, rispetto a quella dello status di rifugiato. Sul piano delle fonti sovranazionali , la Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 descrive la condizione di rifugiato nel senso di riconoscerla a chiunque sia portatore del giustificato timore di essere perseguitato per la sua razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale, o per opinioni politiche e si trovi fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; all’art. 33 , la Convenzione di Ginevra esprime il principio del divieto di espulsione e di rinvio al confine nel caso in cui la vita o la libertà del rifugiato “ sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza ad un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche“.

Le esigenze di solidarietà umana, contrasto alla discriminazione, affermazione della democrazia e tutela dei diritti fondamentali della persona sottese a tale assetto hanno trovato conferma nelle disposizioni della CEDU, in particolare nell’articolo 3, per come interpretato dalla Corte Edu anche in chiave di divieto di respingimento verso paesi in cui il soggetto si troverebbe esposto a rischio di morte, tortura o trattamenti inumani o degradanti. Oltre alla condizione di rifugiato, la normativa sovranazionale prevede la categoria della “ persona ammissibile alla protezione sussidiaria[6]: trattasi di cittadino di paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato , ma nei cui confronti sussistono fondati motivi per ritenere che, se tornasse nel Paese d’origine o in quello di dimora abituale correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno (cfr. art. 15 “condanna alla pena di morte, tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante…”). Dunque, alla luce delle fonti appena elencate, i giudici di legittimità possono affermare agevolmente che sin dal 2004  viene introdotto, a livello europeo,  un sistema più complesso di “ protezione internazionale” che ricomprende anche l’obbligo di accogliere la persona ammissibile alla protezione sussidiaria, in quanto esposta nel Paese d’origine a rischi di incolumità o a condizioni inaccettabili del sistema repressivo di quel Paese. Si tende, quindi, a completare un sistema di tutela della persona umana, con talune riserve correlate alla necessità di protezione dell’ordine pubblico interno e di sicurezza nazionale.

Dette disposizioni sovranazionali sono state recepite nella normativa interna, dalla quale si evince un margine irrinunciabile di protezione anche in via mediata , attraverso il divieto di respingimento, dei valori considerati a livello europeo ( rifiuto della  pena di morte , tortura e trattamento inumano o degradante sul soggetto ristretto), che si pone come condizione ostativa, anche in tema di espulsione, con carattere preminente rispetto ad una condizione di constata “pericolosità sociale” del destinatario ( previo apprezzamento in concreto della “ serietà” del paventato rischio).

Nell’ attuazione di questi principi, tuttavia, la Corte Suprema è andata incontro a numerosi arresti relativamente all’ interpretazione del “divieto di respingimento” a causa della scarsa chiarezza e completezza della normativa interna , frazionata in più testi di legge non coordinati in maniera sufficiente e idonea; la disposizione in rilevo nel caso concreto trattato dalla Prima Sezione ( art. 86 dpr 309/1990) in origine prevedeva l’espulsione dello straniero a pena espiata, quale misura di sicurezza, in ipotesi di condanna per i reati previsti dal TU in tema di stupefacenti , senza alcuna indicazione della verifica in concreto della pericolosità sociale e comunque, ancora ad oggi, senza riferimento espresso a cause ostative correlate alla necessità di fornire tutela a diritti fondamentali riconosciuti in sede sovranazionale. Solo l’opera interpretativa della Corte di Cassazione ha portato a ritenere applicabili a tutte le espulsioni giudiziali la previsione ostativa di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 286/1998 e solo in tempi recentissimi, con l’emissione della legge n. 110 del 14 luglio 2017 ( introduttiva del reato di tortura nel sistema nazionale) il legislatore ha colmato tale lacuna, attraverso la previsione aggiuntiva contenuta nel comma 1.1. dell’art. 19 d.lgs. 286/1998 , secondo cui <<non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistono fondati motivi di ritenere che essa sia sottoposta a tortura>>.

Conclusione

In sintesi, dunque, dopo aver portato a termine la ricognizione dell’evoluzione giurisprudenziale e legislativa,nazionale ed europea, della materia in esame e i punti di approdo ad oggi raggiunti, la Prima Sezione della Corte di Cassazione afferma il seguente principio di diritto:  la disposizione di cui all’art. 20 del d.lgs. n. 251 del 2007,  nella parte in cui consente di procedere al respingimento per motivi di ordine e sicurezza interna, non è applicabile alle ipotesi in cui il soggetto istante corra il serio rischio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti nel Paese di origine ove venga ricondotto a seguito di espulsione. I giudici supremi mettono così su di un piano di assoluto rilievo le esigenze di protezione della persona umana e dei suoi diritti fondamentali, al fine di una tutela il più possibile piena ed effettiva .


[1] R. GAROFOLI, Manuale di diritto penale, parte generale, Roma, 2016, 1485 s.

[2] Corte Cost., 24 febbraio 1995, n.58.

[3] Art. 20, d.lgs 251/2007 .” Protezione dall’espulsione 1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 19, comma 1, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il rifugiato o lo straniero ammesso alla protezione sussidiaria è espulso quando: a) sussistono motivi per ritenere che rappresenti un pericolo per la sicurezza dello Stato; b) rappresenta un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, essendo stato condannato con sentenza definitiva per un reato per il quale è prevista la pena della reclusione non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci anni”.

[4] Corte Europea dir .uomo, Saadi c. Italia, 28 febbraio 2007, ric. N. 37201/06.

[5] Art. 3 CEDU : “Proibizione della tortura Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

[6] Direttiva 2004/83/CE del Consiglio.

[7] 2011/1995/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio.


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