Essere donne ai tempi del Covid-19: il diritto all’aborto alla luce delle nuove linee guida del Ministero della Salute sull’assunzione della pillola abortiva RU486

Essere donne ai tempi del Covid-19: il diritto all’aborto alla luce delle nuove linee guida del Ministero della Salute sull’assunzione della pillola abortiva RU486

Sommario: Premessa – 1. Il contenuto delle nuove linee indirizzo del Ministero della Salute: le differenze rispetto al regime precedente – 1.1. Due opinioni divergenti: una nuova conquista all’insegna della civiltà o mero risparmio economico per il Servizio Sanitario Nazionale? – 2. Le difficoltà applicative delle nuove linee guida ministeriali. L’antefatto della Regione Umbria e il caso della Regione Piemonte – 3. Tra interventi giurisprudenziali e criticità della realtà quotidiana: la fragile rete della legge 194 – 3.1 Il riordino delle attività dei consultori nella Regione Lazio e nella Regione Puglia: le sentenze nn. 3477/2010 e 8990/2016 – 3.2. Se l’obiezione di coscienza non la esercita solo il personale sanitario: l’ordinanza n. 196/2012 della Corte Costituzionale – 4. Il dilemma secolare dell’obiezione di coscienza – 5. Conclusioni. Le buone intenzioni della legislatore regionale calabrese. Il diritto all’aborto e l’obiezione di coscienza dopo le nuove linee guida ministeriali sull’assunzione della pillola RU486: scenari possibili

 

Premessa

“Non chiedo alcun favore per il mio sesso, tutto ciò che chiedo ai nostri fratelli uomini è che la smettano di calpestarci”. Era la metà dell’Ottocento quando queste parole furono pronunciate per la prima volta dalla suffragetta Sarah Moore Grimké, e, circa un secolo e mezzo dopo, furono ripetute da Ruth Bader Ginsburg (nota alla stampa statunitense e internazionale come “RBG”), giudice della Corte Suprema Americana dal 1993 e icona del movimento femminista. RBG si è spenta a Washington lo scorso 18 settembre 2020, ed è passata alla storia per aver combattuto nelle aule di tribunale numerose battaglie per la conquista della parità di genere.

Tra i numerosi risultati ottenuti grazie al suo contributo vi è certamente il riconoscimento del diritto all’aborto, battaglia per cui i vari movimenti femministi americani- e, in generale, occidentali- le sono particolarmente riconoscenti: un diritto, quest’ultimo, che approderà nell’ordinamento giuridico statunitense nel 1973, con la pronuncia della nota sentenza “Roe v. Wade”, con cui la Corte Suprema Federale stabilì che interrompere volontariamente una gravidanza, era, da quel momento, legale.

All’indomani della scomparsa di colei che dai media è stata definita la “giudice pasionaria”, l’opinione pubblica italiana è stata conforme nel sostenere che le convinzioni di RBG abbiano almeno in parte influito sull’articolazione della corrente abortista sviluppatasi nel nostro paese, basti pensare che in Italia il diritto in questione verrà conclamato dalla legge n. 194 del 22 maggio 1978, ad appena cinque anni dalla sentenza di cui sopra.

Senza se e senza ma, è innegabile che il momento storico che stiamo attraversando occuperà le pagine dei libri di storia delle generazioni future: è una fase in cui ognuno ha imparato espressioni nuove, quali distanziamento sociale, tampone, smart working… e ha al contempo inglobato un nuovo modo di vivere, di comportarsi.

E sebbene tra gli argomenti più attenzionati dalla stampa nazionale in questo periodo vi fossero il pericolo di un nuovo lockdown, un nuovo intasamento dei reparti di terapia intensiva, il ritorno a scuola di studenti e insegnanti, la cassa integrazione e lo scoppio di una drammatica crisi economica, è parimenti vero che il tema che sarà affrontato nelle pagine che seguono- senza, ovviamente, alcuna pretesa esaustiva- ha suscitato un altrettanto forte dibattito pubblico, in particolar modo (ed ometterlo sarebbe narrativamente ipocrita) nel panorama cattolico.

La vicenda trae origine dall’allarme lanciato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità attorno alla metà dello scorso mese di giugno: dall’America all’Europa, circa tre milioni di donne rischiano la vita ogni giorno per un aborto clandestino.

Cause principali di tal drammatico fenomeno, secondo quanto riportato dall’OMS, sono reparti ospedalieri chiusi o dedicati -necessariamente- ai malati di Covid-19, consultori altrettanto chiusi, ma soprattutto la scelta, operata da alcuni governi, di non considerare l’Ivg (Interruzione Volontaria di Gravidanza) un servizio essenziale.

Sempre in riferimento alle considerazioni riportate dall’OMS, in pieno lockdown avrebbero fatto eccezione soltanto la Francia e la Gran Bretagna, le quali hanno provveduto ad ampliare la possibilità, per le donne che ne facessero richiesta, di assumere la pillola abortiva da casa, guidate telefonicamente dai medici.

Natalia Kanem, direttrice dell’Agenzia per la Salute Sessuale e Riproduttiva delle Nazioni Unite, commentando detto allarme sanitario, ha dichiarato al New York Times che il corollario di tali scelte governative è che gli aborti clandestini, nel corso di tutto il prossimo anno, saranno destinati ad aumentare.

Non solo: secondo le stime già effettuate dall’Agenzia, circa 29.000 donne moriranno per aborti effettuati illegalmente e a causa della forte riduzione dei servizi sanitari. L’assunzione della pillola abortiva RU486, divenuta legale in Italia nel 2009, non è attualmente molto frequente nel nostro paese, e sebbene il diritto ad interrompere volontariamente la gravidanza abbia superato i quarant’anni di vita, non si può negare che, da quando è in corso l’emergenza sanitaria, abortire molto spesso è divenuto praticamente impossibile.

A sommesso parere di chi scrive, la diffusione del coronavirus ha fatto emergere le criticità e la fragile rete della legge 194/1978, atteso che a tutti i sopracitati elementi si debba necessariamente aggiungere che oggi, in Italia, nel 64% delle strutture sanitarie l’obiezione di coscienza è praticata da circa il 70% dei medici anestesisti e paramedici. A riguardo, è doveroso specificare sin da ora che tutti i dati statistici riportati nel presente elaborato, derivano unicamente da studi e reportage effettuati da Istat, Istituto Superiore di Sanità e Ministero della Salute.

Nelle prossime righe si procederà- si ribadisce, senza alcuna pretesa esaustiva- ad esporre le potenziali conseguenze delle nuove linee pubblicate dal Ministero della Salute il 12 agosto 2020 in materia di aborto chimico.

Data la delicatezza e l’attualità del tema, l’obiettivo è quello di affrontarne la trattazione con spirito critico, il cui leitmotiv, come si vedrà, sarà caratterizzato da valori e princìpi costituzionali. Altra finalità, è quella di offrire (si spera) al lettore spunti di riflessione alla luce dei vari orientamenti sia della giurisprudenza sia della dottrina, volgendo altresì l’attenzione alla difficile convivenza, all’interno di uno Stato laico quale è quello italiano, tra il diritto all’aborto e l’esercizio dell’obiezione di coscienza nel settore medico.

1. Il contenuto delle nuove linee indirizzo del Ministero della Salute: le differenze rispetto al regime precedente

Prima di analizzare le novità introdotte dalle linee guida in questione, occorre preliminarmente comprendere la natura della pratica dell’aborto farmacologico e la sua relativa disciplina nel nostro ordinamento.

La pillola RU486 è un antiprogestinico di sintesi utilizzato come farmaco (in associazione con una prostaglandina) per indurre l’interruzione della gravidanza, e si assume per via orale.

Il farmaco è approdato in Italia con la delibera AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) n. 14 del 30 luglio 2009, cui hanno fatto seguito le linee guida del Ministero della Salute del 2010, con le quali è stato disposto l’impiego di detta pillola in regime di ricovero in una delle strutture previste dall’art. 8 della già citata legge n. 194/1978, da effettuarsi dal momento dell’assunzione fino alla conclusione del percorso assistenziale.

La delibera e le linee ministeriali prevedevano che l’assunzione del farmaco dovesse avvenire entro la settima settimana di amenorrea (quindi entro il quarantanovesimo giorno).

La stessa AIFA, il successivo 24 novembre dello stesso anno, emanava un’altra determina che rendeva lecita l’immissione nel commercio di tale pillola.

L’anno dopo, precisamente il 18 marzo 2010, il Consiglio Superiore di Sanità (C.S.S.), alla luce di quanto deliberato dall’AIFA il 30 luglio 2009 e delle relative linee di indirizzo del Ministero, raccomandava che l’Ivg farmacologica avvenisse in regime di ricovero ordinario di almeno tre giorni, al fine di garantire il rispetto delle legge n. 194/1978 su tutto il territorio nazionale: un dato, quest’ultimo, da non sottovalutare e che tornerà utile anche per la comprensione delle pagine successive, quando ci si soffermerà sulle posizioni assunte recentemente da alcune regioni italiane (che, a sommesso parere di chi scrive, presentano vizi di illegittimità) atteso che nel rispetto del Titolo V della Carta Costituzionale la materia sanitaria rientra nella c.d. legislazione concorrente tra Stato e Regioni, in virtù della quale spetta a queste ultime la potestà legislativa, mentre il primo detta i princìpi fondamentali (art. 117 comma 2 Cost.).

Nel caso specie, lo Stato ha appunto tracciato le linee guida in materia, ma in seconda battuta sono le Regioni gli enti titolati a disciplinare in maniera dettagliata l’iter procedurale, nel rispetto dei princìpi fondamentali dettati dall’intervento statale.

E’ in tale dettame costituzionale che risiede la ragione per cui sia il Consiglio Superiore di Sanità sia il Ministero della Salute adottano peculiari atti formali –quali appunto raccomandazioni e linee di indirizzo- al fine di inoltrarle alle regioni, poiché la potestà legislativa spetta a queste ultime e, proprio come recentemente accaduto, nulla impedisce ad esse di discostarsi dal relativo contenuto.

Ciò posto, viene ora in rilievo la prima novità apportata dalle nuove linee guida sulla Ivg di tipo farmacologico.

Come anticipato in premessa, le modifiche traggono origine da un allarme lanciato dall’OMS, allarme che successivamente è stato formalizzato, divenendo una raccomandazione.

Da quest’ultima si evince la necessità- dettata dalle cause di cui si è già detto- di prolungare il termine entro cui è possibile la somministrazione della pillola, portandolo dalla settima alla nona settimana di gestazione.

Il Consiglio Superiore di Sanità, interpellato dal Ministero della Salute, nella seduta dello scorso 4 agosto 2020, ha espresso parere favorevole all’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico e, più in generale, è stato altresì favorevole a quanto risultante dalla raccomandazione formulata dall’OMS. Per tali motivi, la Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria presso il Ministero della Salute, ha predisposto le nuove linee di indirizzo in aggiornamento a quelle emanate nel 2010.

Nella settimana successiva al parere emesso dal C.S.S., il 12 agosto 2020, l’Agenzia Italiana del Farmaco ha emanato la determina n. 865, recante le modifiche circa le modalità di impiego del medicinale mifegyne a base di mifepristone (pillola RU486). Oltre al prolungamento del termine entro cui fare ricorso alla somministrazione del farmaco, equivalente a nove settimane compiute di età gestazionale (non più quindi entro il quarantanovesimo giorno ma bensì entro il sessantatreesimo), le nuove linee di indirizzo poste in essere dalla summenzionata direzione generale hanno introdotto, modificando il precedente iter, il diritto ad interrompere volontariamente la gravidanza in forma farmacologica in regime di day hospital ed ambulatoriale. A tal fine, il nuovo sistema, una volta eliminato il vincolo di assunzione del farmaco in regime di ricovero ordinario, ha parallelamente disposto che tale tipologia di Ivg possa essere praticata, appunto, in day hospital, nelle strutture ambulatoriali pubbliche comunque adeguatamente attrezzate ed autorizzate dalla Regione, ed infine anche nei consultori.

Le nuove linee di indirizzo prevedono, altresì, un monitoraggio continuo ed approfondito delle procedure di Ivg di tipo chimico, volgendo una particolare attenzione ai potenziali effetti collaterali derivanti dall’estensione del periodo in cui è consentito detto trattamento.

Non solo nell’opinione pubblica ma anche nel panorama dottrinale e giurisprudenziale le novità firmate dal Ministro della Salute hanno suscitato un dibattito molto intenso, dal quale si evince che le linee di nuovo conio abbiano, in primis, fatto riemergere le solite lacune della legge n.194/178, principalmente le modalità secondo cui viene esercitata l’obiezione di coscienza.

Per di più, sono state ravvisate anche criticità di matrice giuridico-tecnica, in special modo quella riguardante il difficile equilibrio tra la potestà legislativa regionale in materia sanitaria e il rispetto omogeneo sul tutto il territorio nazionale della legge 194, i cui princìpi fondamentali, come si vedrà, troppo spesso vengono disattesi.

1.1. Due opinioni divergenti: una nuova conquista all’insegna della civiltà o mero risparmio economico per il Servizio Sanitario Nazionale?

Allo stato attuale è innegabile che le linee di indirizzo fortemente dibattute abbiano scatenato una polemica forse troppo sterile.

Sostanzialmente è venuto a crearsi uno scenario che vede protagoniste due contrapposte fazioni: gli antiabortisti contro gli abortisti, i “cattolici innamorati della vita” contro i “laici peccatori”.

A sommesso parere di chi scrive, un fenomeno sanitario, giuridico, etico e politico-sociale così delicato e sensibile dovrebbe essere trattato con altrettanta delicatezza e sensibilità.

Quello che avrebbero dovuto comportare le nuove linee guida ministeriali è un dialogo costruttivo tra le parti coinvolte, avente come unica finalità quella di apportare nuove soluzioni ad un problema concreto, tutt’ora esistente, mettendo al centro unicamente il diritto alla salute della donna alla stregua dei valori costituzionali, lasciando totalmente fuori dal terreno di gioco il solito ed ormai obsoleto scontro ideologico.

Le novità riguardanti l’aborto medico dovrebbero essere un’occasione di dialogo e di confronto, ma quel che emerge (almeno fino ad ora) non è altro che un ulteriore imbarbarimento del dibattito pubblico, che fotografa, per dirla romanzescamente, “Un paisi indove tutti s’improvvisano poliziotti, midici legali, giudici e piemme, dividennosi in colpevolisti e innocentisti con la stessa ‘ntensità dei tifosi che vanno alla partita di calcio”.[1]

La prima reazione è arrivata da quella parte di opinione pubblica conservatrice, filocattolica, che non ha risparmiato critiche e attacchi alle linee di nuovo conio.

Le perplessità di tale corrente non sono tanto concentrate sul vero e proprio diritto all’aborto, ma questa volta si soffermano particolarmente sui rischi, sugli effetti collaterali che deriverebbero alle gestanti dalle nuove modalità di somministrazione del farmaco RU486.

Nondimeno, cospicuo è il personale medico-sanitario che segue questa linea, asserendo che non sia questo un passo in avanti a favore della salute e della libera autodeterminazione delle donne, bensì che a queste ultime vengano sottratte delle tutele: ciò perché una volta sottopostesi all’aborto farmacologico in consultorio o ambulatorio, ognuna di loro potrà regolarmente rientrare nella propria abitazione e sottoporsi, dopo due settimane, alla visita di controllo. L’aborto diverrebbe così un fatto meramente privato che le donne si troverebbero ad affrontare completamente in solitudine.

Sempre secondo questa tesi, vi sono delle criticità di natura psicofisica, derivanti certamente dalla riduzione del tempo trascorso presso il nosocomio, da cui consegue che la donna effettui il resto dell’iter in autonomia.

Pertanto, le nuove direttive banalizzerebbero un fenomeno così rilevante quale è l’aborto, e non considerano i rischi potenziali che potrebbero pregiudicare la salute delle donne in gravidanza. Accanto alle perplessità concernenti lo status psicologico ed emotivo delle donne che si sottopongono ad Ivg farmacologica, non mancano quelle inerenti gli effetti collaterali di natura fisiologica (crampi, emorragia, nausee, in qualche caso fibrillazione, ecc.).

Ciononostante, esiste una fetta di personale medico-sanitario (e, parallelamente, di dottrina e di organi di stampa) che ha invece calorosamente accolto le nuove linee guida, sottolineando che esse rappresentino un giro di boa, un passo importante per la tutela della salute e dei diritti delle donne, nel pieno rispetto della legge n. 194/1978.

Già nel mese di aprile le società scientifiche di ginecologia ed ostetricia si erano esposte in tal senso: sia il presidente di Sigo (Società Italiana di Ginecologia ed Ostetricia) sia il presidente di Augui (Associazione Ginecologi Universitari Italiani), manifestavano perplessità circa il ricorso al tradizionale aborto chirurgico poiché quest’ultimo esige numerosi accessi ambulatoriali, non solo per certificazione e datazione, ma anche per le indagini pre-operatorie oltre all’accesso per l’esecuzione della procedura, esponendo quindi la donna ad un numero eccessivo di contatti con le strutture sanitarie, che sicuramente non contribuiscono alla riduzione del rischio di contagio del Coronavirus.

Peraltro, secondo i due esponenti di detti organi scientifici, le maggiori difficoltà che le donne incontrano nell’accesso ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza, rischiano di determinare il superamento dei limiti temporali previsti dalla legge 194, comportando, altresì, un rischio maggiore per le donne che vivono in condizioni di alta marginalità e vulnerabilità, quali violenza domestica, condizioni precarie di salute o positività al Covid-19.

In buona sostanza, i surrichiamati enti di ostetricia e ginecologia prediligevano già prima delle linee di nuovo conio l’Ivg di tipo farmacologico in luogo di quello chirurgico, favorendo, senza remore, una maggiore diffusione di una procedura che- stando ai dati- fino ad ora ha avuto un ruolo marginale.

Detti organi, all’indomani della pubblicazione delle linee ministeriali, hanno ribadito ulteriormente che gli effetti collaterali conseguenziali all’aborto farmacologico non sono differenti da quelli scaturenti dall’aborto chirurgico, e che pertanto il primo debba essere considerato preferibile al secondo, poiché la donna, con la pillola RU486, non correrà rischi legati all’intervento, all’anestesia e –da ultimo- in epoca pandemica, all’ospedalizzazione.

Tutto quanto esposto risulta essere suffragato dalla più autorevole lettura scientifica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha ritenuto la pratica in questione tanto più sicura dell’aborto chirurgico al punto di includere i farmaci abortivi mifepristone e misoprostolo (pillola RU486) nella lista dei farmaci essenziali.

Meritevoli di attenzione sono, altresì, alcuni dati statistici: stando a quanto rilevato dall’Istat, in circa il 96,5% dei casi non vi sono state complicanze immediate alla somministrazione dei due farmaci (l’uno a distanza di 48 ore dall’altro) e solo nel 2,4% dei casi è stato necessario ricorrere all’isterosuzione o alla revisione della cavità uterina per completare l’intervento, ragion per cui già prima delle linee di nuovo conio alcune regioni si erano parzialmente discostate dal precedente iter, introducendo il regime di ricovero in day hospital.

Nelle regioni in cui era ancora fermo l’obbligo di ricovero ospedaliero della durata di tre giorni, le donne comunque aggiravano puntualmente il problema firmando le dimissioni volontarie subito dopo l’assunzione del primo farmaco e prenotando un nuovo ricovero, a distanza di 48 ore, per completare l’iter procedurale: difatti, da un resoconto pubblicato dal Ministero della Salute sull’Ivg di tipo farmacologico, risulta che tale opzione in dette regioni veniva preferita da tre donne su quattro.

Nondimeno, va tenuto conto anche dei dati concernenti la tipologia di aborto scelta dalle donne nel nostro paese: l’iter farmacologico attualmente è preferito dalla minoranza, poiché a farne ricorso è il 20,7% delle donne che scelgono l’Ivg.

Al fine di una più completa analisi della questione, meritevole di attenzione sono inoltre i dati sull’aborto in generale.

In primis, sempre da quanto riportato dall’ Istat, nel 2018 il ricorso all’Ivg ha subìto un calo di circa il 5% rispetto all’anno precedente. Più nel dettaglio, nel 2018 è inoltre calato il tasso di abortività (principale indicatore per le Ivg), passato da 6,2 a 6,0 Ivg per 1000 donne, uno dei valori più bassi a livello europeo.

Peraltro, tra il 2017 e il 2018 è diminuito anche il rapporto di abortività (numero di IVG rispetto a 1000 nati vivi), passato da 177,1 a 173,8; detti fattori di riduzione sono da un lato, ipoteticamente conseguenziali all’aumento del ricorso a metodi contraccettivi, dall’altro potrebbero derivare da aborti illegali.

In sostanza, la tipologia di Ivg più utilizzata è allo stato attuale quella chirurgica: sempre nell’anno 2018, il 63,6% di aborti sono avvenuti per isterosuzione, permanendo un 10,8% di interventi effettuati con raschiamento, ritenuti, nel panorama medico-ginecologico, quelli più invasivi e rischiosi.

Dall’analisi incrociata dei dati appena riportati e da quanto risultante dalle nuove linee guida, chi scrive denota elementi, in parte, di tranquillità.

Invero, il Ministero della Salute nel nuovo provvedimento specifica che il nuovo iter debba sempre avvenire con un monitoraggio continuo ed approfondito della salute psicofisica della donna che intenda interrompere volontariamente la gravidanza, avendo particolare riguardo agli effetti collaterali conseguenti all’estensione del periodo in cui è consentito sottoporsi a detto particolare trattamento.

Da ultimo, ma non certo per rilevanza, va citata la critica al Ministero della Salute legata al fattore economico: le nuove linee di indirizzo comportano certamente un risparmio per il nostro Servizio Sanitario Nazionale.

Se da un lato la parte medico-ginecologica e la stampa laica che hanno accolto le nuove misure interpretano detto risparmio come un fattore positivo, non è dello stesso avviso, dall’altro, quell’ala di opinione pubblica conservatrice, di cui massima espressione è il Vaticano con tutte le articolazioni ad esso connesse, quali medici obiettori di coscienza, università cattoliche, associazioni pro-vita, ecc.

Le motivazioni sono, in generale, le medesime di cui già si è detto, cioè si assisterebbe alla banalizzazione di un fatto delicato quale è l’aborto, pregiudicando la tutela delle donne solo ed esclusivamente- a loro dire- per ragioni ideologiche e di risparmio economico, invitando così le interessate ad interrompere la gravidanza con meno tutele, meno sicurezza e con più “leggerezza”, il tutto al fine di liberare gli ospedali da “questo fastidioso ingombro che è l’aborto”. In realtà, con le nuove linee di indirizzo, a parere di chi scrive, l’Italia si è in primo luogo conformata alla maggioranza dei paesi europei.

A ciò si deve comunque aggiungere che il nuovo orientamento è perfettamente in linea con altri provvedimenti che Ministero della Salute ha adottato il 30.03.2020, precisamente due documenti attestanti l’indifferibilità di alcune prestazioni ostetriche e ginecologiche. Tra queste, compaiono come “attività non procrastinabili” sia il certificato di interruzione volontaria di gravidanza con eco datazione, sia il servizio di interruzione volontaria di gravidanza.

Alla luce di tutto quanto fino ad ora esposto, una considerazione è d’obbligo. Sebbene le novità ministeriali non debbano in alcun modo esporre a maggior rischio le donne che intendano abortire farmacologicamente -e quindi è sempre necessario valutare caso per caso i rischi sia psico-emotivi che fisici derivanti da detta procedura-, è altrettanto onesto intellettualmente rilevare che il circuito medico, sociale e politico che ha mal reagito alle linee in questione, è quello cattolico-conservatore, nonché il medesimo che tradizionalmente si proclama antiabortista, che non vede di buon occhio neppure la legge n. 194/1978 e che, ancora oggi, a distanza di quarant’anni dalla entrata in vigore di quest’ultima, considera l’Ivg un omicidio a tutti gli effetti, e per di più -di solito- non è neppure favorevole al ricorso a pratiche contraccettive.

Potrebbe dedursi, invero, che solo ad apparentemente questa sia una critica incentrata sulla tutela della salute delle donne: forse, anche questa volta, ci troviamo dinanzi ad una mera reazione (polemica) ideologica.

2. Le difficoltà applicative delle nuove linee guida ministeriali. L’antefatto della Regione Umbria e il caso della Regione Piemonte

Al di là delle opinioni politiche e dei vari orientamenti ideologici, è abbastanza evidente oramai che le direttive di nuovo conio di cui si discute abbiano introdotto delle novità non indifferenti in materia, che inevitabilmente produrranno degli effetti nella realtà. Al fine di porre in evidenza le difficoltà applicative di detto provvedimento (e in generale, della legge 194/198) è opportuno avere come riferimento un particolare episodio, che, seppur parzialmente, ha avuto influenza sulla scelta- operata dal Ministro della Salute- di chiedere parere al Consiglio Superiore di Sanità in merito alle modalità di somministrazione della pillola RU486.

Difatti, il consulto in questione richiesto, non deriva unicamente dalla raccomandazione formulata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma anche da una vicenda ben precisa, verificatasi durante la c.d. “fase due” dell’emergenza pandemica.

Occorre premettere che, dal dicembre 2018, nella regione Umbria era già possibile accedere all’aborto medico in regime di day hosiptal, nonostante le linee di indirizzo del 2010- all’epoca vigenti- raccomandassero, appunto, alle regioni, il ricovero ordinario di tre giorni. E’ necessario rilevare che il discostamento operato da detti enti regionali (nello specifico, Lombardia, Toscana, Emilia-Romagna, Lazio, e appunto Umbria) dalle linee ministeriali, non è da ritenersi illegittimo, ma bensì ha trovato il proprio fondamento giuridico nel testo dell’art. 15 l. 194/1978: “Le regioni, d’intesa con le università e con gli enti ospedalieri, promuovono l’aggiornamento del personale sanitario ed esercente le arti ausiliarie sui problemi della procreazione cosciente e responsabile, sui metodi anticoncezionali, sul decorso della gravidanza, sul parto e sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza. Le regioni promuovono inoltre corsi ed incontri ai quali possono partecipare sia il personale sanitario ed esercente le arti ausiliarie sia le persone interessate ad approfondire le questioni relative all’educazione sessuale, al decorso della gravidanza, al parto, ai metodi anticoncezionali e alle tecniche per l’interruzione della gravidanza. Al fine di garantire quanto disposto dagli articoli 2 e 5, le regioni redigono un programma annuale d’aggiornamento  e di informazione sulla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali esistenti nel territorio regionale”.

Quanto previsto da detta norma ha perfettamente trovato riscontro nella realtà, giacché proprio a partire dalle sperimentazioni in deroga della disciplina nazionale ad opera delle Regioni e dalla pratica clinica è stato confermato che per la nuova modalità di interruzione della gravidanza, di norma, il regime di ricovero ordinario risulta meno appropriato in ragione delle differenze strutturali tra la procedura farmacologica e quella chirurgica.

Tuttavia, il 10 giugno 2020, la Giunta Regionale umbra ha approvato una delibera di contenuto opposto a quella di dicembre 2018, con cui sostanzialmente è stato operato il riadeguamento alle linee di indirizzo nazionali, ritornando pertanto al regime originario di ricovero di tre giorni. Dunque, il parere richiesto al Consiglio Superiore di Sanità, è derivato anche da questa vicenda, oltre che dalle perplessità manifestate dall’OMS.

La Giunta della Regione Umbria, a suffragio del proprio operato, ha ritenuto che la delibera fosse un riadeguamento a quelle che allora erano le linee nazionali vigenti.

Coerentemente, seppur mal digerendo il contenuto delle direttive di nuovo conio, l’ente regionale ha provveduto a conformarsi all’odierno indirizzo.

Al contrario, la Regione Piemonte ha invece provveduto a discostarsene, seppur solo parzialmente: con una circolare pubblicata lo scorso 2 ottobre inoltrata alle ASL e alle AO, la Giunta Regionale piemontese ha disposto l’obbligo dell’interruzione di gravidanza in ambito ospedaliero, pur non vietando completamente il regime di day hospital, stabilendo, difatti, che le modalità di ricovero siano valutate, caso per caso, dal medico e dalla direzione sanitaria.

La non condivisione del contenuto delle linee ministeriali, ha rappresentato, sia da un lato sia dall’altro, una reazione di tipo ideologico, atteso che nessuna delle due giunte, all’indomani dei propri provvedimenti, è riuscita a fornire particolari motivazioni di tipo tecnico-sanitario per giustificare le proprie iniziative.

I due enti regionali hanno motivato i propri documenti avvalorando la tesi conservatrice-cattolica di cui sopra, facendo anche leva sul rispetto della tutela dell’integrità fisica e psichica della donna, prevista dalla legge 194; inoltre, a differenza di quanto accaduto in Umbria, nel secondo caso, si è trattato più che altro di una forma di rivendicazione della potestà legislativa regionale in materia sanitaria, almeno ciò è quanto è stato asserito dalla Giunta, dal Presidente e dalla maggioranza del Consiglio Regionale.

Peraltro, la circolare piemontese si appalesa, a sommesso parere di chi scrive, illegittima sotto alcuni profili.

In primis, va rilevato il riferimento normativo attorno a cui ruota il provvedimento (e attorno a cui ruotava, allo stesso modo, la delibera umbra).

Secondo la Giunta piemontese, le linee pubblicate dal Ministero della Salute il 12 agosto 2020, sarebbero in contrasto con quanto previsto dall’art. 8 l. 194/1978, secondo cui “l’interruzione di gravidanza è praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale […]”.

Indi, il contenuto della summenzionata norma sarebbe stato disatteso dalle linee ministeriali nella parte in cui queste ultime prevedono che la pillola possa essere somministrata anche in consultorio. Invero, la tesi sostenuta dalla Giunta Regionale in questione, è pressochè medesimamente sposata da quella parte di dottrina che manifesta perplessità sul documento ministeriale.

In altre parole, i sostenitori di questo orientamento interpretano restrittivamente la formula “presso un ospedale”, poiché essa non fa quindi riferimento alla strutturazione professionale (“presso una struttura ospedaliera”) del medico autorizzato a praticare l’Ivg (ossia un ginecologo ospedaliero), ma ritiene che esso debba essere ritenuto il luogo(quindi le strutture sanitarie individuate dall’art. 8) dove deve svolgersi tutta la procedura “dal momento dell’assunzione del farmaco fino alla verifica dell’espulsione del prodotto del concepimento”.

Teoria, questa, a cui obietta altra parte della dottrina, che ha dato un’interpretazione di tipo estensivo a detta norma, asserendo che la formula del surricchiamato art. 8 vada intesa in senso opposto, e che pertanto, la dicitura “medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale” andrebbe a delimitare i requisiti connotanti il medico idoneo ad effettuare la pratica, e non già il luogo materiale in cui debba essere perfezionato tutto l’iter, che dura, per l’appunto, dal momento in cui viene assunto il farmaco all’espulsione del prodotto del concepimento.

Sebbene la legge 194 quest’anno abbia spento quarantadue candeline, il dibattito sull’interpretazione dell’art. 8 non si è mai concluso, ragion per cui, sotto questo particolare aspetto, non è possibile nutrire certezze circa la legittimità o meno della circolare regionale piemontese.

Difatti, se è vero che ai sensi del già citato art. 117 comma 2 Cost., lo Stato in materia sanitaria detta i princìpi generali a cui le regioni debbono adeguarsi allorquando queste ultime emanino le norme di dettaglio, non si può negare che l’atteggiamento della Giunta Regionale piemontese potrebbe forse rappresentare un precedente pericoloso.

Da un punto di vista strettamente sostanziale, la circolare di cui si discute non dovrebbe destare preoccupazione, poiché, come già sostenuto da alcuni ginecologi piemontesi e anche da parte della dottrina, con detto provvedimento, concretamente, cambierà poco.

Non vi è difatti uno sradicamento totale della natura delle linee ministeriali, semplicemente le nuove modalità di assunzione della pillola RU486 non troveranno applicazione diretta, ma sarà il medico competente o la direzione sanitaria a valutare, caso per caso, quale tipologia di ricovero sia opportuna.

Nonostante questo particolare aspetto rassicurante, però, non è comunque da escludere che altri enti regionali possano scegliere di seguire questa linea, e a quel punto verrà a costituirsi, inevitabilmente, una disparità di trattamento.

Verrebbe così pregiudicato l’esercizio del diritto all’aborto medico nella sua interezza, poiché vi saranno donne che non godranno del diritto all’Ivg farmacologica nei medesimi termini in cui ne godono altre donne, e a determinare la distinzione di trattamento di queste ultime sarà unicamente l’ente regionale di riferimento.

Se è vero che ad oggi non è possibile asserire con certezza la legittimità costituzionale di questa particolare disposizione della circolare, a parere di chi scrive, è altrettanto vero che non vi dovrebbero essere dubbi sull’illegittimità costituzionale del restante contenuto della circolare. Difatti, dopo aver parzialmente vietato l’aborto medico in ambulatorio e nei consultori, il documento regionale in questione prevede l’attivazione di sportelli informativi all’interno degli ospedali piemontesi, consentita ad idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato; inoltre, dette associazioni, potranno anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita.

Non risulta particolarmente complesso che dette disposizioni siano del tutto irragionevolmente contrastanti con l’inviolabile principio di laicità costituzionale, desumibile dagli articoli 7,8 e 19 della Carta.

La lapalissiana violazione di detto principio, consiste nell’avere la pretesa di insediare in tutti i presidi ospedalieri, senza distinzione tra strutture pubbliche e private, detti sportelli pro-life, tutti di matrice cattolica, quindi religiosa.

Nel rispetto delle surrichiamate norme costituzionali, le strutture sanitarie pubbliche non possono in alcun modo relegare propri spazi né a detti sportelli né a qualunque associazione di tipo religioso.

La violazione riguarderebbe comunque anche le strutture private, poiché è altresì illegittimo che qualunque norma, sia essa statale o regionale, vada ad imporre ad una qualunque struttura la relegazione di propri spazi per qualunque associazione, ente o sportello di matrice religiosa, poiché è nel pieno diritto del nosocomio privato scegliere se appoggiare o meno determinate iniziative religiose.

Da non dimenticare comunque che, allorquando dovesse cadere l’obbligatorietà di attivazione dei sportelli in questione, anche se una struttura ospedaliera privata dovesse decidere di procedere con l’attivazione, vi saranno sempre i limite legislativi previsti dall’art. 9 l. 194/1978 in materia di obiezione di coscienza, che al secondo e terzo comma così recita: “L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento.

Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale.”.

Limiti, questi ultimi, che dovrebbero essere invalicabili, ma, come si vedrà, spesso le disposizioni sopracitate vengono disattese dal personale sanitario obiettore, pregiudicando, pertanto, il pieno e libero esercizio del diritto ad interrompere volontariamente la gravidanza.

3. Tra interventi giurisprudenziali e criticità della realtà quotidiana: la fragile rete della legge 194

Come abbondantemente ribadito sopra, il dibattito giurisprudenziale e dottrinale sulla legge n. 194/1978 non è mai tramontato, sebbene quest’ultima sia oramai in vigore da più di quarant’anni. Invero, già la nascita stessa della legge, la si deve ad un intervento della Corte Costituzionale, la quale, con la sentenza n. 27/1975, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 546 c.p. “nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venir interrotta quando l’ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo grave, medicalmente accertato … e non altrimenti evitabile per la salute della madre”.

Da detta sentenza, ha tratto le proprie origini la legge 194, che, assieme al referendum sul divorzio del 1974, è considerata una tappa che ha rappresentato un cambio di passo per la storia d’Italia, una rivoluzione culturale che ha radicalmente mutato l’approccio dell’opinione pubblica ai diritti civili.

Una svolta politica e sociale che ha trovato, tre anni dopo la sua entrata in vigore, piena legittimazione popolare, con il referendum sull’aborto del 1981.

Nonostante la sua forte rilevanza storico-giuridica, va ribadito che sin dalla sua approvazione, -a causa principalmente delle forti reazioni provenienti dal filone politico conservatore-cattolico e dal Vaticano- la legge in questione ha da subito palesato criticità di tipo applicativo, emergendo, di conseguenza, una rete molto fragile che troppo spesso rischia di essere spezzata, e proprio per tal ragione andrebbe irrobustita non più con innumerevoli pronunce giurisprudenziali, bensì attraverso un intervento parlamentare organico.

Va altresì osservato, per dovere di cronaca, che a causa della percentuale elevata di personale obiettore nelle strutture ospedaliere, non sono mancate le circostanze in cui il nostro paese è stato “bacchettato” in materia di Ivg.

Tra tutte, spiccano maggiormente due decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali con cui, nel 2014 e nel 2016, è stata accertata la violazione, da parte del nostro ordinamento, dei diritti proclamati dalla Carta Sociale Europea, a causa della mancanza di effettività nell’applicazione della legge sull’interruzione di gravidanza.

In sintesi, il Comitato ha confermato quanto asserito dalla CGIL e dalle altre associazioni ricorrenti, le quali hanno sostenuto che l’art. 9 della legge 194/1978, riguardante l’esercizio dell’obiezione di coscienza, confliggesse con le disposizioni della Carta Sociale Europea (precisamente, con l’art. 11 in combinato disposto con l’art. E), atteso che dette disposizioni disciplinano il principio di non discriminazione sul posto di lavoro tra personale medico-sanitario obiettore e non obiettore.

Dunque, appare opportuno ora analizzare tre emblematici dei diversi (eccessivi) interventi giurisprudenziali in materia di interruzione volontaria di gravidanza, al fine di cogliere le pragmatiche difficoltà applicative della legge 194, e, nondimeno, approfondire le criticità derivanti dall’ardua convivenza tra il diritto all’aborto e l’esercizio dell’obiezione di coscienza dal punto di vista giuridico-costituzionale; convivenza, questa, destinata a subire dei cambiamenti alla luce delle nuove linee guida ministeriali circa l’assunzione della pillola RU486.

In particolare, verranno attenzionate una sentenza del T.a.r. Lazio, una del T.a.r. Puglia ed una particolare ordinanza emessa dalla Corte Costituzionale.

Tali decisioni, sono accomunate dall’aver dovuto affrontare, sia direttamente che indirettamente, i problemi derivanti da alcune modalità di esercizio dell’obiezione di coscienza: modalità che, non di rado, hanno ostacolato e ostacolano il pieno godimento del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza.

3.1 Il riordino delle attività dei consultori nella Regione Lazio e nella Regione Puglia: le sentenze nn. 3477/2010 e 8990/2016

“Un concorso scomodo”, “un attentato alla libertà di coscienza dell’individuo” “uno snaturamento della legge 194”: sono solo alcune delle fortissime reazioni derivanti dalla procedura ad evidenza pubblica bandita dall’ospedale “San Camillo- Forlanini” di Roma nel 2015, che ha avuto come oggetto l’assunzione a tempo indeterminato di due medici ginecologi non obiettori.

Nel 2017, terminata la procedura concorsuale, i due ginecologi risultati vincitori sono stati regolarmente assunti, e, per espressa previsione contrattuale, l’eventuale esercizio dell’ obiezione di coscienza per i primi sei mesi era da ritenersi causa di risoluzione del contratto per inadempimento (da cui sarebbe derivato, di conseguenza, il licenziamento); trascorsi i sei mesi, il rifiuto dei due medici di effettuare interruzioni volontarie di gravidanza avrebbe potuto (e potrebbe) invece portare alla mobilità o alla messa in esubero.

Già prima del 2015 era stato effettuato lo stesso tentativo da altro ente regionale, il quale, a differenza di quello del nosocomio romano, non è andato a buon fine.

Difatti, con la Delibera di Giunta n. 735 pubblicata il 15 marzo 2010, la Regione Puglia, nel riorganizzare l’attività dei consultori, ha bandito un concorso finalizzato all’assunzione di quattro ostetriche e due medici ginecologi non obiettori di coscienza, da destinare ad attività consultoriali presso l’ASP Bari e ai Consultori Interdistrettuali dedicati alla popolazione migrante.

In capo a chi legge potrebbe sorgere spontanea una domanda: perché porre in essere dei bandi di questa portata? Era necessario bandire dei concorsi che, almeno (come si vedrà) secondo un collegio giudicante, risultano essere discriminatori in quanto limitativi a priori della libertà di coscienza del personale medico-sanitario?

Chi scrive non ha ovviamente risposte da offrire in merito, ma azzarda ad affermare che se non necessario (e con ogni probabilità lo è stato), stando alle preoccupanti percentuali, la scelta di procedere in tal senso si appalesa sicuramente comprensibile, sia nel caso del Lazio sia nel caso della Puglia: in entrambe le regioni, al momento della pubblicazione dei rispettivi bandi, l’obiezione di coscienza era praticata da circa l’80% del personale medico-sanitario ( e attualmente le percentuali non sono poi così differenti rispetto ad allora).

Sia il Commissario ad Acta della Regione Lazio sia la Giunta Regionale pugliese, dagli attacchi provenienti dalla corrente cattolica-antiabortista si sono sostanzialmente difesi avvalorando le stesse argomentazioni: il numero esorbitante di personale obiettore limita la piena applicazione della 194, ragion per cui la ratio di tali scelte non va ricercata in motivazioni ideologiche, al contrario, l’unica finalità di detti provvedimenti altro non è stata che il rispetto della citata legge. Nonostante il leitmotiv dei due documenti fosse identico sul piano sostanziale, i due tribunali aditi sono giunti a conclusioni diametralmente opposte: il T.a.r. Lazio ha ritenuto legittimo il provvedimento che verrà a breve esaminato; il T.a.r. Puglia, per contro, ha dichiarato illegittimo il bando di concorso, poiché lo ha ritenuto discriminatorio nei confronti dei medici obiettori.

In ragione di ciò, il tribunale amministrativo ha anche obbligato la Regione Puglia a riaprire i termini per presentare domanda, in modo che il personale ostetrico e ginecologico obiettore di coscienza, rimasto escluso in un primo momento, potesse partecipare alla procedura concorsuale. Venendo all’analisi del contenuto delle due pronunce, va rilevato, in primis, che già al momento della pubblicazione del bando nella Regione Lazio i rapporti tra corrente abortista e antiabortista erano particolarmente tesi da circa un anno: nel 2014, all’interno Bollettino Ufficiale regionale, è stato pubblicato un decreto emanato dal Commissario ad Acta rubricato “linee di indirizzo della regione Lazio per l’attività dei consultori familiari”, finalizzato a riordinare le funzioni e le attività dei consultori regionali in generale, riguardanti, inevitabilmente, anche l’obiezione di coscienza di tipo medico e le conseguenze derivanti sul percorso assistenziale della donna richiedente l’Ivg. Il summenzionato decreto, impugnato dinanzi al T.a.r. Lazio, ha previsto l’obbligatorietà per tutto il personale medico-sanitario esercente presso i consultori (quindi anche per quello obiettore) di prescrivere sempre i farmaci contraccettivi e di rilasciare certificati attestanti la volontà di abortire allorquando venissero richiesti.

Dunque, essendo stata esclusa la possibilità di sollevare in detti casi l’obiezione di coscienza, le associazioni e movimenti per la vita ed organizzazioni di ginecologi e giuristi cattolici che hanno impugnato il decreto, hanno sostenuto in sede di impugnazione che quest’ultimo dovesse considerarsi illegittimo poiché tali previsioni obbligatorie avrebbero comportato ripercussioni negative sui medici obiettori, i quali sarebbero stati spinti a non chiedere più l’assunzione in un consultorio familiare pubblico della Regione Lazio o a dimettersi da esso o a violare il dettato della propria coscienza.

Dal punto di vista legislativo, i ricorrenti hanno dedotto il contrasto di dette prescrizioni con gli artt. 2, 5 e 9 della legge n. 194/1978 (in particolar modo il primo e il terzo comma di quest’ultimo articolo, considerato che il decreto regionale ha disposto l’obbligo anche per il personale obiettore di prescrivere farmaci contraccettivi), aggiungendo, altresì, violazione di princìpi costituzionali e comunitari, quali gli artt. 2, 19 e 21 Cost. e l’art. 10 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE. Già in sede cautelare, quanto lamentato dai ricorrenti è stato disatteso dall’organo giudicante, il quale ha rigettato l’istanza avente oggetto la sospensione del provvedimento; infine, il contenzioso si è concluso con sentenza pronunciata il 5 luglio 2016 (e pubblicata il successivo 2 agosto) con rigetto del ricorso.

Dunque, appaiono meritevoli di attenzione i motivi della sentenza con cui i giudici amministrativi hanno statuito che l’operato della Regione Lazio fosse conforme alla legge, giudicando, difatti, il ricorso infondato.

In primis, ritenendo le doglianze estranee dal contesto in cui si è collocato il decreto commissariale impugnato, secondo il giudicante, la prescrizione di farmaci contraccettivi (quale ad esempio la c.d. “pillola del giorno dopo”) o il rilascio del certificato dello stato di gravidanza o l’attestazione della volontà della donna ad interromperla, rientrano nell’adempimento dei doveri professionali inerenti la professione medico-specialistica, dunque dette pratiche non appaiono in alcun modo idonee a comprimere l’obiezione di coscienza.

Pertanto, queste ultime nulla hanno a che vedere con la disposizione di cui all’art. 9 l. 194/1978, la quale, si ribadisce, al terzo comma prevede che il personale obiettore è da ritenersi esonerato dalle “attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento.”

Difatti, detto motivo di ricorso, sotto questo particolare profilo, è da considerarsi manifestamente irragionevole, atteso che il decreto commissariale non riguarda l’interruzione di gravidanza strictu sensu (e non avrebbe potuto, considerato che all’epoca dei fatti non vigevano neppure le linee guida attuali in materia pillola RU486), bensì ha riguardato (e riguarda) il rilascio di certificati attestanti la gravidanza o la relativa volontà di abortire o la prescrizione di farmaci contraccettivi, i quali, appunto, non comportano l’interruzione di gravidanza. Sul punto, il T.a.r. Lazio si è così pronunciato: “Nell’estrema delicatezza dell’argomento trattato, mentre il medico o l’operatore di un Consultorio che abbiano proposto la preventiva dichiarazione di obiezione di coscienza devono essere esonerati dal compimento delle procedure e delle attività volte a dare “specificamente e necessariamente” pratica attuazione all’interruzione di gravidanza, non sono invece esonerati “dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”. Nel caso in specie dunque la disposizione del decreto commissariale impugnato con la quale si è consentito che il medico obiettore di coscienza rilasci il certificato dello stato di gravidanza della donna interessata o ne attesti la volontà di interrompere la gravidanza, comportano adempimento ai doveri professionali implicando quella serie di conoscenze mediche specialistiche che caratterizzano più propriamente la professione medica e non appaiono determinare la compressione della libertà di coscienza, laddove non siano rivolte ad attuare “specificamente e necessariamente” l’interruzione di gravidanza, ma a prestare la necessaria “assistenza antecedente e seguente all’intervento”, posto soprattutto che la decisione relativa alla interruzione della gravidanza pure in presenza di detta certificazione, spetta all’interessata che può recedere da tale proposito.”.

V’è di più. Con tale pronuncia, i giudici amministrativi hanno ribadito quanto già abbondantemente chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione sotto il profilo penale, superando (in parte) l’ennesimo scoglio troppo spesso emerso nelle aule di tribunale: l’obiezione di coscienza incontra un limite invalicabile nel suo esercizio, da ravvisarsi nel reato di omissione di atti d’ufficio di cui all’art. 328 c.p.

Difatti, la giurisprudenza di legittimità individua tale confine nell’atto “direttamente ed astrattamente idoneo a produrre l’evento interruttivo” non potendosi dunque risolvere in una “attività preparatoria e fungibile non dotata di rilevanza causale e diretta” all’aborto.

Emblematico, a riguardo, è un particolare passo di una sentenza emessa della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, che il T.a.r. del Lazio ha posto a fondamento delle proprie argomentazioni, a conferma della piena legittimità del decreto commissariale oggetto del giudizio: “Integra il delitto previsto e punito dalla norma di cui all’art. 328 c.p. il rifiuto del medico di guardia, obiettore di coscienza, di intervenire per prestare necessaria assistenza alla degente nella fase successiva all’aborto indotto per via farmacologica da altro sanitario (cd. secondamento), e dunque in una fase non diretta a determinare l’interruzione della gravidanza. Il diritto di obiezione di coscienza, invero, non può intendersi in modo tale da esonerare il medico dall’intervenire durante l’intero procedimento di interruzione volontaria della gravidanza, in quanto si tratta di interpretazione che non trova alcun appiglio nella disciplina di cui alla legge n. 194 del 1978, la quale prevede che il diritto di obiezione di coscienza trova il suo limite nella tutela della salute della donna.” (Cass. Pen. Sez. III 2 aprile 2013 n. 14979).

Ma il vero clou delle enunciazioni dei giudici amministrativi, si ravvisa nel ritenere infondato il secondo motivo di ricorso, riguardante forse il punto cruciale di tutto dibattito, la domanda più scottante, più scomoda: l’embrione già formato è da considerarsi persona a tutti gli effetti?

Com’è noto, alla domanda c’è chi risponde positivamente e chi negativamente.

Eppure, sul punto, la sentenza in questione disvela un procedimento logico-giuridico che potrebbe condurre (purtroppo solo apparentemente) ad una risposta definitiva, che risolva, finalmente, tutti gli innumerevoli contrasti giurisprudenziali e dottrinali succedutesi nel tempo.

I ricorrenti hanno lamentato l’illegittimità del provvedimento regionale nella parte in cui quest’ultimo obblighi anche il personale obiettore alla prescrizione dei c.d. “contraccettivi post-coitali”, in quanto nel novero di tali farmaci vi rientrerebbero quelli contenenti sostanze idonee a provocare la morte dell’embrione già formato.

Sul punto, il collegio giudicante ha ritenuto infondata tale doglianza sulla base della già citata sentenza n. 27/1975, in cui la Corte Costituzionale ha escluso “l’equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare.” (Corte Cost. 18 febbraio 1975 n. 27).

Dunque, alla luce di quanto esposto, le argomentazioni e le motivazioni del T.a.r. Lazio enunciate nella sentenza esaminata si ritengono condivisibili, tenuto conto anche di altri rilevanti ed innovativi orientamenti della giurisprudenza amministrativa e di legittimità, i quali hanno fortemente contribuito ad individuare i termini entro i quali possa essere esercitata l’obiezione del medico ginecologo di un consultorio, la quale va coniugata col diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione.

Viene in rilievo, a riguardo, un indirizzo della Suprema Corte, la quale, pronunciandosi in materia di risarcimento del danno derivante da nascita indesiderata per la mancata corretta diagnosi di accertamento di una malformazione congenita del concepito, ha rilevato che “nel bilanciamento tra il valore (e la tutela) della salute della donna e il valore (e la tutela) del concepito l’ordinamento consente alla madre di autodeterminarsi ricorrendone le condizioni richieste ex lege a richiedere l’interruzione della gravidanza.” (Cass. Civ. Sez. III, 2 ottobre 2012, n. 17754).

Parallelamente, nel panorama giurisprudenziale amministrativo, sempre il TAR Lazio, in occasione di giudizio di legittimità di un decreto ministeriale di autorizzazione alla immissione in commercio di un farmaco considerato abortivo dal ricorrente, ha statuito come segue: “Le norme di rango costituzionale invocate (diritto alla esistenza e alla salute) non recano una nozione certa circa il momento iniziale della vita umana e l’estensione dell’ambito di tutela nel corso del suo sviluppo. (TAR Lazio, Sez. I, 12 ottobre 2001, n. 8465).

Inoltre, nel corpo della stessa sentenza, i giudici amministrativi si sono pronunciati come segue: “L’esame sistematico della regolamentazione dettata dalla legge n. 194/1978, induce a ritenere che il legislatore abbia inteso quale evento interruttivo della gravidanza quello che interviene in una fase successiva all’annidamento dell’ovulo nell’utero materno. Tale conclusione è avvalorata dall’art. 8 della legge n. 194/1978 che in dettaglio prende in considerazione le modalità interruttive della gravidanza e ne impone l’effettuazione con l’intervento di un medico specialista ed all’interno di strutture ospedaliere o case di cura autorizzate, circostanze non peculiari alle metodiche anticoncezionali i cui effetti si esplicano in una fase anteriore all’annidamento dell’ovulo.”

Orbene, da non sottovalutare è il seguito della vicenda analizzata.

Il bando pubblico per la selezione di due ginecologi non obiettori presso l’ospedale “San Camillo-Forlanini”, malgrado le reazioni particolarmente intense (tra cui spiccano quelle dell’allora Ministro della Salute Beatrice Lorenzin, dell’ex presidente della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli, e della Conferenza Episcopale Italiana, i quali erano tutti concordi nel ritenere il bando illegittimo), non è mai stato impugnato.

Ad inizio 2017, espletate tutte le prove concorsuali, i due medici non obiettori sono stati regolarmente assunti: sorgerebbe spontaneo chiedersi il motivo della non impugnazione, considerate le varie polemiche scatenatisi sulla discriminazione operata dalla procedura nei confronti dei ginecologi obiettori.

La risposta, potrebbe forse ravvisarsi nel dato temporale, atteso che all’epoca della pubblicazione del bando di concorso era già pendente il giudizio dinanzi al T.a.r. Lazio inerente il decreto commissariale di cui sopra, dunque si potrebbe ipotizzare che i ricorrenti abbiano preferito attendere direttamente la relativa pronuncia anziché procedere a una nuova impugnazione, che avrebbe avuto, sotto molti profili, lo stesso oggetto.

Per contro, la sentenza n. 3477 del 14 settembre 2010 emessa dal T.a.r. Puglia, traccia un percorso diametralmente opposto rispetto a quello perimetrato dal T.a.r. Lazio.

Preliminarmente, va osservata una peculiarità riguardo il giudizio che adesso si esamina: la procedura di selezione pubblica, difatti, è stata impugnata da tutti i ginecologi iscritti all’Ordine dei Medici di Bari che hanno sollevato obiezione di coscienza ai sensi dell’art. 9 legge n. 194/1978 con espressa dichiarazione inviata al Dipartimento di Sanità Pubblica dell’ASP territorialmente competente, pur non avendo presentato domanda di partecipazione al concorso.

Tuttavia, il collegio giudicante ha ritenuto ammissibile il ricorso, atteso che la clausola secondo cui a presentare domanda fossero titolati solo i medici non obiettori, nel suo essere espulsiva e discriminatoria, ha impedito a priori ai medici obiettori di iscriversi al concorso.

Dunque, la pronuncia del T.a.r. Puglia, nel merito, deve ritenersi del tutto atipica, poiché i giudici amministrativi, pur accogliendo il ricorso e annullando la D.G.R n. 735/2010 (e tutti gli altri atti ad essa presupposti), causa la sua essenza discriminatoria nei confronti del personale ginecologico ed ostetrico obiettore di coscienza, hanno deciso comunque di dare piena attuazione alla legge 194.

Sul piano della disparità di trattamento tra medici obiettori e non obiettori, già in una precedente sentenza rispetto a quella esaminata, il T.a.r. aveva ritenuto fosse opportuno “aderire all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, quando la partecipazione alla procedura è preclusa dallo stesso bando, sussiste l’interesse a gravare la relativa determinazione a prescindere dalla mancata presentazione della domanda, posto che la presentazione della stessa si risolve in un adempimento formale inevitabilmente seguito da un atto di esclusione, con un risultato analogo a quello di un’originaria preclusione e perciò privo di una effettiva utilità pratica.” (Cons. Stato, Sez. V, 8 agosto 2005 n. 4207 e 4208; V, n. 7341, 11 novembre 2004; V, 11 febbraio 2005 n. 389; IV, 30 maggio 2005 n. 2804).

Tale orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato, condiviso dalla sezione giudicante del T.a.r. Puglia, pone il proprio fondamento in un’importante sentenza della Corte di Giustizia dell’UE in materia di gare ad evidenza pubblica, la quale, in uno dei passaggi principali, così recita: “Nell’ipotesi in cui un’impresa non abbia presentato un’offerta a causa della presenza di specifiche che asserisce discriminatorie nei documenti relativi al bando di gara o nel disciplinare, le quali le avrebbero per l’appunto impedito di essere in grado di fornire l’insieme delle prestazioni richieste, essa avrebbe tuttavia il diritto di presentare un ricorso direttamente avverso tali specifiche, e ciò prima ancora che si concluda il procedimento di aggiudicazione dell’appalto pubblico interessato. Infatti, da un lato, sarebbe eccessivo esigere che un’impresa che asserisce di essere lesa da clausole discriminatorie contenute nei documenti relativi al bando di gara, prima di poter utilizzare le procedure di ricorso previste dalla direttiva 89/665 contro tali specifiche, presenti un’offerta nell’ambito del procedimento di aggiudicazione dell’appalto di cui trattasi, quando le probabilità che le venga aggiudicato tale appalto sarebbero nulle a causa dell’esistenza delle dette specifiche. 30. Dall’altro, risulta chiaramente dal testo dell’art. 2, n. 1, lett. b), della direttiva 89/665 che le procedure di ricorso, che gli Stati membri devono organizzare in conformità a tale direttiva, devono consentire in particolare di annullare le decisioni illegittime, compresa la soppressione delle specificazioni tecniche, economiche o finanziarie discriminatorie.” (Corte di Giustizia UE n. 230/2004).

Dunque, se dalle enunciazioni giurisprudenziali sopra illustrate, sembrerebbe da un lato che i giudici amministrativi vadano a tutelare e proteggere l’esercizio dell’obiezione di coscienza dei medici esclusi dal concorso, (che tra l’altro era il fine principale perseguito dai ricorrenti allorquando hanno dato origine al giudizio), la sentenza in questione, dopo aver esplicitato la sussistenza di clausole discriminatorie nei confronti del personale ginecologico ed ostetrico praticante l’obiezione, prosegue nel delineare i motivi per cui dette prescrizioni debbano ritenersi illogiche.

Difatti, la ragion per cui la clausola del bando diretta ad assunzione di personale specializzato non obiettore di coscienza non avrebbe mai dovuto esistere, non risiede nel riconoscere il diritto ai medici di esercitare l’obiezione ex art. 9 l. 194/1978, atteso che quest’ultima disposizione esonera tal personale medico esclusivamente dalle attività “specificamente necessarie o ausiliarie all’interruzione di gravidanza”.

Inoltre, secondo il T.a.r Puglia, alla luce del fatto che la procedura ad evidenza pubblica ha avuto quale finalità l’assunzione di personale nei consultori -e, come già abbondantemente chiarito, all’epoca dei fatti questi ultimi non erano legittimati a praticare Ivg, ma erano soltanto limitati a porre in essere certificazioni o prescrizioni di farmaci contraccettivi (prescrizioni che, si ribadisce, non sono suscettibili di applicazione del già citato art. 9, poiché non ineriscono l’interruzione di gravidanza)-, la clausola del bando che ha previsto l’assunzione di personale medico non obiettore, non ha trovato in alcuna disposizione legislativa la sua ragion d’essere, non perché i ricorrenti avessero la possibilità di esercitare l’obiezione di coscienza nei consultori, ma, al contrario, perché detto personale all’interno dei tali strutture comunque non avrebbe potuto sollevare l’esonero di cui all’art. 9 l. cit.

Dunque, sebbene le sentenze dei due tribunali amministrativi esaminate giungano a due conclusioni opposte, a sommesso parere di chi scrive, dette pronunce, risultano essere caratterizzate da un comune dato incontrovertibile: la volontà di dare piena applicazione alla legge 194.

Nelle loro differenze, i due collegi risultano essere accomunati dal non aver (legittimamente) riconosciuto al personale medico obiettore la possibilità di ritenersi esonerati, all’interno dei consultori, dai propri obblighi derivanti dalla legge 194.

Sebbene entrambi i collegi giudicanti siano a giunti a delle conclusioni in generale da considerarsi condivisibili, è altrettanto vero che la sentenza emessa dal T.a.r. Lazio, non condivisa da una parte della dottrina, solo apparentemente si manifesta discriminatoria.

Difatti, detta interpretazione dottrinale, non è perfettamente conforme all’ordinamento, atteso che il d.lgs. n. 216/2003 (“Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”) ritiene non discriminatori eventuali concorsi che richiedano determinati requisiti professionali (in questo caso, la disponibilità a garantire un servizio sanitario).

Dunque, tra le due, la sentenza del T.a.r. Lazio si appalesa per certi versi più completa.

3.2. Se l’obiezione di coscienza non la esercita solo il personale sanitario: l’ordinanza n. 196/2012 della Corte Costituzionale

Il 3 gennaio 2012, il giudice tutelare presso il Tribunale di Spoleto ha emesso un’ordinanza con cui ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 l. 194/1978, in riferimento agli articoli 2, 32 primo comma, 11 e 117 della Costituzione: ciò alla luce della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 18 ottobre 2011, con la quale è stato riconosciuto come embrione umano qualunque ovulo fin dalla fecondazione.

Il giudice a quo, nell’ordinanza di rimessione, ha rappresentato dubbi circa la sopracitata norma, la quale consente l’interruzione volontaria di gravidanza entro i primi novanta giorni alla donna “che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica”.

Nel caso specie, tal giudice tutelare si è trovato a decidere ai sensi dell’art. 12 comma 2 della stessa legge, che detta una regola residuale circa l’Ivg.

Difatti, generalmente la richiesta viene operata, per come espressamente previsto dal primo comma della norma de qua personalmente dalla donna”, oppure, laddove quest’ultima dovesse essere di minore età, nel rispetto del successivo secondo comma, ai fini dell’interruzione volontaria di gravidanza, è richiesto l’assenso di chi sulla donna eserciti potestà o tutela.

L’art. 12 comma 2, inoltre, così prosegue: “Tuttavia, nei primi novanta giorni, quando vi siano seri motivi che impediscano o sconsigliano la consultazione delle persone esercenti la potestà o la tutela, oppure queste, interpellate, rifiutino il loro assenso o esprimano pareri tra loro difformi, il consultorio o la struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, espleta il compito di cui all’art. 5 e rimette entro sette giorni dalla richiesta una relazione, corredata del proprio parere, al giudice tutelare del luogo in cui esso opera. Il giudice tutelare, entro cinque giorni, sentita la donna e tenuto conto della sua volontà, delle ragioni che adduce e della relazione trasmessagli, può autorizzare la donna, con atto non soggetto a reclamo, a decidere l’interruzione di gravidanza”.

La vicenda in questione trae invero origine proprio dalla richiesta di aborto di una minore, la quale, presentatasi in consultorio il 27 dicembre 2011, stante quanto emerso dalla relazione trasmessa al giudice tutelare, era apparsa ai servizi sociali piuttosto matura e cosciente, contenuta nelle esternazioni.

A ciò i servizi sociali hanno aggiunto che, sebbene nella situazione non vi fossero elementi concreti di gravità o comunque ostativi al coinvolgimento dei congiunti, sia la storia familiare difficile della minore richiedente, sia il modo in cui ella percepiva le fragilità e le debolezze dei genitori, dovevano ritenersi elementi condizionanti, per cui era verosimile che in quel momento non vi fossero i presupposti per “poter effettuare una mediazione che richiede energie e tempi diversi da quelli indotti dall’emergenza attuale”.

Dunque, la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice umbro, ad una parte della dottrina ha, ictu oculi, destato non poche perplessità.

Perché dubitare della costituzionalità dell’interruzione volontaria di gravidanza in senso generico, suffragando la ratio dell’ordinanza di rimessione con la conflittualità tra l’ordinamento comunitario ed una norma di diritto interno?

Qual è il procedimento argomentativo-logico attraverso cui il giudice a quo, dovendosi pronunciare ai sensi dell’art. 12 Cost. , è giunto a sollevare questione di legittimità costituzionale dell’Ivg alla luce di una sentenza pronunciata dal giudice comunitario?

Tali domande, che allora sono state poste da parte della dottrina, hanno trovato ben presto risposta nell’ordinanza della Corte Costituzionale n.196 del 20 giugno 2012, con cui la questione di legittimità, sollevata dal giudice tutelare presso il Tribunale di Spoleto, è stata rigettata perché ritenuta manifestamente infondata.

La pronuncia non è da considerarsi di merito, atteso che i motivi del rigetto sono legati a vizi meramente procedurali.

Il percorso argomentativo che ha condotto la Corte ha pronunciarsi in tal senso, si appalesa, a sommesso parere di chi scrive, logico e perfettamente condivisibile.

Difatti, secondo la Corte, il giudice a quo ha del tutto errato il punto decisivo, pertanto, la questione di legittimità non avrebbe mai dovuto essere sollevata.

Invero, continua la Corte, la funzione cui è chiamato il giudice tutelare, nel procedimento di autorizzazione della minore ex art. 12 l. 194/1978, non è assolutamente da ritenersi di natura sostanziale, decisoria.

Detto assunto è coerente con quanto già esposto in alcune precedenti pronunce, in cui la Corte ha abbondantemente chiarito che il provvedimento del giudice tutelare in questione, essendo atto meramente formale, “risponde ad una funzione di verifica in ordine all’esistenza delle condizioni nelle quali la decisione della minore possa essere presa in piena libertà morale” (Ord. Corte Cost. n. 514 del 20 novembre 2002) e “non può configurarsi come potestà co-decisionale, poiché la decisione è rimessa, alle condizioni ivi previste, soltanto alla responsabilità della donna” (Ord. Corte Cost. n. 76 del 7 marzo 1996). Pertanto, alla luce della giurisprudenza costituzionale consolidata, il testo dell’art. 12 l. 194/1978 rappresenta soltanto un potere meramente formale del giudice.

Sebbene ai sensi della norma de qua il giudice, sentita la donna e tenuto conto della sua volontà, delle ragioni che adduce e della relazione trasmessagli può autorizzare” l’Ivg, alla luce delle enunciazioni del Giudice delle Leggi, tale disposizione non va interpretata riconoscendo al giudice tutelare il potere di autorizzare o meno la donna richiedente, poiché egli non gode di un autonomo potere di scelta, al contrario, la disposizione va letta in senso più restrittivo.

Dunque, egli ha il dovere di autorizzare la donna ad abortire alla quale è rimessa ogni responsabilità, limitandosi semplicemente alla verificazione della sussistenza delle condizioni, e il potere che esercita, pertanto, non è da ritenersi di natura sostanziale, – non godendo egli di alcuna discrezionalità a riguardo- ma si tratta, al contrario, di potere accertativo.

Ne deriva che al giudice tutelare non è riconosciuto l’esercizio dell’obiezione di coscienza, atteso che, come già statuito dall’ordinanza n.514/2002, secondo la Corte Costituzionale, “deve affermarsi che la decisione di interrompere volontariamente la gravidanza sia rimessa esclusivamente alle responsabilità della donna, anche se di minore età, sicché, in tale ultima ipotesi, il provvedimento del giudice costituisce solo uno dei presupposti dell’articolato procedimento, che inizia con la richiesta rivolta al consultorio familiare o alla struttura socio-sanitaria o a un medico di fiducia della donna stessa”.

A riguardo va ricordato che il Giudice delle Leggi, circa un mese prima del giudizio in questione, si era pronunciato in merito alla legittimità costituzionale dell’art. 12 l. 194/1978, dichiarando, anche in tale occasione, la manifesta infondatezza della questione sollevata, argomentando in maniera particolarmente critica la tesi avallata dal giudice a quo, poiché quest’ultima faceva “supporre che il rimettente cerchi di utilizzare in modo improprio e distorto la proposizione dell’incidente di costituzionalità (che, interrompendo la necessaria e naturale speditezza della procedura, di fatto vanifica l’istanza di tutela del diritto fondamentale alla salute psico-fisica della minore gestante, oggetto primario delle garanzie approntate dalla legge 194/1978)” (Ord. Corte Cost. n. 126 del 7 maggio 2012).

A chiusura del percorso argomentativo, va comunque osservato che in tema di interruzione volontaria di gravidanza, l’orientamento della Corte Costituzionale non è mai stato lineare. Da un lato, invero, quanto statuito dalla Corte nell’ordinanza n.196/2012 era già stato abbondantemente chiarito nelle sentenze n. 35/1997 e n. 27/1975, e quest’ultima, si rammenta, è quella che ha preparato l’ingresso nell’ordinamento giuridico alla legge 194 stessa, abrogando, come narrato sopra, l’art. 546 c.p.

In primis, va ribadito, che nel caso della pronuncia n. 196, la Corte non entra neppure nel merito: si limita a rilevare un ingombrante difetto procedurale, non considera neppure il contenuto della sentenza della Corte di Giustizia Europea, poiché il giudice tutelare, stante quanto riportato in ordinanza, non avrebbe dovuto neppure occuparsene.

Tuttavia, non va sottaciuto che il quadro di riferimento in materia di aborto, non è così semplice come appare.

Accanto all’orientamento costituzionale che mira a proteggere la salute della madre e il suo relativo diritto ad abortire e che non considera l’embrione “persona” dal punto di vista giuridico (Sent. 27/1975), il Giudice delle Leggi, già nella stessa sentenza n. 35/1997, non omette di ricordare agli operatori del diritto che, per espressa volontà del legislatore, bisogna sempre procedere attraverso un bilanciamento tra diritto costituzionalmente garantito alla salute della madre e la tutela del diritto alla vita del concepito. A conferma di ciò, si riportano alcuni passi cruciali di tale rilevante pronuncia: “il bilanciamento tra detti diritti fondamentali, quando siano entrambi esposti a pericolo, si trova nella salvaguardia della vita e della salute della madre, dovendosi peraltro operare in modo che sia salvata, quando ciò sia possibile, la vita del feto»; «ha fondamento costituzionale la tutela del concepito, la cui situazione giuridica si colloca, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, tra i diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti e garantiti dall’articolo 2 della Costituzione, denominando tale diritto come diritto alla vita, oggetto di specifica salvaguardia costituzionale”; “del pari ha fondamento costituzionale la protezione della maternità”; “sono diritti fondamentali anche quelli relativi alla vita e alla salute della donna gestante”.

L’orientamento medico e dottrinale antiabortista, nella maggior parte dei casi, si rifà a tali affermazioni per avvalorare le proprie tesi, in particolar modo quando si tratta di difendere l’esercizio dell’obiezione di coscienza: è innegabile che la posizione della Corte sia in alcuni punti conflittuale, ma tali contrasti giurisprudenziali derivano da una nobile ricerca costante finalizzata al rispetto del diritto alla vita da un lato e del diritto alla salute psico-fisica dall’altro, ma nulla ha a che vedere con l’esercizio dell’obiezione di coscienza.

Difatti, nelle pronunce della Corte Costituzionale, l’obiettivo è sempre quello di un corretto (e difficile) bilanciamento tra il diritto della madre e quello del concepito, a nulla rilevando, di conseguenza, l’obiezione sollevata dal personale medico-sanitario.

A conferma del fatto che la questione maggiormente attenzionata dalla Corte è detto bilanciamento tra tali due diritti fondamentali, vi sono le varie pronunce della stessa (tra cui emerge maggiormente la sentenza n. 108/1981) in cui, puntualmente, sono state rigettate le questioni di illegittimità costituzionale sollevate da associazioni pro-vita e medici antiabortisti contro la legge 194.

Dunque, malgrado gli orientamenti contrastanti della Corte, la sopravvivenza delle legge sull’aborto a tutti gli innumerevoli ricorsi celebratisi dinanzi ad essa, congiuntamente al fatto che mai nessuna delle disposizioni della 194 sia stata dichiarata incostituzionale, è un dato che inevitabilmente deve condurre a ritenere che tale provvedimento legislativo sia assolutamente conforme al paradigma costituzionale; pertanto, deve essere rifiutata qualunque censura di natura ideologica che anche solo parzialmente ne pregiudichi la piena applicazione su tutto il territorio nazionale.

4. Il dilemma secolare dell’obiezione di coscienza

Appare opportuno ribadire che la nuova disciplina in materia di pillola RU486, dovrebbe -almeno parzialmente- ridurre il problema delle limitazioni all’aborto derivanti dall’esercizio dell’obiezione di coscienza.

L’abolizione dell’obbligo di effettuare l’Ivg farmacologica necessariamente in regime di ricovero ospedaliero ordinario di tre giorni, congiuntamente alla novità secondo cui la somministrazione della pillola abortiva è adesso consentita anche in consultorio e in regime ambulatoriale, dovrebbe avere come risultato (si spera) il superamento dei soliti ostacoli riguardanti l’accesso all’aborto causati dall’obiezione praticata, come si è detto, dalla maggior parte del personale medico-sanitario, e che, in virtù di ciò, disattendo quanto disposto dall’art. 9 l. 194/1978, rifiuta di ottemperare agli obblighi di natura medico-specialistica che nulla hanno a che vedere con le “attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza” (art. 9. l. cit.).

Dunque, alla luce di quanto fin ora esposto, al fine di offrire una visione completa del problema, è necessario porsi un’altra domanda scottante, anch’essa al centro del dibattito, alla quale né giurisprudenza né dottrina sono riuscite, ad oggi, a dare una risposta univoca: che cos’è l’obiezione di coscienza?

Essa potrebbe definirsi quale “diritto individuale di comportarsi in coerenza con le proprie convinzioni di coscienza”[2], dunque è da ritenersi obiezione qualunque convinzione individuale-manifestata all’esterno- dettata da ragioni di carattere etico, morale o religioso che si pongano in contrasto con gli obblighi previsti dall’ordinamento giuridico.

La qualificazione dell’obiezione rappresenta una tematica che da sempre ha creato non poche divisioni non solo nel panorama politico e sociale, ma anche e soprattutto in quello giuridico. Nell’ambito di quest’ultimo, si è sostanzialmente creato uno scenario in cui i principali protagonisti sono due orientamenti differenti in cui gli operatori del diritto, da un punto di vista strettamente tecnico, cadono in conflitto quando si tratta di qualificare giuridicamente l’obiezione: un primo indirizzo, asserisce che quest’ultima debba considerarsi un diritto costituzionalmente tutelato, quindi inviolabile ed irrinunciabile.

Tale tesi contrasta con quanto sostenuto dal secondo orientamento, secondo cui l’obiezione di coscienza non va intesa in senso generico, ma la sua configurazione differisce in base al settore in cui viene praticata.

Il contrasto dottrinale e giurisprudenziale discende dal fatto che la nostra Carta sul punto nulla dice: non esiste alcun riferimento alla libertà di coscienza nel testo della Costituzione.

Ciò non ha però costituito un ostacolo alla sua affermazione, atteso che la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che le disposizioni di cui agli artt. 19 e 21 Cost. sono i due capisaldi attraverso cui la libertà di coscienza diviene diritto costituzionalmente garantito (Corte Cost. Sent. n. 467/1991).

Dunque, perché una parte della dottrina tende a differenziare la tutela dell’obiezione di coscienza a seconda dell’ambito in cui essa viene sollevata?

A riguardo, va specificato che alla libertà di coscienza viene fatto spazio per la prima volta nel 1972, all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 772, recante disposizioni circa l’esercizio dell’obiezione di coscienza dall’obbligo del servizio di leva militare.

Non è difficile comprendere che in questa particolare circostanza l’obiezione riguardi esclusivamente l’individuo che, per convinzioni dettate dalla propria etica e dalla propria morale, rifiuti di assolvere gli obblighi militari, ma è un rifiuto che coinvolge esclusivamente il singolo; diversamente, quando si parla di obiezione di coscienza di tipo medico (tematica che non riguarda soltanto l’aborto, ma ad esempio anche l’eutanasia) non vi è soltanto il singolo coinvolto con la propria coscienza, ma la questione involge più soggetti.

A questo punto si profila uno scenario particolarmente complesso, poiché, trattandosi di obiezione esercitata da personale medico-sanitario, andrà a toccare inevitabilmente il diritto alla salute- costituzionalmente tutelato dall’art. 32 della Carta- delle altre parti coinvolte.

In questo particolare caso, fino a che punto può spingersi la tutela dell’obiezione? Quando le convinzioni del medico o altro professionista sanitario si pongono in aperto conflitto con gli obblighi derivanti dalle disposizioni di legge, in che modo potrebbe risolversi tale contrasto? In primis, va osservato che una delle risposte a tali domande potrebbe ravvisarsi nell’utilizzo della terminologia.

Si noti, difatti, che la citata sentenza n. 476/1991 della Corte Costituzionale fa riferimento alla tutela della libertà di coscienza, non dell’obiezione: l’utilizzo indistinto di tali espressioni spesso ha comportato diversi errori interpretativi, non nell’universo giuridico, bensì in quello politico, e medico di matrice cattolica.

La differenza fondamentale tra tali valori è lapalissianamente offerta dall’art. 10 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, il quale, al primo comma sancisce che “Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”, e, al successivo comma 2 prevede che “Il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”.

Peraltro, nella summenzionata sentenza, la Corte ha statuito che l’obiezione debba trovare tutela soltanto “a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne la possibilità di realizzazione in modo da non arrecar pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi di interesse generale”.

Ciò posto, va osservato che il conflitto riguardante l’esercizio dell’obiezione può incontrare tre differenti soluzioni.

La prima, consiste nella totale negazione di qualsiasi libero convincimento di natura etica, morale religiosa che sia in contrasto con un qualunque obbligo ex lege; la seconda soluzione, in posizione assolutamente antitetica alla prima, riconosce il pieno esercizio dell’obiezione (e, di conseguenza, anche della libertà), consentendo in qualunque circostanza di derogare agli imperativi giuridici per seguire il dettato della propria coscienza.

L’ultima, da considerarsi quale posizione intermedia, oltre a rappresentare la soluzione più vicina alla realtà, è altresì da ritenersi l’unica condivisibile tra tutte e tre le strade percorribili, atteso che le altre due, costituendo due opposti estremi, inevitabilmente porterebbero (e in realtà, portano) a controversie giuridiche (e giudiziarie) interminabili.

La terza soluzione trae origine dall’idea che il conflitto in questione non possa risolversi con un’assoluta imposizione tout court degli obblighi previsti dall’ordinamento, senza attribuire alcuna rilevanza giuridica alla coscienza personale dei singoli, poiché così verrebbero traditi i valori propri di uno Stato democratico e pluralista come quello italiano.

Parallelamente, la terza opzione si basa dall’assunto che non è possibile derogare in ogni caso alle norme del diritto positivo per lasciare sempre e comunque spazio alle convinzioni etiche, morali, religiose del singolo.

La soluzione intermedia è manifestamente quella più consona poiché esige che sia l’ordinamento giuridico a determinare, specificamente, i casi in cui ai singoli sia consentito disattendere gli obblighi derivanti dalla legge nel caso in cui questi ultimi siano contrastanti con il dettato della propria coscienza.

In questo caso, la dottrina ha parlato di obiezione di coscienza secundum legem: l’individuo (nel nostro caso, il medico obiettore), allorquando si trovi a dover ottemperare ad obblighi previsti dalla legge che però sono in contrasto con le proprie convinzioni morali, etiche o religiose, potrà legittimamente obiettare solo nel caso in cui ciò sia espressamente stabilito da una disposizione legislativa.

Tuttavia, va rilevato che ad oggi, con riferimento all’interruzione volontaria di gravidanza, la disposizione regolante l’esercizio dell’obiezione di cui all’art. 9 l. 194/1978 si presenta piuttosto generica.

E’ una norma il cui dato testuale è costruito senza alcuna specificità, ragion per cui di volta in volta tocca ai giudici operare il bilanciamento tra l’esercizio dell’obiezione di coscienza e il diritto alla salute e alla libera autodeterminazione delle donne. Dunque, allo stato dell’arte, seppur l’unica condivisibile, la terza soluzione non appare applicabile in tema di interruzione volontaria di gravidanza, proprio perché la norma riguardante l’obiezione di coscienza non disciplina in maniera espressa e dettagliata il diritto a sollevare l’obiezione.

Pertanto, alla luce delle enunciazioni della Corte Costituzionale, della summenzionata disposizione comunitaria, e di tutte le superiori argomentazioni, è ipotizzabile dedurre che il giudice, ogni qualvolta si troverà a decidere in materia di obiezione di coscienza esercitata nell’ambito dell’Ivg, procederà operando un corretto bilanciamento dei valori, e dovrà basare il proprio ragionamento sul presupposto che l’obiezione non è da ritenersi diritto costituzionalmente protetto, ma tutelato e disciplinato dalla legge ordinaria (legge 194/1978).

5. Conclusioni. Le buone intenzioni della legislatore regionale calabrese. Il diritto all’aborto e l’obiezione di coscienza dopo le nuove linee guida ministeriali sull’assunzione della pillola RU486: scenari possibili.

Giunti alla conclusione di questo percorso, (il quale si spera abbia offerto spunti di riflessione, pur non avendo alcuna pretesa esaustiva), è opportuno chiedersi, alla luce di quanto sopra argomentato, quali effetti potrebbero produrre nella realtà le linee di nuovo conio in materia di pillola RU486.

La percentuale di personale medico-sanitario obiettore di coscienza, si è detto, risulta essere particolarmente elevata su tutto il territorio nazionale: secondo l’Istituto Superiore di Sanità, ad oggi, nel nostro paese 7 medici su 10 dichiarano di essere obiettori di coscienza. Anche in Calabria la situazione non è rassicurante, considerando che, come risultante dai dati dell’anno 2019, la percentuale dei ginecologi obiettori in servizio è di circa il 76%.

Tale dato sussiste nonostante i tentativi di dare corretta applicazione alla legge 194 su tutto il territorio calabrese: nel 2016, il Consiglio Regionale, preso atto di quanto emerso dalle pronunce adottate dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali -di cui si è detto sopra, ha approvato la legge n. 47, finalizzata a tutelare l’Ivg e a garantire l’adeguatezza e la corretta ponderazione degli organici del personale medico-sanitario, nel pieno rispetto dei diritti acquisiti da detto personale e delle normative europee e nazionali in materia.

L’art. 2 della legge in questione ha previsto un’attività di monitoraggio e di controllo al fine di garantire sempre l’efficienza dei servizi e delle prestazioni, garantendo, altresì, il pieno rispetto dell’art. 9. l. 194/1978; per espressa previsione, inoltre, la legge n.47 ha come obiettivo il contrasto agli aborti clandestini.

Più nel dettaglio, al fine di raggiungere detti obiettivi, il terzo e quarto comma della norma de qua così recitano: “Per le finalità di cui all’articolo 1, entro il termine perentorio di trenta giorni dall’entrata in vigore della presente legge, le aziende sanitarie provinciali (ASP) e le aziende ospedaliere (AO) devono provvedere a inviare al dipartimento interessato l’elenco completo delle figure professionali utili agli scopi della presente legge, con l’indicazione puntuale, per ciascuna figura professionale, dell’avvenuta dichiarazione dell’obiezione di coscienza, ora per allora, così come espressamente previsto all’articolo 9 della l. 194/1978.

Le ASP e le AO che all’interno della propria pianta organica non presentano figure professionali non obiettori, nella misura necessaria a garantire il corretto principio dell’applicazione della legge che disciplina l’IVG, nei sessanta giorni successivi al termine di cui al comma 3, devono organizzare il personale ai sensi del comma 1.” E’ innegabile che le intenzioni del Consiglio Regionale fossero assolutamente da apprezzare in quanto conformi alla legge 194, ma va purtroppo rilevato che nonostante ciò, a distanza di quattro anni dall’entrata in vigore della legge n. 47, la situazione in Calabria non appare migliorata: la percentuale di personale obiettore continua ad essere eccessivamente alta, ma soprattutto le ASP e le AO non hanno pienamente ottemperato agli obblighi di cui all’art. 2.

Invero, la norma in questione, disvela una criticità di non poco conto, che riguarda tutto il territorio nazionale, non solo la Calabria.

Difatti, ogni qualvolta vengono effettuate delle statistiche inerenti la presenza di personale medico-sanitario obiettore di coscienza, i numeri riportati fanno riferimento alle stime regionali: ciò perché non esiste la possibilità, allo stato attuale, di conoscere il numero dettagliato di personale obiettore in ogni singola struttura ospedaliera presente sul territorio italiano, proprio perché non sussiste alcun obbligo legislativo in tal senso.

E’ incontrovertibile che l’istituzione di appositi elenchi completi delle figure professionali che abbiano dichiarato obiezione di coscienza “ora per allora”, potrebbe essere di ausilio ai fini della piena applicazione della legge 194, poiché si eviterebbero tante obiezioni in un certo senso occasionali, improvvisate, sollevate ad hoc al momento della prestazione di un determinato servizio.

Peraltro, se è vero che le nuove linee guida del Ministero della Salute riguardo l’aborto chimico renderanno più agevole l’interruzione di gravidanza, è altrettanto vero che la possibilità di effettuare adesso l’Ivg presso i consultori, potrebbe, per contro, comportare una diffusione maggiore dell’obiezione di coscienza in tali strutture, atteso che prima del 12 agosto 2020 queste ultime non erano titolate ad eseguire interruzioni volontarie di gravidanza.

Né tanto meno deve trarre in inganno il dato statistico da cui emerge la diminuzione degli aborti, da ritenersi segnale positivo soltanto in parte, in ragione di quanto accaduto a causa dell’emergenza Coronavirus: una flessione degli aborti legali potrebbe derivare, da un lato, dalla fortunata maggiore diffusione di una contraccezione responsabile, ma dall’altro potrebbe voler dire aumento di aborti clandestini, notoriamente non sicuri e pericolosi per la salute delle donne.

Dunque, l’unica vera strada percorribile per tentare di superare l’impasse sarebbe quella di un intervento organico da parte del legislatore, poiché il dato testuale dell’art. 9 l. 194/1978, va ribadito, è suscettibile di varie interpretazioni, proprio a causa della sua genericità.

L’espressione “attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza”, è liberamente interpretabile in vari modi, ed è proprio a causa di tale elasticità che la lettura dell’art. 9, forse fin troppo spesso, debba essere effettuata in sede giurisdizionale, comportando inevitabilmente un ingolfamento della macchina giudiziaria.

Tra l’altro, la norma in questione andrebbe modificata anche tenendo conto del cambiamento del contesto storico-politico-sociale, certamente non più eguale a quello del 1978.

In forza degli sviluppi della giurisprudenza costituzionale (e non solo) l’interruzione volontaria di gravidanza oggi non è più soltanto riferibile al diritto alla salute, come voluto all’epoca dalla legge 194, “ma anche espressione dell’autodeterminazione della donna sul proprio corpo e riguardo alle sue scelte procreative”.[3]

Cionondimeno, oggi il diritto all’aborto deve ritenersi suscettibile di una differente chiave di lettura, atteso che anche il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost. debba essere letto secondo l’interpretazione offerta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, la quale ha sostenuto che quest’ultimo possa ritenersi pienamente rispettato laddove trovi tutela non solo la salute fisica ma anche quella psico-emotiva.

La trasposizione di tale lettura al diritto all’aborto, rende degno di nota l’insegnamento lasciatoci dal Prof. Sebastiano Ciccarello, il quale in più occasioni ha ribadito che il diritto alla salute della donna gestante è da ritenersi configurato allorquando sussista una relazione psico-emotiva stabile e serena con il concepito.

La riforma parlamentare auspicata, dovrebbe essere comunque basata su un corretto bilanciamento dei diritti in gioco, (diritto alla salute e alla libera autodeterminazione della madre da un lato, diritto alla vita del concepito dall’altro).

A riguardo, si riporta l’emblematica tesi asserita dal prof. Bianca:

L’intervento volto a comporre e bilanciare il conflitto dei contrapposti interessi della gestante e del concepito – entrambi meritevoli di tutela ordinamentale ed entrambi costituzionalmente rilevanti – comporta una premessa di fondo implicita, senza la quale cadrebbe l’esigenza di una pronuncia sul bilanciamento: essendo i valori in giuoco identici, gli interessi muovono da una base assolutamente paritetica. La pariteticità degli interessi contrapposti, informata alla considerazione della persona umana come valore ordinamentale primo, altro non può significare se non che ad essi è attribuito lo stesso “peso” giuridico iniziale.

Se così non fosse, se uno dei due interessi avesse un peso maggiore rispetto all’altro, non ci sarebbe bisogno dell’intervento “equilibratore”, in quanto quello di maggior “peso” prevarrebbe sull’altro ab initio. Lo stesso fatto del dover bilanciare gli interessi in parola, anche se l’uno di persona nata e l’altro di persona nascente, conferma, peraltro, che l’interesse di entrambi è attuale.[4]

In conclusione, se da un lato le nuove linee del Ministero della Salute sulla somministrazione della pillola RU486 sembrano essere l’inizio di un nuovo progetto, finalizzato ad attribuire piena effettività ed applicazione alla legge 194/1978 su tutto il territorio nazionale, dall’altro lato è opportuno che il legislatore intervenga (utilizzando come bussola il bilanciamento dei due diritti in questione, entrambi costituzionalmente tutelati) al fine di disciplinare in maniera più specifica le modalità di esercizio dell’obiezione di coscienza (ma non troppo specifica, poiché così si rischierebbe di superare il limite costituzionale della competenza legislativa concorrente Stato-Regioni in materia sanitaria, ex art. 117 comma 2 Cost.).

Si rammenta, in proposito, che con le linee di nuovo conio, l’Ivg è adesso praticabile anche con percorso ambulatoriale e in consultorio: potrebbe accadere che anche in tali sedi il personale medico-sanitario obiettore vada alla ricerca di altri escamotage finalizzati a sollevare l’obiezione di coscienza.

Le nuove linee guida rappresentano, invero, una nuova tappa da accogliere positivamente, anche se non si può negare che l’adeguamento da parte del Ministero della Salute derivi, fisiologicamente, dai problemi causati dall’emergenza pandemica.

Dunque, coerentemente con il contenuto delle nuove direttive in materia di pillola RU486, al fine di applicare queste ultime correttamente e pienamente su tutto il territorio nazionale (onde evitare quanto accaduto in Piemonte), sarebbe logico procedere con le opportune modifiche della legge 194, non solo per ragioni legate all’erogazione del servizio sanitario in senso tecnico, ma anche perché la volontaria interruzione di gravidanza inerisce il percorso di inclusione sociale, politica ed etica delle donne, che inevitabilmente sfocia nel godimento del loro diritto alla libera autodeterminazione: con il grande augurio che il legislatore non attenda lo scoppio di un’altra pandemia per attivarsi in tal senso.

 

 

 

 

 


[1] Andrea Camilleri, “L’altro capo del filo”, Sellerio editore
[2] G. di cosimo, A. Pugiotto, S. Sicardi, La libertà di coscienza, Editoriale scientifica, 2014.
[3] L. RONCHETTI, Donne e corpi tra sessualità e riproduzione, in Costituzionalismo.it, 2, 2006
[4] C. M. Bianca “Interessi fondamentali della persona e nuove relazioni di mercato” Ed. Dike Giuridica, 2012

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Michela Gargano

Consulente legale in ufficio gare d'appalto at ESG s.r.l.
Consulente legale d'impresa, addetta ufficio gare d'appalto. Laurea in legge conseguita presso l'università mediterranea di Reggio Calabria, attualmente iscritta al Master di II Livello in management degli appalti pubblici presso l'università LUMSA di Roma.

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