Evasione dagli arresti domiciliari per insostenibilità della convivenza coniugale

Evasione dagli arresti domiciliari per insostenibilità della convivenza coniugale

Integra il reato di evasione, previsto e punito dall’art. 385 c.p., chi, essendo sottoposto alla misura cautelare personale degli arresti domiciliari, volontariamente abbandoni il luogo di esecuzione del provvedimento de libertate, non potendosi all’uopo invocare i difficili rapporti con i familiari conviventi.

Così statuendo, la recentissima Cass. pen., Sez. VI, sent. 23.3.2018, n. 14502, ha ribadito il proprio orientamento in materia (prevalente, ma non consolidato)[1], fornendo alcuni interessanti spunti di riflessione di rilievo sistematico.

La vicenda che ha dato origine al ricorso si appalesa inusitata e, per certi versi, quasi surreale. Segnatamente, l’indagato, dopo aver avvisato i Carabinieri di non riuscire più a tollerare la “convivenza forzata” con la consorte, aveva abbandonato la propria abitazione -presso la quale era confinato in forza della misura coercitiva ex art. 284 c.p.p., applicatagli dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere- recandosi in un bar poco distante, in attesa di essere portato alla più vicina casa circondariale, come da lui stesso richiesto.

Condannato per il delitto di evasione dal giudice di prime cure, la Corte d’Appello di Napoli assolveva il prevenuto dal reato ascrittogli perchè il fatto non costituisce reato, difettando in capo all’agente l’elemento soggettivo del dolo.

Orbene, i Giudici di legittimità, accogliendo il ricorso del Procuratore generale presso la predetta Corte d’Appello, hanno riformato tale decisione, annullandola con rinvio.

Tale provvedimento, all’apparenza severo, rappresenta in realtà un’opzione obbligata in punto di razionalità logico-giuridica, avendo la sentenza impugnata mosso da una inesatta nozione di dolo.

Com’è noto, tale criterio di imputazione soggettiva -che, ai sensi dell’art. 42, co. 2, c.p., deve, di regola investire il fatto tipico- si compone di due elementi strutturali, previsione e volontà, cui si correlano altrettanti “momenti”, temporalmente distinti, la cui sussistenza il giudice deve sempre indagare, donde ascrivere al reo la violazione della norma incriminatrice oggetto di imputazione. Detto altrimenti, il dolo collega il fatto incriminato alla persona che lo ha commesso sul versante della colpevolezza psicologica.

Ragionando da tale angolo prospettico, la finalità perseguita dall’agente è in genere estranea al dolo, il cui oggetto appare limitato all’«evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto», giusta la previsione dell’art. 43, prima alinea, c.p. Fanno -per certi versi- eccezione i cc.dd. reati a dolo specifico, dove lo scopo avuto di mira dall’agente è elemento essenziale della fattispecie di responsabilità, dovendo il giudice accertare anche il significato sociale (o, se preferisce, l’orientamento) della condotta dolosa[2].

Partendo da tali premesse logiche, la Corte di cassazione ha affermato che il reato p. e p. dall’art. 385 c.p. punisce e reprime l’allontanamento dal luogo di detenzione per il pericolo che tale comportamento ingenera sia per la pubblica sicurezza sia, soprattutto, per l’amministrazione della giustizia. In particolare, contravvenendo alla decisione del giudice di limitare -pur provvisoriamente- la libertà personale dell’indagato, vengono messe a rischio (e, nei casi più gravi, sono addirittura frustrate) le esigenze cautelari che l’adozione di tale misura de libertate hanno legittimato.

Ne consegue, logicamente, che, in casi analoghi a quello in esame, il dolo di evasione si sostanzia nella consapevolezza di infrangere la prescrizione giudiziale di restare in un certo luogo, oltreché nella successiva conforme volontà attuativa di tale proposito[3].

Corretta appare, dunque, la decisione assunta dalla Suprema Corte, sebbene -per completezza- si impongano alcune doverose considerazioni.

In primo luogo, i Giudici di legittimità hanno senz’altro fatto buon governo dei principi sopra enunciati, rilevando l’error in iudicando compiuto dalla Corte d’Appello in ordine, da un lato, alla mancata verifica del dolo, dall’altro, all’inadeguatezza della motivazione circa l’esistenza di eventuali esimenti soggettive.

A tale ultimo riguardo, va, nondimeno, segnalata un’imprecisione -forse dovuta a esigenze di sintesi- circa l’assoluta irrilevanza del motivo ad evadere. Si pensi alle ipotesi emblematiche di catastrofe naturale (terremoto, inondazione etc.), nel qual caso non sembra ragionevole esigere dall’indagato un comportamento conforme a quello imposto dalla misura cautelare, laddove ciò metta in pericolo la sua stessa incolumità, giusta la previsione dell’art. 54 c.p.[4].

Secondariamente, occorre notare che, avendo la Corte di cassazione annullato con rinvio la sentenza impugnata, il giudice ad quem ben potrà compiere una nuova valutazione dell’offensività della condotta tenuta dall’imputato, rimodulando la pena in conformità a tale profilo ovvero -ricorrendone i presupposti- applicando la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.).

In definitiva, pur condividendosi l’esito della citata pronuncia, non appare del tutto corretta l’affermazione secondo cui «non ha alcun valore […] la circostanza che I., prima di abbandonare il domicilio abbia avvertito le forze dell’ordine, posto che si è allontanato, dichiarando di non voler tornare indietro e sostanzialmente ponendo in essere una sua volontaria “sottrazione” al regime restrittivo».


[1] In senso contrario, cfr. Cass. pen., Sez. VI, sent. 6.10.2015, n. 44595, ad opinione della quale non è punibile, ai sensi dell’art. 49 c.p., chi, previa comunicazione della volontà di abbandonare il domicilio per essere portato in carcere, attenda l’arrivo delle Forze dell’Ordine nelle pertinenze della propria abitazione.

[2] Trattasi di quei reati che taluno, in dottrina, nomina soggettivamente pregnanti. Si pensi, a titolo di mero esempio, al reato di corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.), che punisce il mercimonio della pubblica funzione -ovverosia il pagamento di un corrispettivo al pubblico ufficiale perché compia un atto dovuto (necessitato, cioè, dall’esercizio di pubblici poteri) ovvero contrario ai doveri d’ufficio- «per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo». A ben vedere, però, nemmeno in tali reati muta l’oggetto del dolo, che rimane pur sempre il fatto tipico; diversamente, è corretto affermare che la condotta va accertata alla luce dell’obiettivo che l’agente, ponendola in essere, si prefigura e va, pertanto, punita se e in quanto diretta a tale scopo.

[3] Diverso problema è quello che attiene al profilo dell’offensività concreta  della condotta che chi evade pone in essere (cfr. nt. 1 supra). A tal proposito, va, peraltro, stigmatizzata la tendenza a ritenere comunque non pericolose l’evasione sol perché comunicata alle Forze dell’Ordine, dovendosi piuttosto verificare l’effettiva permanenza dell’agente sotto la sfera di controllo dell’Autorità.

[4]Cfr., tra gli altri, Cass. pen., Sez. VI, sent. 4.1.2017, n. 6429, secondo cui è comunque necessario, ai sensi dell’art. 54 c.p., un pericolo attuale di danno grave alla persona. Nello stesso senso, App. Perugia, Sez. civ., sent. 13.2.2015, n. 69, che -con maggiore accuratezza precisa che l’esimente in oggetto «presuppone l’imminenza di una situazione di grave pericolo alla persona, indilazionabile e cogente, tale da non lasciare all’agente altra alternativa se non quella di commettere un reato».


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Marco Vitale

Laureato in giurisprudenza all'Università Commerciale L. Bocconi con pieni voti assoluti e con lode. Già tirocinante presso gli uffici giudiziari civili e penali (G.I.P.) di Monza, percorso formativo svolto con esito favorevole e positivamente valutato da entrambi i magistrati formatori.

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