Fake news: libertà di espressione o reato?

Fake news: libertà di espressione o reato?

L’espressione fake news è una locuzione inglese che significa letteralmente “notizia falsa” ed indica generalmente delle informazioni fuorvianti, ingannevoli, distorte, talvolta anche inventate con l’intento di disinformare attraverso canali di informazione. Un tempo tali canali di informazione erano sostanzialmente giornali, telegiornali e trasmissioni radiofoniche, ma anche il semplice passaparola tra una persona e l’altra, mentre ora, con l’avvento di internet, chiunque ha un mezzo per condividere qualsiasi tipo di notizia, e di conseguenza anche quelle false.

Lo stesso Professor Carlo Magnani nel suo saggio pubblicato sul sito costituzionalismo.it  Libertà di espressione e fake news, il difficile rapporto tra verità e diritto” afferma che “per tutto il ‘900 la radio e la televisione hanno rappresentato i nuovi media destinati a sostituire il vecchio ordine fondato sulla carta stampata. Il ruolo del pubblico, oggi, è mutato passando da una situazione di soggezione, sovente solleticata da gradevole intrattenimento, ad una posizione molto più attiva e partecipativa. Il semplice uso di un cellulare smartphone è in grado di trasformare chiunque in autore di contenuti audiovisivi, mediante la registrazione di fatti veri o la rappresentazione di opere di fantasia e vario ingegno. […] una bugia può correre più veloce del lampo, e può essere anche fabbricata da chiunque, spesso pure in maniera anonima”.

A causa di questo fenomeno di diffusione delle fake news, molte persone faticano a riconoscerne una scambiandola per autentica, dato che i loro diffusori puntano molto sulla loro verosimiglianza alla realtà, facendo leva sulla libertà di espressione del pensiero sancita dall’art. 21 Cost. che cita al primo comma “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Questo significa che, teoricamente, tutti hanno anche il diritto di dire cose false. Pertanto, usando ancora le parole del Professor Magnani, “per giungere a considerare il falso ‘in sé e per sé’ come meritevole di rimozione dalla sfera pubblica occorre effettuare uno strappo con il costituzionalismo moderno”.

Ma ci sono, ovviamente, dei limiti alla libertà di affermare falsità. Limiti che, se superati, potrebbero comportare la commissione di vari reati quale, a titolo esemplificativo, quello di diffamazione nel caso in cui vengano dette falsità su persone fisiche o giuridiche, regolato dall’art. 595 c.p. sancente che “chiunque […] comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro”, e presuppone che l’offeso non sia presente e quindi non sia in grado di controbattere, che la sua reputazione venga offesa e che siano presenti al compimento del fatto almeno due persone in grado di prendere atto delle parole diffamatorie. Ovviamente questo può avvenire in svariati modi, anche a mezzo stampa o con altri mezzi di informazione, quali appunto i social media. Ancora, un altro potenziale reato potrebbe essere quello di procurato allarme presso l’Autorità, regolato dall’art. 658 c.p. il quale recita: “chiunque, annunziando disastri, infortuni o pericoli inesistenti, suscita allarme presso l’Autorità, o presso enti o persone che esercitano un pubblico servizio, è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda da euro 10 a euro 516”.

Ci sono, dunque, diversi limiti di cui fanno parte anche le opinioni contro il buon costume, a sfondo razziale, violente ma non solo: il codice penale regola proprio la pubblicazione o diffusione di notizie false nel caso in cui turbino l’ordine pubblico. Infatti, all’art. 656 sancisce che “chiunque pubblica o diffonde notizie false, esagerate, tendenziose, per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 309”.

Quindi potrebbe sorgere spontanea una domanda: come mai, se il codice penale punisce chi diffonde notizie false, queste continuano a circolare?

Ebbene, la risposta è molto semplice: il presupposto fondamentale per l’integrazione del reato è il turbamento dell’ordine pubblico, in mancanza del quale non si può perseguire. Questo significa che se una notizia falsa riesce a fuorviare una cerchia ristretta di persone, tale reato non è integrato, come non è integrato neanche nel momento in cui tale notizia riesce a raggiungere una cerchia maggiore di persone, ma senza di fatto sovvertire o turbare l’ordine pubblico.

È come se si fosse creata una sorta di paradosso all’interno del diritto stesso, il quale ha tutta l’intenzione di punire le ingiustizie, garantendo però delle libertà che non possono essere negate perché oggetto di tutela costituzionale. Riprendendo ancora le parole del Professor Magnani: “oggi, che pare valere quanto mai prima il motto di Nietzsche ‘non esistono fatti ma solo interpretazioni’, motto che ha un valore del tutto specifico per le scienze giuridiche, ebbene oggi nel contesto scettico e relativista che il diritto stesso ha contribuito a creare, si coglie preciso il richiamo alla verità, quasi metafisica, come fondamento del giuridico. Il luogo del diritto nel quale tale pretesa aletica trova maggiore espressione è quello della Costituzione”. La libertà di espressione del pensiero infatti, introdotta in una Costituzione post-fascista, aveva come fine quello di criticare verità prestabilite, dando vita invece a dibattiti e discussioni pubblici, in favore di una democrazia piena nella quale chiunque potesse esprimere la propria opinione.

Col tempo, però, e in particolare in questo periodo storico, si tende a interpretare in maniera troppo estensiva i diritti, tendendo quindi ad allargare anche i loro limiti. In più, la crescita esponenziale dell’uso dei social media da parte di chiunque, lascia sempre più spazio a teorie che tendono a screditare l’attività professionale di giornalisti, studiosi, scienziati, etc. che dello scopo di informarsi e informare hanno fatto la loro vita, contrastando ciò che le loro notizie comunicano, il più delle volte, senza una prova a supporto di tali teorie divergenti e, talvolta, assurde.

Questo ha portato, per forza di cose, ad avere anche una sostanziale sfiducia nelle istituzioni, dato che non sono mancate fake news anche nei loro confronti e per tale motivo si tende a screditare il loro operato, preferendo magari complottismi semplici a verità più scomode e complesse. Anche il Dottor Paolo Legrenzi, psicologo all’università di Venezia, in un’intervista a la Repubblica riesce a spiegare perché ci viene più facile credere e dare per vero tutto ciò che sentiamo: “Creiamo, assorbiamo e diffondiamo balle con una naturalezza che deriva dalla nostra storia evolutiva. Siamo esseri a razionalità limitata proiettati in un universo di informazioni incontrollate. Credere alle bufale ci viene naturale. Smentirle e smontarle diventa fatica improba“.

Ma, fintanto che le cose rimarranno in questo modo, l’unico modo sicuro per difenderci da queste notizie false è proprio fare delle opportune ricerche, confrontando più notizie e valutando quale fra queste è quella più attendibile, analizzando le fonti dalle quali proviene, la testata giornalistica, la sensazionalità del titolo (solitamente più un titolo è “sensazionale” più le persone sono tentate a credere che quella notizia è vera) arrivando infine alla veridicità della stessa. Può sembrare un procedimento difficile e articolato, ma in realtà si tratta solo di un processo di informazione completo e più semplice di quanto si pensi, grazie al quale possono essere evitati raggiri.


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Riccardo Polito

- Laureato in Giurisprudenza all'Alma Mater Studiorum di Bologna; - Praticante avvocato e consulente legale; - Appassionato di diritto, psicologia e musica.

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