Fondazioni bancarie e compatibilità con la disciplina dell’Unione europea in materia di aiuti di Stato

Fondazioni bancarie e compatibilità con la disciplina dell’Unione europea in materia di aiuti di Stato

Sommario: 1. Introduzione – 2. L’influsso del diritto dell’Unione europea sul ridimensionamento del ruolo dello Stato nell’economia – 3. La privatizzazione del settore bancario e la problematica della compatibilità delle fondazioni bancarie con il divieto di aiuti di Stato – 4. Conclusioni

 

1. Introduzione

Nell’ambito della disciplina antitrust, contenuta nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, la materia degli aiuti di Stato presenta enormi difficoltà applicative. Essa è stata originariamente concepita come strumento per la realizzazione del mercato unico, assieme al riconoscimento delle altre quattro libertà (libera circolazione dei beni, persone, servizi e capitali)[1]. Da una lettura dell’art. 107 par. 1 TFUE, pilastro normativo della materia, è possibile individuare i singoli presupposti che compongono la fattispecie “aiuto di Stato”: “sono incompatibili con il mercato comune, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”. Secondo una costante giurisprudenza, devono sussistere tutti gli elementi perché si realizzi la fattispecie[2]: deve trattarsi di un intervento imputabile allo Stato o effettuato mediante risorse statali; tale intervento deve attribuire un “vantaggio gratuito” al beneficiario, deve avere carattere “selettivo”, volto cioè a favorire soltanto determinate; imprese o determinati settori economici; deve avere un impatto sugli scambi tra gli Stati membri; deve distorcere la concorrenza nel mercato comune.

Va specificato che l’art. 107 par. 1 fa riferimento a imprese beneficiarie degli aiuti, intendendosi come “impresa” qualsiasi entità, anche pubblica, che svolga un’attività economica consistente nell’offerta di beni o servizi sul mercato, che potrebbe essere, anche solo in linea di principio, esercitata da un operatore privato a fini di lucro[3].

2. L’influsso del diritto dell’Unione europea sul ridimensionamento del ruolo dello Stato nell’economia

La nascita dell’Unione europea ha fortemente segnato il passo verso la privatizzazione delle imprese fino ad allora gestite dagli Stati. Le norme del Trattato sul controllo degli aiuti di Stato hanno costituito lo strumento privilegiato attraverso cui la Commissione ha spinto gli Stati membri a realizzare piani di privatizzazione, controllandone anche le modalità di attuazione.

La creazione di un mercato unico europeo, infatti, con la crescente integrazione economica tra gli Stati membri, fino all’introduzione di una moneta unica, ha posto le condizioni affinché venissero meno molte forme di regolamentazione nazionale ed ha imposto il rispetto di rigidi parametri in materia di bilancio.

Proprio l’ammissione all’Unione Monetaria, creata con il Trattato di Maastricht (TUE) del 1992, ha comportato, per gli Stati che vi aspiravano, la necessità di presentare un alto grado di sostenibile convergenza economica, volta ad evitare che forti squilibri tra i Paesi partecipanti potessero pregiudicare la nascita dell’Euro ovvero deprezzarlo eccessivamente. Perciò il Trattato aveva previsto parametri economici, il cui rispetto – considerato indice dell’esistenza di detta convergenza – costituiva la condizione essenziale per entrare nell’Unione. Inoltre, tutt’oggi gli Stati partecipanti all’Unione sono impegnati dal patto di stabilità e crescita a mantenere sana l’economia nazionale, essendo vietando loro di discostarsi dai citati “parametri” dopo averli raggiunti.

Simili esigenze non hanno più consentito agli Stati di disperdere risorse pubbliche per sovvenzionare le proprie imprese deficitarie. Uno dei rimedi adottati è consistito, quindi, nell’alienare ai privati le imprese in questione dopo averne iniziato la ristrutturazione ed averne rimesso in ordine i conti mediante un ultimo intervento di finanziamento.

Per l’Italia, Paese gravato da un enorme debito pubblico, l’operazione era realizzabile solo con la trasformazione della persona giuridica pubblica in persona giuridica privata, e nello specifico da ente pubblico economico a società per azioni. In questo modo si è avuto, tuttavia, solo una privatizzazione formale che concerneva la personalità giuridica dell’ente, mentre l’azionista di maggioranza era ancora lo Stato o un ente pubblico territoriale. Ancora più efficace sarebbe stato, quindi, un processo di privatizzazione in senso sostanziale, con la cessione in tutto o in parte del pacchetto azionario dall’azionista pubblico, il Ministero del Tesoro, ai privati.

Già prima che la creazione dell’Unione Economico Monetaria imponesse la riduzione dei disavanzi pubblici, molti Stati, gravati da significativi disavanzi pubblici, avevano usufruito della solidarietà comunitaria richiedendo prestiti. Ciò consentì alle istituzioni comunitarie di fissare le condizioni a cui essi dovevano volontariamente sottomettersi al fine di accedere al credito. Questo fu anche il caso dell’Italia[4] che, a fronte dell’impegno di ridurre il proprio settore pubblico, ottenne, agli inizi degli anni Novanta, ingenti finanziamenti dalla Commissione europea. Anche per questo si può affermare che le privatizzazioni abbiano goduto di un certo favor da parte del Consiglio e della Commissione, cosa che avrebbe portato la Comunità ad abbandonare la neutralità prevista dall’art. 295 del TCE (oggi art. 345 TFUE), utilizzando gli strumenti di cui disponeva per promuoverle.

3. La privatizzazione del settore bancario e la problematica della compatibilità delle fondazioni bancarie con il divieto di aiuti di Stato

I processi di privatizzazione non sono stati sempre forieri di un effettivo passaggio dal settore pubblicistico a quello privatistico. Al contrario, frequentemente, è accaduto che il ricorso ai meccanismi sottesi al diritto privato abbia prodotto come unico effetto quello di sottrarre determinate attività al regime di diritto pubblico[5]. In altre parole, il processo di privatizzazione è stato talvolta utilizzato solo come facciata da parte del legislatore, che si è limitato a trasformare gli enti pubblici in società, di fatto continuando a gestirli non più come proprietario ma come socio di maggioranza.

In questo senso è possibile distinguere i casi in cui la privatizzazione ha comportato effettivamente una trasformazione della natura e del regime applicabile all’ente pubblico, dai casi in cui tale passaggio da uno stato all’altro è stato solo formale, limitandosi tale metamorfosi ad un mero mutamento di facciata, e restando, di fatto, l’impresa partecipata, un ente privato ma comunque gestito dallo Stato e avente come obiettivo l’interesse pubblico più che il fine di lucro[6]. Gli interpreti hanno, così, distinto rispettivamente tra privatizzazione sostanziale (o calda) e privatizzazione formale (o fredda).

Va ribadito, come si è, tra l’altro, già avuto modo di anticipare, che in entrambi i casi vi era un passaggio formale da una struttura pubblicistica ad una privatistica dell’ente collettivo, con la differenza, però, che mentre nel primo caso vi era anche un cambiamento sotto il profilo dell’assetto proprietario e dirigenziale dell’impresa, dovendo lo Stato cedere le proprie quote ai privati, nel secondo tale trasferimento della proprietà non avveniva, riservandosi lo Stato la maggioranza del pacchetto azionario e quindi un peso preponderante nelle decisioni dell’assemblea della società.

All’inizio degli anni Novanta, quindi, il processo di privatizzazione è stato perlopiù caratterizzato dalla sola trasformazione degli enti pubblici in privati. Gli interventi normativi salienti sono stati costituiti dalle leggi Amato, legge 30 luglio 1990, n. 218 e il d.lgs. 20 novembre 1990, n. 356, le quali hanno disposto una generale ristrutturazione di banche ed istituti di credito[7]. Si prevedeva che tale mutamento avvenisse attraverso meccanismi di trasformazione, fusione e scissione degli enti creditizi, che dovevano passare dall’essere enti pubblici al diventare società per azioni. Tali meccanismi, peraltro, erano agevolati anche sotto il profilo fiscale, configurandosi peculiari regimi tributari che rendevano il passaggio dalla soggettività pubblica a quella privata meno gravoso.

È indicativo il fatto che il processo di privatizzazione, e quindi di trasformazione formale dell’ente pubblico in società per azioni, non era imposto dalla legge come obbligatorio, rimettendosi agli enti creditizi la facoltà di scegliere se adeguarsi alle direttive nazionali e sovranazionali o restare nello status quo. Nonostante la non vincolatività della trasformazione, però, gli istituti di credito scelsero tutti la strada della privatizzazione, entrando a fare parte del mercato concorrenziale creditizio[8] e separando le attività pubbliche da quelle private.

È altresì indicativo, poi, come le leggi Amato, che dettavano un complesso procedimento di privatizzazione di tali enti, puntassero scientemente a perseguire una trasformazione solo formale di tali imprese, attraverso il ricorso ad un meccanismo peculiare. Il legislatore, infatti, distinse l’attività bancaria, destinata a trasformarsi in un esercizio di stampo privatistico, dalle altre attività svolte dagli istituti di credito, destinate, al contrario, a restare di matrice pubblicistica. Proprio per lo svolgimento di queste seconde mansioni, nacquero le fondazioni bancarie.

Queste ultime avevano compiti diversi rispetto a quelli assegnati tradizionalmente alle banche: esse dovevano, infatti, occuparsi della ricerca scientifica, dell’istruzione, dell’arte e della sanità. I fondi per raggiungere tali obiettivi, e questo era il punto indicativo di una privatizzazione meramente formale, erano ricavati direttamente dalle azioni che tali fondazioni detenevano nelle S.p.A. bancarie conferitarie.

In tale contesto, quindi, l’ente bancario, che svolgeva attività creditizia, era privatizzato, non perseguendo alcun fine di matrice pubblicistica; viceversa, le fondazioni bancarie, detentrici dei pacchetti azionari di tali società, venivano ad essere finanziate dagli utili da essi derivanti per il raggiungimento di obiettivi di interesse sociale e collettivo.

È evidente, quindi, che lo Stato, di fatto, ben poteva continuare a controllare, stavolta come socio, l’operato delle imprese creditizie, attraverso i pacchetti azionari detenuti dalle fondazioni bancarie.

All’indomani della creazione di tali fondazioni, però, molteplici furono le perplessità sorte tra gli interpreti rispetto alla possibilità che tali enti esercitassero anche attività di natura bancaria e creditizia. La questione nacque perché il fatto che le fondazioni spesso detenevano la maggioranza dei pacchetti azionari delle società bancarie rischiava di entrare in contrasto con il divieto di aiuti di Stato imposto in sede europea.

Interrogata sulla questione, la Corte di Giustizia[9] ebbe modo di specificare che il mero possesso azionario non basta per configurare un aiuto di Stato, ben potendo gli altri soci, sebbene in minoranza, stipulare patti parasociali o sindacati di voto. I giudici del Lussemburgo si sono preoccupati di verificare se le fondazioni bancarie fossero o meno qualificabili come “imprese” ai fini della normativa dell’Unione europea in materia di aiuti di Stato. La Corte UE, sia con riferimento allo svolgimento dell’effettivo esercizio di controllo da parte della Fondazione della società conferitaria, sia con riferimento all’attività istituzionale dell’Ente, ha investito il giudice nazionale dell’onere di valutare caso per caso se l’attività della fondazione bancaria stessa concretizzi o meno “un’attività economica”. Qualora ne sia affermata la natura di impresa, o per il controllo di una società bancaria e di ingerenza nella sua gestione ovvero in relazione all’attività svolta in uno dei settori rilevanti, ad ogni fondazione devono applicarsi le norme comunitarie sugli aiuti di Stato.

4. Conclusioni

Va quindi rilevato che, sebbene la partecipazione sociale in re ipsa non costituisca aiuto di Stato, è pur vero che essa non lo esclude nemmeno aprioristicamente. Va, infatti, verificata di volta in volta e, quindi, in concreto, l’effettiva violazione dell’art. 107 TFUE.

Sul tema la giurisprudenza interna[10] si è mostrata, però, di segno opposto, in quanto si è al contrario sostenuto che la divisione dei soggetti privatistici da quelli che svolgono attività pubblica, come è avvenuto nel caso degli enti creditizi, non deve tradursi, come poi effettivamente è accaduto, in una mera trasformazione di facciata. In altre parole, il fatto che le fondazioni detenessero in concreto il controllo dell’assemblea delle società per azioni è stato considerato, dagli interpreti nazionali, come un mero meccanismo di elusione del processo di apertura alla concorrenza.

Per questo motivo, tale partecipazione, dapprima obbligatoria, divenne solo successivamente, in un’ottica di privatizzazione sostanziale, meramente facoltativa, tramutandosi in un modo per agevolare il passaggio da ente pubblico formalmente privato a ente privato a tutti gli effetti[11].

La materia bancaria è stata, poi, oggetto di diversi interventi normativi, tra cui si ricorda quello operato dalla “legge Ciampi”, legge delega 23 dicembre 1998, n. 461, con cui le fondazioni bancarie sono state definitivamente trasformate in soggetti di diritto privato, con la conseguenza che esse hanno ottenuto la piena autonomia, ma anche il compito di operare con economicità e nel rispetto del principio del pareggio di bilancio.

Con tale legge, inoltre, si imponeva la dismissione delle partecipazioni di controllo che le fondazioni bancarie avevano nelle società conferitarie, prevedendosi come limite massimo quattro anni, sebbene poi tale termine sia stato più e più volte prorogato.

 

 

 

 

 


Bibliografia
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Tanzi M., Sulle c.d. fondazioni bancarie: alcune considerazioni critiche, in Banca Borsa Tit. Cred., 2013.

[1] Si è autorevolmente sostenuto che “Il terzo strumento per realizzare il mercato interno è costituito dalla limitazione degli aiuti forniti dallo Stato alle imprese. (…) Può dirsi che le quattro libertà di circolazione hanno un posto nella formazione del mercato interno.” Così S. Cassese, La nuova costituzione economica, Roma-Bari, pp. 39 ss. In tema si vedano anche, tra gli altri, B. Raganelli, Frontiere di diritto pubblico dell’economia: concorrenza, regolamentazione, vigilanza e tutela, Cedam, Padova, 2019; M. Daniele, Diritto del mercato unico europeo, Milano, 2006, pp. 36 ss.; C. Malinconico, Aiuti di stato, in M. Chiti, G. Greco (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo, Tomo I, II edizione, Milano, pp. 97 ss.; P. Oliver, M. A. Jarvis, Free Movement of Goods in the European Community, Sweet and Maxwell, London, 2003.
[2] In tema, si vedano le sentenze della Corte di giustizia del 21 marzo 1990, causa C-142/87, Regno del Belgio c.  Commissione, detta “Tubemeuse”, in Racc., 1990, I-959, punto 25; del 14 settembre 1994, cause riunite da C-278/92 a C-280/92, Regno di Spagna c.  Commissione, in Racc., 1994, I-4103, punto 20; del 6 maggio 2002, causa C-482/99, Repubblica francese c. Commissione, in Racc., I-4397, punto 68; del 24 luglio 2003, causa C-280/00, Altmark Trans Gmbh Regierungprasidium e Magdeburg c. Nahverkehrsgesellschaft Altmark Gmbh, in Racc., 2003, I-7747, punti 74 e 75.
[3] Sul punto Sebastiani, La disciplina antitrust: gli aiuti di Stato, in Corso di Economia della regolamentazione e della concorrenza, a.a. 2016-2017.
[4] Decisione del Consiglio del 18 gennaio 1993, n.67, in GUCE L 22 del 30 gennaio 1993, p.121.
[5] Dipace R., I privati e il procedimento amministrativo, in M. A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2011, p. 179. Di convinzione opposta Irti N., Economia di mercato e interesse pubblico, in Riv Trim., 200, II, pp. 435 ss.
[6] Jaeger P.G., Problemi attuali delle privatizzazioni in Italia, in Giur. Comm., 1992, I, pp. 990 ss.; Bonelli F. e Roli M., Privatizzazioni, in Enc. Giur., IV, Milano 2000, pp. 994 ss.; Clarich M. e Pisaneschi A., Privatizzazioni, in Dig. Disc. Pubbl., Torino 2000, pp. 432 ss.
[7] Galgano F., Sulle cosiddette fondazioni bancarie, in contr. e impr., 1996; Merusi F., Dalla banca pubblica alla fondazione privata. Cronache di una riforma decennale, Torino, 2000; Clarich M. e Pisaneschi A., Fondazioni bancarie e regioni, in Giorn. Dir. Amm., 2002.
[8]  Schlesinger P., Le c.d. “fondazioni bancarie”, in Banca Borsa Tit. Cred., 1995.
[9] Corte di Giustizia, 10 gennaio 2006, C-222/04, in Foro it., p. 2006.
[10] Sul tema Corte di Cassazione, sez. unite, 29 dicembre 2006, n. 27619, in Giust. civ., 2009, 7-8, I, p. 1587.
[11] Tanzi P. M., Sulle c.d. fondazioni bancarie: alcune considerazioni critiche, in Banca Borsa Tit. Cred., 2013.

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