Gli animali: (s)oggetti deboli non più senza difese

Gli animali: (s)oggetti deboli non più senza difese

Corte di Cassazione Penale, Sez. 3^, Sentenza 06 settembre 2016, n. 36866;

Corte di Cassazione Penale, Sez. 3^, Sentenza 29 novembre 2016, n. 50491;

Tribunale di Firenze, ud. 14 aprile 2014 (dep.14 luglio 2014).

Il rapporto che lega l’uomo al proprio animale è risalente ed implica un sentimento d’amore, innato e spontaneo che dovrebbe unire entrambi (non a caso si parla di animale “d’affezione” o “da compagnia”).

Le statistiche, invece, testimoniano il contrario, riportando che, solo nel 2015, ammontano a più di 100.000 gli esemplari di cane abbandonati in Italia (dati regionali relativi al randagismo tratti dal portale del Ministero della Salute), numero che sarebbe largamente più esteso se si considerassero anche altre specie animali.

Il nostro ordinamento, proprio per combattere fenomeni terribili, quali il randagismo e la crudeltà verso gli animali, è intervenuto con la Legge quadro 281/1991, con la quale sono stati riconosciuti diritti fondamentali degli animali, quale quello alla vita, vietando la soppressione degli esemplari privi di padrone; inoltre, sono stati affidati compiti specifici alle regioni, ai diversi enti locali, alle Asl di competenza, ai professionisti veterinari, ma soprattutto ai padroni.

In questo senso si collocano i diversi strumenti di prevenzione di tali tristi episodi, come ad esempio i vari adempimenti di carattere amministrativo in capo ai padroni di specie canine (microchip e iscrizione all’anagrafe canina), aventi la doppia funzione di permettere la tracciabilità dell’animale in caso di smarrimento e, al contempo, del padrone in caso di abbandono.

Tale normativa è stata completata con l’apporto di una tutela specifica a livello penalistico attraverso la L. 20 luglio 2004, n. 189, con la quale si è inserito all’interno del codice penale un apposito titolo contenente i delitti contro il sentimento per gli animali (Titolo IX bis), modificato da ultimo dalla L. 2010, n. 201.

Insieme ai delitti il sistema viene completato da due contravvenzioni, poste agli articoli 727 e 727 bis c.p. – quest’ultimo introdotto con il D.Lgs. 121/2011 – importanti perché permettono la punizione di condotte di maltrattamento di animali di natura colposa.

È fondamentale rilevare la rivoluzione apportata dalla recente normativa, con cui si è rovesciata la stessa concezione giuridica degli animali, i quali acquisiscono finalmente un valore autonomo e diverso dalla logica di tutela che si ritrova nella fattispecie, ancora esistente, di cui all’art. 638 c.p. (Uccisione o danneggiamento di animali altrui).

Quest’ultimo reato, infatti, quale manifestazione del retaggio di un’economia prevalentemente agricola e incentrata sull’allevamento del bestiame, considera gli animali in quanto bene facente parte del patrimonio del soggetto.

In tal senso, il bene giuridico tutelato è il patrimonio e non l’essere vivente in sé, ponendosi l’accento sull’uccisione dell’animale “altrui” e sulla collocazione di tale fattispecie all’interno dei delitti contro il patrimonio.

Le nuove sanzioni penali, invece, sono poste a tutela dell’essere vivente in quanto tale, riconoscendo dignità alla vita degli animali e condannando l’uso della crudeltà nei loro confronti.

Gli animali, quindi, da oggetto di proprietà diventano (s)oggetto di affetto, la cui uccisione, maltrattamento o abbandono rilevano in sé e non quale diminuzione del patrimonio dell’uomo.

In quest’ottica evolutiva si inseriscono le sentenze qui in esame, le quali, ponendo come presupposto di tutela il benessere degli animali, estendono i concetti di abbandono e di maltrattamenti, specialmente in relazione alla fattispecie di cui all’art. 727 c.p.

Le prime due pronunce hanno ad oggetto degli animali da compagnia, mentre la terza concerne una particolare tipologia di animale.

Prima, però, di esaminare le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza nei casi in esame, è bene ricordare gli elementi costitutivi dei principali reati di maltrattamento e di abbandono di animale.

La fattispecie, mista e a forma libera, di cui all’art. 544 ter c.p., il cui contenuto ripropone la vecchia contravvenzione di cui all’art. 727 c.p., elevandone il contenuto a delitto, è costituita dall’elemento oggettivo delle “lesioni” o della sottoposizione dell’animale a “sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche ecologiche”. (Si riporta per completezza il testo integrale della fattispecie: Maltrattamento di animali. 1. Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche ecologiche è punito con la reclusione da tre mesi a un anno o con la multa da 3.000 a 15.000 euro. 2. La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi. 3. La pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte dell’animale)

Secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, il concetto di lesione è ampio, ricomprendendo non solo le diminuzioni fisiche, ma anche la sofferenza dell’animale causata da incuria e abbandono, in quanto essere vivente in grado di provare la sensazione del dolore (Cass. Pen. 3/12/2003 n. 46291).

L’elemento soggettivo, invece, è costituito dal dolo, prevedendosi anche il dolo specifico dell’agire “per crudeltà”, in alternanza alla condotta realizzata “senza necessità”, anche se riveste grande importanza la possibilità del dolo eventuale, inteso come previsione del rischio da parte del soggetto di arrecare una sofferenza all’animale mediante la propria condotta.

La contravvenzione di cui all’art. 727 c.p. si compone, invece, di due ipotesi differenti: la condotta di abbandono, intesa in senso ampio sulla medesima ratio del delitto di “abbandono di persona incapace”, ricomprendendo, quindi, non solo il distacco reale e definitivo dell’animale dal padrone, ma anche la trascuratezza dell’animale nella consapevolezza che lo stesso sia un organismo vivente incapace di provvedere a se stesso in autonomia;

la condotta di detenzione dell’animale “in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze”. (Si riporta il testo integrale della fattispecie in esame: Abbandono di animali. 1. Chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro. 2. Alla stessa pena soggiace chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze).

Dopo aver richiamato sommariamente il contesto e le norme a tutela di tali esseri viventi, veniamo ad esaminare le pronunce richiamate in apertura, le quali, prendendo in analisi le due ipotesi di abbandono dell’art. 727 c.p., fanno riflettere non solo giuridicamente, ma soprattutto umanamente.

L’unica sentenza di merito riportata tratta di un caso a cui assistiamo costantemente nell’ambito della ristorazione: l’esposizione delle aragoste vive sul ghiaccio con le chele sigillate.

Forse tale episodio ci allontana un po’ dal contesto del maltrattamento subito dagli animali da compagnia, coinvolgendo alcuni temi, altrettanto caldi, quali quello della tutela degli animali destinati al consumo, però, esso assume grande rilevanza proprio per comprendere la protezione che il nostro ordinamento assicura agli esseri più deboli.

Il punto di partenza del caso in esame sono alcuni studi scientifici, i quali hanno dimostrato che anche i crostacei, nella specie le aragoste, sono in grado di provare dolore e di averne memoria. Tale assunto si ritiene valido sulla base del fatto che tali specie, ricordando un’esperienza negativa indotta, decidono di modificare la propria direzione, nonché comportamento, nel momento in cui la medesima situazione si ripresenti.

Da questa constatazione un’importante associazione animalista decide di denunciare un ristorante per il delitto di cui all’art. 727/2 c.p., per aver detenuto alcuni esemplari di aragoste, ancora vive, all’interno di un frigorifero con una temperatura prossima allo zero, quindi, “in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze”.

A questo riguardo si è pronunciata proprio qualche giorno fa anche la Suprema Corte (sentenza non riportata in apertura in quanto non sono ancora noti gli estremi) che, accogliendo la visione propugnata dall’accusa, ha confermato la condanna del ristoratore per la contravvenzione sopra richiamata.

Tale pronuncia non è di poco conto, specie per le duplici conseguenze a cui può condurre.

La stessa, infatti, potrebbe svolgere, primariamente, la funzione di apripista per future denunce da parte di privati che hanno a cuore le specie animali.

Ma, si ripongono speranze, seppur non nel breve termine, che questa porti il legislatore ad emanare norme che vietino tali pratiche di conservazione degli animali destinati al consumo, potendo solo anelare al divieto del consumo di carne animale a monte.

Esaminando la tutela degli animali di compagnia, le pronunce di legittimità richiamate in apertura amplificano il concetto di “detenzione incompatibile” di cui all’art. 727/2 c.p.

La Suprema Corte, infatti, con la pronuncia n. 50491/2016, ha ritenuto integrato il reato nei confronti del proprietario di un cane, il quale faceva indossare continuamente all’animale un collare elettrico.

Questo strumento permette di colpire il cane con una scossa elettrica di basso voltaggio in modo da impedire allo stesso di abbaiare o per addestrarlo a non eseguire determinate condotte.

Non potrebbe esprimersi meglio quanto statuito nella recente sentenza, che, richiamando la tesi fatta propria dal Tribunale, conclude affermando che: “l’utilizzo di detto collare integri il delitto di maltrattamento di animali, sottolineando come l’inflizione di scariche elettriche sia produttiva di sofferenze e di conseguenze anche sul sistema nervoso dell’animale, in quanto volto ad addestrarlo attraverso lo spavento e la sofferenza, affermando di conseguenza la responsabilità dell’imputato al riguardo, in considerazione della intenzionalità dell’uso di detto collare (Cass. Sez. III, n. 50491/2016)”.

Gli orientamenti qui riportati servono a far comprendere come il concetto di detenzione incompatibile assuma forme sempre più variegate e che il punto di riferimento costante debba essere il benessere dell’animale, che, in quanto soggetto debole, al pari di minori e incapaci, ha bisogno di protezione costante.

A tal proposito, interessa esaminare l’ultima pronuncia richiamata, la sentenza della Corte di Cassazione n. 36866/2016, nella quale l’organo di legittimità ha ritenuto integrato il reato di cui all’art. 727/2 c.p., ancora nei confronti del proprietario di un cane.

Nello specifico, il soggetto aveva lasciato vivere il proprio animale in un giardino, lontano dalla propria abitazione, in condizioni igienico sanitarie precarie e produttive di sofferenza per la creatura.

La Suprema Corte, richiamando i propri orientamenti conferma che “costituiscono maltrattamenti, idonei ad integrare il reato di abbandono di animali, non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica degli stessi, procurando loro dolore e afflizione (Cass., Sez. III, n. 36866/2016; Cass. sent. n. 23723/2016; Cass. sent. n. 46560/2015)”.

È importante, poi, il rilievo dell’organo di legittimità circa le fonti da cui poter desumere le sofferenze provate dall’animale, puntualizzando che per gli animali domestici può soccorrere il “patrimonio di comune esperienza e conoscenza” (Cass. Sez. III, n. 36866/2016).

Non bisogna dimenticare, poi, che, trattandosi di un reato contravvenzionale, la punibilità è possibile sia a titolo di dolo che di colpa, con la conseguenza che verranno censurate anche le condotte dovute a negligenza, trascuratezza e noncuranza.

Si può e si deve fare ancora molto per la tutela dei soggetti deboli e le pronunce qui esaminate, insieme al complesso normativo esistente, rappresentano sicuramente dei passi in avanti.

Ciò che colpisce è che la modernità della società in cui viviamo è un concetto volatile, in quanto ai progressi tecnologici e giuridici si accompagna una spaventosa assenza di basilari principi di civiltà e dell’educazione fondata sul rispetto che porta alla realizzazione di episodi che non dovrebbero esistere nemmeno a livello della nuda cogitatio.


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