Hotspot e minori non accompagnati: il caso CEDU Trawalli c. Italia

Hotspot e minori non accompagnati: il caso CEDU Trawalli c. Italia

Voci di provenienza eterogenea giudicano ormai alla stregua di un tendenzioso cliché, oltreché cardine di impopolari strumentalizzazioni politiche, l’antico imperativo che si regge sul dovere di rendere l’Europa un sicuro rifugio per chi teme persecuzioni. Se, da un lato, la Commissione europea – nel proclamare perentoriamente lo “spirit of solidarityex articolo 222 TFUE (cuore pulsante degli originari progetti di Unione nonché riflesso della volontà dei Padri Fondatori, interpreti di un’epoca avvezza al dramma dei muri e delle divisioni) – ha inserito il tema delle migrazioni tra le dieci priorità che devono governare le decisioni comunitarie[1], da un altro, le relazioni annuali sui risultati conseguiti dalle Parti Contraenti, sotto la voce “migration and home affairs”, ritraggono eloquentemente la disomogenea condivisione di responsabilità.

L’attività di “relocation” (“ricollocamento”) delle persone bisognose di protezione internazionale, se rapportata alle richieste di asilo registrate complessivamente nell’anno 2017, testimonia una vistosa sproporzione tra gli impegni statuali a svantaggio dei Paesi cosiddetti di “primo approdo”[2]. All’interno di un diagramma ideale, tracciato secondo un climax discendente, lo Stato italiano occuperebbe il primo posto assieme alla Grecia. Tuttavia, certamente, non rappresenta questa la sede appropriata per discussioni politiche, lontane ratione materiae dai miei interessi giuridici.

Lungi dall’assecondare stereotipi che permeano la cultura di massa, volutamente immemore dello sgradevole clima di diffidenza e (malcelata) derisione di cui si fecero portatori gli strascichi dell’emigrazione italiana nel dopoguerra, apprendo – inerte, mio malgrado – che il Governo italiano per l’ennesima volta è imputato in un processo a Strasburgo, reo, mutatis mutandis, di aver violato un consistente numero di diritti umani.

Mi perdonino gli studiosi della materia se mi soffermo – per un attimo – a rimarcare un concetto che, nel marasma alimentato dalla “chiassosa” propaganda populista, pare quasi essere sfuggito alla mente di quanti, oggigiorno, giungono a rendere plausibile la totale negazione degli stessi. Reputo, infatti, lapalissiano che sia irrealizzabile una relativizzazione di taluni dei nostri più importanti diritti (es. alla vita ex articolo 2 CEDU o il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti ex articolo 3), figlia di nauseanti derive totalitariste. La storia insegna che ciò renderebbe, del resto, derogabili le garanzie basilari di cui godono i soggetti vulnerabili (per antonomasia, inter alia, detenuti, minori e stranieri).

Eppure mutano gli attori, ma la storia sembra seguire sempre lo stesso “copione”. In Italia, non è insolito assistere a violazioni che astrattamente si connotano come isolate ma che in realtà preludono al nascere di una più ampia crisi, dai profili endemici (basti pensare alla cronica anomalia del sovraffollamento carcerario).

La mala gestio dell’emergenza migratoria è reiterata caparbiamente dalla disciplina degli hotspot, anch’essa di provenienza comunitaria. I cosiddetti “punti di crisi” non identificano soltanto un luogo fisico nei quali concentrare i flussi e razionalizzare le pratiche necessarie alla identificazione e registrazione ma – come riflette l’Agenda Europea sulla Migrazione del 2015 – rappresentano una modalità operativa che si prefigge di gestire l’emergenza migratoria sulla base di tre canali: asilo, riallocazione o rimpatri.

Se certamente il trattenimento in tali centri risponde ad un lodevole intento di ordine pubblico, teso a limitare gli ingressi irregolari, non altrettanto virtuoso sembrerebbe il pratico modus operandi.

A ben vedere, il rinnovato nomen iuris, di cui si “travestono” i tradizionali centri di prima accoglienza, esplica una portata elusiva in quanto vale ad ingentilire – “sotto mentite spoglie” – malcelate detenzioni, rispondenti unicamente a criteri di arbitrarietà. Per dirla in altri termini, il vero punctum dolens, e già motivo di condanna a carico dell’Italia nel 2016 (sentenza della Grande Camera del 15.12.2016, relativa al caso Khlaifia e altri c. Italia) è la noncuranza del legislatore italiano nel ricondurre entro i crismi della legalità un approccio che era stato bollato come risolutivo dagli stessi competenti organismi europei.

Ciò che maggiormente ha fatto “storcere il naso” ai giudici di Strasburgo è il consueto clima di incertezza e disorganicità, comune denominatore di una larga percentuale di interventi in materia, tutti ascrivibili ad una tendenza regressiva in tema di libertà personale.

Sotto il profilo procedurale, il recepimento del metodo hotspot attraverso un nugolo di circolari del Ministero dell’Interno configurerebbe una sorta di “delega in bianco” che conferisce alle autorità di polizia un’ampissima discrezionalità nella gestione della crisi, nel più totale disinteresse della riserva di legge assoluta che l’articolo 13 § 2 della Costituzione pone in materia e dell’articolo 5 § 1 CEDU, elevando allo status di regola quella che la lettera f) (“No one shall be deprived of his liberty save in the following cases: [..] the lawful arrest or detention of a person to prevent his effecting an unauthorised entry into the country [..]”) definisce quale mera eccezione.

D’altro canto, il carattere fumoso ed evanescente di atti non aventi carattere vincolante lascia presagire il forte rischio che siffatte misure possano rendersi foriere, “in entrambe le direzioni”, di gravi violazioni dei diritti tutelati dalla Convenzione europea.

Infatti, l’assenza di una cornice di regole certe, in grado di predefinire i margini di azione riconosciuti agli operatori incaricati nel settore, reca con sé il pericolo, tutt’altro che aleatorio, che gli stranieri “in clear needs of protection” subiscano l’irragionevole respingimento delle relative richieste d’aiuto, come imporrebbe l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra (sancendo il principio del non-refoulement).

Contemporaneamente non meno realistica (e non sottacibile, in onor di una disamina poliedrica della questione) è l’ipotesi che le frontiere vengano aperte quand’anche risultino integrati gli estremi del reato di immigrazione clandestina (articolo 10-bis, decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286).

L’escalation di violenza e di crimini che ne conseguono, e che la stampa nazionale documenta di frequente, sono suscettibili di far sorgere una responsabilità in capo allo Stato italiano per la violazione dei diritti alla vita ed al rispetto della vita privata dei suoi cittadini (articoli 2-8 CEDU), studiati nei volet procedurali, con l’accusa di non aver predisposto un adeguato quadro legislativo ed amministrativo in grado di evitare le distorsioni del sistema, quale effetto di massicci ingressi irregolari.

Per tali ragioni, perplessità continueranno a destare quelli che Carofiglio ha definito come “luoghi di galera amministrativa”, fonte di violazioni sistemiche da parte dell’Italia, fintantoché “macchiati” dallo stigma dell’assenza di una base normativa, unico vero spartiacque tra legittime istanze securitarie che impongono il trattenimento in buona fede e la disumana e irragionevole privazione dello status libertatis (che conduce poi ad espulsioni abusive).

A una dottrina maggioritaria non è apparso esente da ombre neppure il più recente tentativo di codificare la disciplina dei “punti di crisi” inserendo, con legge ordinaria n. 46/2017, l’articolo 10 ter nel Testo Unico sull’immigrazione (citato decreto legislativo n. 286). Si tratterebbe sì di una fonte di rango primario, in ossequio al principio di legalità e perciò salutata favorevolmente dal legislatore nazionale, inidonea però ad offrire, a sua volta, reali prospettive di “bonifica” della palude normativa in cui pare essere sprofondato irreversibilmente l’ordinamento giuridico statale[3].

Non meno delicata è la situazione che sottende l’ultimo ricorso dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), relativo al nascente caso Trawalli e altri c. Italia[4], depositato nel luglio del 2017. Esattamente lo scorso mese la Corte europea dei diritti dell’uomo, dopo averne dichiarato l’ammissibilità, ha inviato al Governo una comunicazione con la quale gli si chiede di fornire chiarimenti in merito a una serie di profili di diritto che ineriscono alla vicenda de qua.

Sullo Stato italiano incombe, non soltanto, l’onere di superare le gravose accuse di illegittimità di cui è ormai, diffusamente, vituperata la volubile governance del fenomeno, ma altresì di confutare – entrando in medias res – le imputazioni mossegli dall’associazione fautrice dei diritti umani. La complessità del caso di specie è inspessita dall’aggrovigliarsi di ulteriori, delicati profili fattuali: il trattenimento sine die all’interno dell’hotspot di Taranto – interamente demandato alla discrezionalità amministrativa e secondo modalità di coazione fisica imprecisate – riguarda tredici minori non accompagnati, tutti provenienti da territori teatro di guerre e di crimini contro l’umanità.

Inoltre, l’assenza di qualsivoglia forma di assistenza legale, sociale, sanitaria e psicologica, le condizioni igienico-sanitarie al limite della dignità umana, di promiscuità con adulti e di sovraffollamento all’interno del perimetro dell’area deputata ad accoglierli, considerata anche la posizione vulnerabile in cui versano i ricorrenti, portatori di specifiche istanze di tutela, rappresentano un cumulo di fattori tutti sintomatici del fatto che potrebbe risultare integrata una gran mole di violazioni: dal divieto di trattamenti inumani e degradanti (articolo 3 CEDU), al diritto alla libertà personale (5), al rispetto della vita privata (8) fino al diritto a un ricorso effettivo (13).

In attesa di conoscere, all’esito del processo, quale sarà il responso di Strasburgo, un dato è chiaramente desumibile dalla presente analisi: i tempi sono sufficientemente maturi affinché il legislatore, finora mostratosi silente, inauguri dei rinnovati piani di gestione della crisi.

Per fare questo e onde evitare nuove future condanne a carico dell’Italia, occorre che prassi, come quella basata sugli hotspot, non vengano asetticamente trasposte sul piano domestico, nel più totale spregio dei nostri valori costituzionali. L’ultimo caso, i cui profili si intrecciano con la problematica non meno complessa della salvaguardia del fanciullo, potrebbe assurgere a monito decisivo, facendo da anticamera di una imponente riforma garantista, a conferma di quanto, nell’immaginario collettivo, i cosiddetti “punti di crisi” siano raffigurati quale metafora della irregolarità, dell’inefficienza e della violazione dei diritti umani.


[1] https://ec.europa.eu/commission/priorities_it (14/02/2018)

[2] https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/what-we-do/policies/european-agenda-migration/20170613_thirteenth_report_on_relocation_and_resettlement_annex_3_en.pdf (14/02/2018)

[3] Per un’analisi più dettagliata si rinvia a L. MASERA, I centri di detenzione amministrativa cambiano nome ed aumentano di numero, e gli hotspot rimangono privi di base legale: le sconfortanti novità del decreto Minniti in Diritto penale contemporaneo 3, 2017.

[4] Corte eu. dei diritti dell’uomo, Trawalli e altri c. Italia (communicated case), ricorso n. 47287/17, 11.01.2018.


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